lunedì 10 ottobre 2011

Cucinare in lavastoviglie, l'ultima frontiera del risparmio energetico.






Roma, 8 ott. (Adnkronos) - Come primo un couscous con zucchine, piselli e menta, per secondo il rombo su letto di porri, crema di baccelli e germogli e per finire un dessert alle ciliegie con panna e pistacchi. Niente male come menu', ma la sua particolarita' e' che tutte le portate sono state cotte in lavastoviglie. Sembra impossibile, ma non lo e': cucinare in lavastoviglie non solo e' semplice e sicuro, ma anche sostenibile perche' permette di cuocere a costo zero senza sprecare ulteriore acqua o energia.


Basta utilizzare i contenitori giusti perche' gli alimenti non vengano a contatto con i detersivi, e poi scegliere il ciclo di lavaggio piu' adatto a ogni preparazione, tenendo conto dei tempi e delle temperature dell'elettrodomestico. Per esempio, per cuocere un uovo a 60-65°C, e ottenere una vera e propria delizia, ci sono due possibilita': o immergere l'uovo in una pentola d'acqua e monitorare la temperatura costantemente per almeno un'ora, oppure metterlo in un vasetto di vetro, aggiungere acqua, chiudere bene il coperchio e inserirlo in lavastoviglie, tra i piatti da lavare. Una volta selezionato il ciclo di lavaggio 'normale', che oscilla tra i 50 e i 70°C, il gioco e' fatto.
L'acqua e il vapore del lavaggio penseranno a cuocere la pietanza al posto nostro e il risultato sara' sorprendente, perche' le cotture che utilizzano le basse temperature permettono di preservare ed esaltare le proprieta' nutritive e organolettiche dei cibi. Basta seguire alcune linee guida e iniziare, per stare sicuri, con le ricette di Lisa Casali, eco-foodblogger con la passione per la cucina, che dopo aver sperimentato la tecnica con successo, ha scritto il libro "Cucinare in lavastoviglie. Gusto, sostenibilita' e risparmio con un metodo rivoluzionario".
Il volume, pubblicato da Edizioni Gribaudo, contiene ricette che esaltano le virtu' della cottura a bassa temperatura, quella del lavaggio in lavastoviglie che oscilla tra i 55 e i 75°C, perfetta per cotture lunghe e delicate, facili e a ridotto impatto ambientale. Tutti i modelli di lavastoviglie, spiega la Casali, hanno almeno quattro programmi di lavaggio in comune (rapido, eco, normale e intensivo), ognuno con specifiche durate e temperature.
Le ricette proposte sono studiate per essere pronte esattamente nel tempo del ciclo di lavaggio scelto.Cosi', mentre la lavastoviglie e' in funzione, si puo' sfruttare la durata del programma (da 30 minuti a 3 ore circa) per preparare raffinate pietanze senza dover badare alle pentole sul fuoco.Basta inserire gli ingredienti indicati nelle ricette nei vasetti di vetro o nei sacchetti per alimenti, trovare lo spazio giusto tra piatti e bicchieri e lanciare il lavaggio.
Niente paura per quanto riguarda l'igiene: le analisi chimiche effettuate su alcuni campioni di pietanze preparate dalla Casali in lavastoviglie dimostrano che impiegando i giusti contenitori non c'e' rischio di contaminazione, senza contare che la cottura in lavastoviglie elimina anche il fastidioso problema degli odori che invadono casa quando si cucina con metodi tradizionali.
Insomma, basta superare l'iniziale diffidenza, abbandonare ogni pregiudizio e cimentarsi con i menu' proposti nel libro, uno per ogni stagione. Perche' per essere davvero sostenibili bisogna fare attenzione alle materie prime e scegliere quelle che la natura mette a disposizione nei vari periodi dell'anno. No a pesci, crostacei o molluschi sovrasfruttati o a rischio di estinzione, si' ai tagli di carne seconda e terza scelta.
I pasti preparati in lavastoviglie stupiranno, secondo l'autrice del libro, per gusto e aroma. E in piu', alcuni alimenti cotti con questo metodo, possono essere conservati in frigorifero anche fino a 3 giorni.
Naturalmente, anche il libro "Cucinare in lavastoviglie" e' attento all'ambiente: oltre a scegliere carta certificata si sono compensate le emissioni di Co2 derivanti dalla stampa delle varie copie aderendo al progetto Impatto Zero di Lifegate.



