1) Un italiano che manifesta dissenso e disagio non rompe le scatole, e queste parole hanno scatenato una reazione
2) Le ultime parole di Pionati: "ecco cosa è l'italia di oggi"
Appunto. Un politico ascolta, dialoga, media, non insulta.
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
Denis Verdini
Vogliono la fiducia dei cittadini in questo momento nero? Se la guadagnino. Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione non possono chiedere un centesimo agli italiani senza parallelamente (anzi: prima) tagliare qualcosa di loro. Conosciamo l'obiezione: non sarà un taglio di 1000 euro dallo stipendio reale (l'indennità è solo una parte) di deputati e senatori a risolvere il problema. Perfino se tutti fossero condannati a lavorare gratis risolveremmo un settemillesimo della manovra. Vero. Ma stavolta non hanno scelta: è in gioco la loro credibilità.
Per partire devono aver chiaro un punto: il perfetto è nemico del bene. In attesa di una ridefinizione generale dello Stato (campa cavallo) certe cose si possono fare subito. Alcune simboliche, altre di sostanza.
Sono stati presentati nove progetti di legge, dall'inizio della legislatura, per ridurre o addirittura dimezzare il numero dei parlamentari. Da destra, da sinistra... Dove sono finiti? Boh... Sono tutti d'accordo, a parole? Lo facciano, quel taglio. Senza allegarci niente. Sennò finisce come sempre finisce: la sinistra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla destra, la destra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla sinistra. E tutto resta come prima. Esattamente il giochino della riforma bocciata al referendum del 2006, che vedeva sì una modesta riduzione da 630 a 518 deputati, da 315 a 252 senatori (non il dimezzamento sbandierato: quella è una frottola) ma anche uno svuotamento dei poteri del Quirinale e un aumento dei poteri del premier. Dettagli che garantivano la bocciatura: la sinistra non l'avrebbe votato mai. Vogliono ridurre davvero? Trovino un accordo e lo votino tutti insieme: non servirà neanche il referendum confermativo. Sennò i cittadini sono autorizzati a pensare che sia solo propaganda. Come propaganda appare per ora la mega-maxi-super-riforma votata dal Consiglio dei ministri il 22 luglio. Se era così urgente perché non risulta ancora depositata e non se ne trova traccia neanche nel sito di Palazzo Chigi? Era sufficiente l'annuncio stampa? Forse erano più urgenti le vacanze.
Non si possono abolire subito le province senza ripartire parallelamente le competenze e i dipendenti? Comincino a toglierle dal tabù della Costituzione e a sopprimere quelle che hanno come capoluogo la capitale regionale destinata a diventare area metropolitana o non arrivano a un numero minimo di abitanti.
Vogliono inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione? Inizino col riconoscere, concretamente, che la cosa oggi più lontana dal pareggio sono le pensioni dei parlamentari: alla Regione Lazio i contributi versati sono un decimo di quanto esce per i vitalizi. Alla Camera e al Senato un undicesimo. Al netto dei reciproci versamenti addirittura un tredicesimo. Immaginiamo la rivolta: non si toccano i diritti acquisiti! Sarà, ma quelli dei cittadini sono già stati toccati più volte.
Deve partire una stagione di liberalizzazione? Partano introducendo una regoletta esistente nei Paesi più seri: un deputato pagato per fare il deputato può far solo il deputato. Un caso come quello di Antonio Gaglione, il parlamentare pugliese espulso dal Pd per avere bucato il 93% delle sedute e così assenteista («preferisco fare il medico»), da bigiare addirittura il passaggio chiave del 14 dicembre scorso che vide Berlusconi salvarsi per pochissimi voti dalla mozione di sfiducia, in America è impensabile. E così quelli dei tanti avvocati (uno su sette alla Camera, uno su sette al Senato) e professionisti di ogni genere che pretendono di fare l'una e l'altra cosa. Dice uno studio de «lavoce.info» che un professionista che continua a fare il suo lavoro anche dopo l'elezione «bigia» in media il 37% in più degli altri parlamentari. Basta.