L’associazione del Garda rifiuta Brancher “E’ condannato, si faccia da parte” - di Mario Portanova




Nel processo sulla scalata di Antonveneta il parlamentare del Pdl ha preso due anni in via definitiva per ricettazione e appropriazione indebita. Contro di lui pronte le interpellanze degli amministratori locali: "'Lago di Garda tutto l'anno' è un'istituzione pubblica e la sua carica è incompatibile".

Dopo aver stabilito il record di ministro più breve d’Italia (dal 18 giugno al 6 luglio 2010 è stato ministro per l’attuazione del federalismo del quarto governo Berlusconi), il parlamentare del Pdl Aldo Brancher rischia di perdere un’altra poltrona. Motivo: la condanna definitiva a due anni di reclusione per ricettazione e appropriazione indebita rimediata al processo sulla scalata di Antonveneta, ramo del noto scandalo dei “furbetti del quartierino”.

Brancher, infatti, è presidente di Lago di Garda tutto l’anno, un’associazione di 25 comuni della Riviera, tra Veneto, Lombardia e Trentino: da Riva a Desenzano, da Sirmione a Salò, da Malcesine a Lonato, e così via. Solo che in molti consigli comunali coinvolti nel progetto spira aria di rivolta e sono in arrivo interpellanze contro il presidente-parlamentare. “Lago di Garda tutto l’anno” è un’istituzione partecipata da Comuni, quindi – questa la tesi – regolata dal Testo unico sugli enti locali. Che vieta la presidenza di organizzazioni di quel tipo a chi è stato condannato in via definitiva a una pena non inferiore a due anni.

“Lago di Garda tutto l’anno” è costituita il 16 aprile 2011, previa approvazione della relativa delibera da parte di tutti i consigli comunali coinvolti. I Comuni non hanno alcun impegno finanziario – il progetto è raccogliere fondi da sponsor privati – ma in occasione delle manifestazioni devono fornire “senza oneri” agli organizzatori “spazi pubblicitari, suolo pubblico, autorizzazioni, utenze, allestimenti, impianti di amplificazione, pulizia, custodia” e altri servizi che un costo ce l’hanno.

Proprio il veneto Brancher ne è stato l’ispiratore e promotore. Da un po’ l’ex prete diventato manager di Publitalia, e protagonista di numerose vicende giudiziarie, si dà da fare nel settore turistico lacustre. Il 14 gennaio era stato nominato presidente – con firma del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del ministro dell’Economia Giulio Tremonti – dell’Organismo di indirizzo, un nuovo ente parastatale dotato di fondi pubblici per 160 milioni di euro destinati “ai soli comuni veneti e lombardi delle fasce di confine di Trento e Bolzano”, come ricostruisce una recente inchiesta dell’Espresso.

Brancher diventa presidente della neonata associazione (inutile cercare l’organigramma sul sito dell’ente), anche se gli grava sulle spalle una condanna in appello a due anni di reclusione per ricettazione e appropriazione indebita. Non certo un bel biglietto da visita per l’amministratore di un’associazione pubblica. Il 4 agosto la Corte di cassazione respinge il ricorso del parlamentare: la condanna diventa definitiva e va ad aggiungersi a un curriculm giudiziario già movimentato.

Poco più di una settimana dopo, il 13 agosto, “Lago di Garda tutto l’anno” debutta a Malcesine con la sua prima iniziativa, “La grande notte delle stelle”, con un’esibizione di Enrico Ruggeri e fuochi d’artificio fnali, iniziativa che suscita perplessità sul rapporto tra i costi e i benefici reali.

Passata l’estate, il malcontento di diversi amministratori locali verso questo nuovo ente che spende soldi pubblici in nome della promozione turistica proprio mentre i tagli falciano gli uffici pubblici preposti intravede una via di sfogo. Il Testo unico sugli enti locali (decreto legislativo 267 del 2000), all’articolo 58 recita: “Non possono ricoprire le cariche di presidente delle aziende speciali e istituzioni (…) coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva a una pena definitiva non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo”. E una volta venuto a conoscenza della condanna, “l’organo che ha provveduto alla nomina” deve revocarla.

Su questa base, diversi consiglieri dei comuni coinvolti stanno preparando interpellanze per sollevare il caso, e alcuni di loro frequentano la pagina Facebook anti-Brancher. Se la legge è dalla loro parte lo stabilirà nel caso un giudice. Ma la curiosità sui criteri di meritocrazia che regolano le carriere nel fronte berlusconiano resta.


domenica 9 ottobre 2011

La Gelmini ci riprova: “I neutrini sono viaggiati nel tunnel tecnologico”.






Una lunga intervista del quotidiano “La Repubblica”. Maria Stella Gelmini torna sulla questione del tunnel dei neutrini. Il giornalista le chiede: Quel giorno eravate al Quirinale, avevate affidato il comunicato (sul tunnel ndr) a un giovane, non l’avete controllato. 
La Gelmini prova a correre ai ripari: “Al primo incidente di percorso ho pagato un prezzo alto, sono stata travolta dalla velocità di internet e dalla replica sbagliata: il secondo comunicato parlava di polemiche strumentali e non erano parole mie. Bastava chiedere scusa, e farci su un po’ d’ironia. So che non esiste un tunnel da Ginevra al Gran Sasso, ho visitato il Cern e non ho visto tunnel. Bastava mettere quella parola tra virgolette e aggiungere tecnologico: 



“il “tunnel tecnologico” dentro il quale sono viaggiati i neutrini”


Sono viaggiati? Nel tunnel tecnologico?


http://www.letteraviola.it/2011/10/la-gelmini-ci-riprova-i-neutrini-sono-viaggiati-nel-tunnel-tecnologico/



                                        
                                                  

Carcere, circolare choc del Dap: “Non ci sono più soldi per i pasti dei detenuti”. - di David Marceddu




L'allarme lanciato dagli agenti di polizia penitenziaria: "Unica soluzione al sovraffollamento sarebbe far uscire i tossicodipendenti". Ma il problema cibo resta grave e al momento irrisolvibile.

In Italia non ci sono più soldi perfino per comprare il cibo da dare i detenuti. “Abbiamo ricevuto una comunicazione la scorsa settimana dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap, ndr): ci comunicano che iniziano a mancare anche i soldi per comprare il cibo dei detenuti”. La missiva/allarme arriva dalla direzione della Dozza, il carcere sovraffollato di Bologna e porta come sottinteso un “arrangiatevi un po’ come potete”, perché i denari iniziano a mancare. Altro che rieducazione, altro che piano carceri. Non è più solo sovraffollamento, ora, per ammissione degli stessi vertici che guidano il sistema delle carceri in Italia: a mancare potrebbe essere il minimo indispensabile per la sopravvivenza dei reclusi, il rancio passato ai detenuti. E la crisi e i tagli potrebbero colpire anche il menu di chi sta dietro alle sbarre.

L’allarme arrivato Bologna, ma riguarda tutta Italia, era già stato preannunciato, come riportato da "il fattoquotidiano.it," da alcuni deputati in visita al carcere della Dozza a luglio. Allora sembrava un’ipotesi remota, quasi una polemica estiva tra parlamentari. Oggi invece la comunicazione di stringere la cinghia da Roma è arrivata puntuale. A denunciare il fatto il sindacato di polizia penitenziaria, Sappe, che sabato 8 ottobre ha tenuto a Bologna un presidio con alcune decine di agenti proprio davanti al carcere della Dozza (una delle strutture più critiche d’Italia) per protestare contro le condizioni di lavoro e di vita dentro la struttura.

Nell’istituto del capoluogo emiliano ci sono 1.200 detenuti a fronte di una capienza di massimo 450. Inoltre gli agenti chiedono da tempo rinforzi: sono in 350 ma dovrebbero essere almeno 550. Ma anche i dati nazionali non sono da meno: 68 mila detenuti contro i 44 mila che potrebbero essere ospitati nelle patrie galere. Il sovraffollamento è dato soprattutto dalla presenza degli stranieri e non a caso molto è molto più sentito nelle città del nord, dove la presenza dei cittadini di altri Paesi é molto più marcata. Anche nel Mezzogiorno tuttavia non si scherza, se si pensa che i detenuti “in più” a Napoli Poggioreale sono 1500. Inoltre a livello nazionale mancano 6.500 agenti su un numero attuale di circa 38 mila.

“Le attività rieducative ormai sono pochissime, e saranno sempre meno visto che i fondi andranno usati per mangiare. Al momento a Bologna si stanno già utilizzando soldi stanziati per il primo semestre del 2012”, spiega Giovanni Battista Durante, segretario aggiunto nazionale del Sappe. Insomma a Bologna si raschia il fondo del barile giusto per tirare a campare così come in molte parti d’Italia. Mancano i soldi perfino per portare i detenuti in tribunale e molti processi in tutta Italia sono stati rinviati per questo motivo.