Negano di intascare i soldi destinati ai collaboratori non messi in regola e pagati in nero? La riforma è già pronta e depositata: il deputato o il senatore fornisce al Parlamento il nome del collaboratore di fiducia e questi viene pagato direttamente dal Parlamento. Ed ecco che l'«equivoco infamante» su certe furbizie sarebbe all'istante risolto.
Il vero cambiamento, però, quella rivoluzionario, sarebbe la decisione di spalancare finalmente le porte alla legittima curiosità dei cittadini. Massima trasparenza: quella sarebbe la svolta epocale. Se un americano vuole vedere se «quel» deputato che si batte per la ricerca farmaceutica ha avuto finanziamenti, commesse, incarichi professionali da un'azienda di prodotti farmaceutici va su Internet e trova tutto. Se un tedesco vuol sapere se «quel» deputato ha guadagnato dei soldi fuori dal Parlamento e in che modo, va su Internet e trova tutto. Se un inglese vuole conoscere i nomi di chi quel giorno ha viaggiato su quel volo blu dal 1997 ad oggi o quanto spendono a Buckingham Palace per le bottiglie di vino va su Internet e trova tutto.
Da noi per avere le sole dichiarazioni dei redditi dei parlamentari un cittadino di Vipiteno o di Capo Passero deve andare a Roma, presentarsi in un certo ufficio della Camera o del Senato, dimostrare di essere iscritto alle liste elettorali e poi accontentarsi di sfogliare un volume senza manco la possibilità di fare fotocopie. Per non dire del Quirinale dove ogni presidente, per quanto galantuomo sia, pur di non smentire la cautela del predecessore, mantiene riservato il bilancio del Colle limitandosi a dare delle linee generali. Che magari sono sempre meno oscure ma certo sono lontanissime dalla trasparenza britannica.
Un prelievo fiscale compreso tra l'1 e il due per cento ai redditi superiori al milione di euro. E' la manovra allo studio del governo francese che, rispetto all'Italia, già "tartassa" i redditi alti con la patrimoniale.
A Wall Street, lo chiamano «il concorso di bruttezza» – la battaglia tra America ed Europa per stabilire chi stia peggio, tra economie in tracollo, deficit enormi e monete allo sbando. Venerdì sera la competizione è diventata ancora più brutta. Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno perso l’importantissima «tripla A». L’agenzia di credit ratingStandard & Poor’s ha bocciato la politica economica Usa, togliendo al Paese il rating più alto – un imprimatur che, per 70 anni, ha rassicurato investitori e governi del fatto che lo zio Sam paga sempre i suoi debiti. La decisione bomba della S&P è stata subito contestata dall’amministrazione Obama che ha accusato l’agenzia di un errore di calcolo di 2 triliardi di dollari. S&P – una delle tre «big» nel mondo del rating che contribuì alla crisi finanziaria del 2008 - non è certo senza peccato. Ma il tempo delle recriminazioni è ormai passato. La mossa-choc di S&P è arrivata alla fine di settimane campali in cui i due pilastri dell’economia mondiale – l’America e l’Europa – hanno vacillato pericolosamente. Gli Stati Uniti sono partiti per primi, con un accordo sulla riduzione del loro debito enorme che non ha soddisfatto nessuno. Il governo Obama e
Per
L’unica strada per uscire dalla crisi senza abbandonare l’euro passa per una maggiore integrazione fiscale tra i Paesi membri. Ovvero: Paesi i cui governi si sono dimostrati non all’altezza di gestire la propria economia dovranno delegare le loro politiche di tassazione e spesa ad un’entità europea. E’ un passo enorme, una cessione di sovranità che lascerebbe l’amaro in bocca a molti, soprattutto perché
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2011/08/cersasi-supereroe.html