Ma quale è la soluzione al sovraffollamento prospettata dagli agenti? La legge 199 del 2010 dell’allora guardasigilli Angelino Alfano, che prevedeva i domiciliari per le pene più lievi, ha fatto uscire appena 3 mila persone sulle 11 mila che avrebbero potuto beneficiare del provvedimento. Il perché è noto: gran parte dei possibili beneficiari erano gli stranieri che, non avendo in molti casi un domicilio, sono stati costretti a rimanere al fresco. Qualche altra possibilità ci sarebbe: “Si potrebbero fare uscire i tossicodipendenti, che sono 300 a Bologna e 17 mila in tutta Italia”, spiega Durante. “C’è anche una legge secondo la quale chi deve scontare non più di sei anni, possa uscire dal carcere dopo avere superato un programma di riabilitazione”.

Già, ma, come ammettono gli stessi agenti, spesso mancano le strutture riabilitative e i soldi per riabilitare le persone. Eppure i pochi fondi a disposizione della macchina penitenziaria, secondo gli agenti, si potrebbero investire meglio: “Si parla da tre anni di piano carcere e sono stati stanziati più di 700 milioni di euro, ma non si capisce che costruire nuove carceri è assolutamente inutile se non si assume nuovo personale”, spiega Durante. “In Italia abbiamo 6 mila posti detentivi inutilizzati. In Emilia Romagna ci sono 6 strutture vuote a Modena, Forlì, Parma e mancano 650 agenti”. Poi il segretario del sindacato lancia la sfida ai vertici del Dap: “C’è una cattiva gestione, oltre alla carenza dei fondi. Chi sta ai vertici o si dà una mossa o meglio che vada a fare altro”.

La carenza di cibo che rischia di abbattersi sulle carceri potrebbe colpire soprattutto i detenuti stranieri, che sono oltre il 60 % a Bologna e circa il 40 % in Italia. Molti di loro, non avendo dei loro soldi personali per comprarsi da mangiare o non avendo una famiglia alle spalle, mangiano solo quello che passa il convento, o meglio il carcere. Ma se ora anche il rancio comune è a rischio per ammissione degli uffici di Roma, la situazione rischia di degenerare. “A Bologna al momento si mantiene tranquilla grazie alla pazienza e la professionalità degli agenti, ma basta un attimo perché precipiti”.

La polizia penitenziaria di stanza a Bologna da tre giorni protesta anche per la condizione della sua mensa. “Molte volte il cibo finisce già alle 13 e dopo distribuiscono solo pasti freddi – denuncia Durante che poi prosegue – Chiediamo anche che la direzione del carcere faccia un’indagine sull’igiene nei locali dove viene conservato il cibo per gli agenti”. L’igiene nel deposito cibo dei detenuti potrebbe invece non servire, visto che tanto rischia di rimanere vuoto.


                                      

Giovani, sorpresa pensione arriverà al 70% del reddito. di Enrico Marro.

Antonio Mastrapasqua, presidente dell'Inps (Imagoeconomica)
Antonio Mastrapasqua

ROMA - Si andrà in pensione più tardi, sempre più tardi. Ma proprio il pesante allungamento dell'età minima per lasciare il lavoro, conseguente alle riforme più recenti, farà sì che l'importo della pensione non sarà così basso come si è stimato finora: potrà essere pari al 70% dell'ultimo stipendio per un lavoratore dipendente e del 57% per un parasubordinato. È l'effetto del metodo di calcolo contributivo che si applica, integralmente, a chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1995: più anni di contributi si versano, più tardi si va in pensione, è più si prende. Bisogna quindi rivedere il discorso che si è sempre fatto sul contributivo che falcidiava le pensioni, riducendo il tasso di copertura rispetto all'ultimo stipendio a circa la metà dello stesso. Questo era vero fino a quando l'età pensionabile era rimasta più o meno la stessa di prima: 58-60 anni per la pensione di anzianità (con 35 anni di contributi) e 65 per quella di vecchiaia (60 per le donne). Ma la situazione è molto cambiata per chi comincia a lavorare oggi.
Costui non potrà andare in pensione prima di aver raggiunto 65 anni e 3 mesi (nel 2046) se avrà i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata, senza differenze tra uomini e donne. Altrimenti dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi. Sarà infatti questa l'età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti); aumento a 65 anni dell'età di vecchiaia per le donne; adeguamento automatico ogni tre anni dell'età pensionabile alla speranza di vita. Il risultato è che anche le pensioni di vecchiaia avranno alla fine almeno 35 anni di contributi alle spalle. Di qui la necessità di rifare i calcoli sul tasso di copertura. Cosa che ha fatto Stefano Patriarca, responsabile dell'area pensioni dell'ufficio studi dell'Inps in un rapporto (che non impegna l'istituto) che verrà presentato lunedì alla Scuola superiore di economia e finanze Ezio Vanoni.
Patriarca è un profondo conoscitore del metodo di calcolo contributivo, essendo stato uno degli "inventori" dello stesso come membro della commissione tecnica che preparò la riforma Dini-Treu del 1995. Rifacendo i calcoli alla luce delle ultime novità legislative Patriarca ha fatto una scoperta controcorrente per uno che viene dalla Cgil (era il pupillo di Bruno Trentin): la situazione previdenziale dei giovani non è più drammatica come sembrava.
Vediamo qualche esempio. Una persona che comincia a lavorare oggi a 34 anni e andrà in pensione nel 2046 dopo 35 anni di lavoro dipendente prenderà il 70% dell'ultimo stipendio. Che si riduce al 54% per un lavoratore autonomo (ma questi versano all'Inps il 20% contro il 33% dei dipendenti). Anche ipotizzando il caso di un precario che restasse tale per tutta la vita lavorativa, la conclusione è che andrebbe in pensione con un assegno pari al 57% dell'ultima retribuzione. «Non è tanto - dice Patriarca - ma non è neppure il 30% di cui si parlava prima. Semmai il problema è che se la retribuzione è bassa allora la pensione potrebbe non essere sufficiente, ma questo riguarda il mercato del lavoro e non il sistema previdenziale, perché non si possono avere pensioni ricche se le retribuzioni sono povere». In ogni caso, aggiunge, l'ipotesi di un precario a vita riguarda una ristretta minoranza. Già simulando la pensione di un lavoratore discontinuo (10 anni in nero, 6 da parasubordinato e 22 di lavoro dipendente), si arriverebbe a un assegno pari al 59% dell'ultima retribuzione.
Va detto, sottolinea lo studio, che si sta parlando di tassi di copertura al netto delle tasse e non al lordo, come si usa di solito. Ma quello che conta è il netto che entra nelle tasche del pensionato. E siccome sulle pensioni non si pagano i contributi e si versano meno imposte che sulla retribuzione, ecco che il tasso di copertura se ne giova.
Certo, in molti casi pensioni sotto il 65-70% della retribuzione possono risultare insufficienti. Ma non bisogna dimenticare il Tfr, cioè gli accantonamenti per la liquidazione, che, simulandone la trasformazione in rendita, aumenterebbe il tasso di copertura di circa 13 punti, in caso di carriera contributiva piena. In sostanza, è la conclusione, i fondi pensione integrativi, che finora non sono decollati, non sarebbero così necessari per la maggioranza dei giovani, mentre servirebbero proprio per quei segmenti di mercato del lavoro più deboli, che non sono in grado di pagarseli e non hanno neppure il paracadute del Tfr. Conclude Patriarca: «La vera emergenza non è rappresentata dalle pensioni di un generico universo giovanile, ma dalle condizioni di lavoro di aree ben definite ma drammatiche, a partire dal lavoro nero e dalle nuove partite Iva. È qui che bisogna intervenire. Quanto al resto, bisogna dire una volte per tutte che il vecchio mix anzianità-sistema retributivo, che ancora si applica alla stragrande maggioranza dei nuovi pensionati, chi nel '95 aveva meno di 18 anni di servizio, è insensato».
Un esempio? Patriarca ha calcolato che un lavoratore che nel 2010 è andato in pensione a 59 anni con 2.031 euro al mese, che poi è quanto viene liquidato in media dall'Inps ai pensionati di anzianità, avrebbe dovuto prendere, ipotizzando che i contributi versati siano indicizzati e rivalutati con un interesse annuo generoso del 9,5%, non più di 1.050 euro. «La differenza è come se fosse pagata con le entrate dei parasubordinati, degli immigrati, dai contributi di coloro che non arriveranno ad avere la pensione previdenziale anche se hanno pagato i contributi (i cosiddetti silenti, ndr.), e con i trasferimenti dello Stato. I 2.031 euro al mese sarebbero equi e corrispondenti ai contributi pagati andando in pensione a 75 anni!». Insomma, il sistema retributivo era troppo generoso, quello contributivo, con l'aumento dell'età, è meno drammatico di come sembrava.