Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 4 luglio 2012
“Quirinale e trattativa: intervento incongruo”. Intervista a Franco Cordero.
L’interrogativo sollevato dalle indagini sulla trattativa Stato-mafia non sopporta ombre: tergiversare significa non rispondere a una domanda che riguarda sopra tutti e prima di tutto la salute della democrazia. Sul Fatto quotidiano del 24 giugno Paolo Flores d’Arcais chiedeva se le dichiarazioni del presidente della Repubblica sulla necessità di una legge in materia d’intercettazioni fossero davvero il male minore. E commentava: “Pesa fin qui il silenzio di giuristi e intellettuali da sempre impegnati a difesa della democrazia”. Cinque giorni dopo il torpore è stato rotto suRepubblica da Franco Cordero, tra i più autorevoli processual-penalisti italiani.
Professore, gran parte del suo articolo riguarda interventi regi in materia giudiziaria. Perché?
La storia aiuta a capire i termini delle questioni: i re erano condottieri, taumaturghi, custodi dell’ordine naturale, giudici par excellence; l’istituto s’evolve nel senso laico d’una divisione dei poteri; l’ultimo residuo mistico è l’idea d’una justice retenue in capo al monarca, liquidata dalla rivoluzione francese; e anacronistica-mente riappare. Non è buon segno.
Qualcuno pensa che il capo dello Stato, in quanto presidente del Csm, sia primo giudice.Se lo fosse, saremmo tornati ai bei tempi in cui Luigi IX, il santo, teneva udienza sotto un olmo. L’autogoverno della magistratura non tocca la fisiopatologia dei processi e relative terapie: lì vigono norme codificate; l’insegna della relativa disciplina è “procedura penale”.
S’è parlato anche di poteri del Colle in merito al coordinamento tra le procure.
Nella sintassi del diritto i poteri non germinano spontaneamente: esistono in quanto norme, costituite in un dato modo da certi organi, li attribuiscono alla tal persona; qui non ne vedo; e coniarle sarebbe un salto indietro.
Lei ha scritto: le conversazioni erano legittimamente intercettate.
Il giudice spiegava perché convenisse ascoltarle: niente da obiettare; e quando vi sia qualcosa d’eccepibile, non spetta al Quirinale rilevarlo, né rimediarvi.
Le intercettazioni indicano un atteggiamento “interventista” nel consigliere del Quirinale.
Dove il fine sia coordinare il lavoro delle procure, se ne occupa il procuratore nazionale antimafia: il quale, interpellato, risponde che tutto è avvenuto regolarmente; non c’era materia controvertibile. L’incongruo intervento, dunque, era gratuito.
S’è detto che il Capo dello Stato funga da cerniera tra le istituzioni.
Lasciamo da parte le metafore. Il quesito appartiene alla procedura penale, antica materia (l’ha fondata Alberto Gandino, magnus practicus, autore del ‘ Tractatus de maleficiis ’ nel tardo Duecento), ancora fragile ma non al punto che vi attecchisca lo stravagante: supponiamo che Sua Maestà, reputandosi organo censorio in materia giudiziaria, intimi al pubblico ministero Rosso d’astenersi dall’indagare trasmettendo gli atti a Verde; o esiga una richiesta d’archiviazione; o chieda conto al giudice del come mai non ritenga legittimo l’impedimento addotto dall’imputato; o interloquisca sulle prove o prescriva una lettura dei testi legali (mattane simili sfilano in un vecchio film girato da René Clair negli Usa, L’ultimo miliardario); l’unica risposta sarebbe una caritatevole fin de non recevoir, fingere che non sia avvenuto niente.
Se uno studente sostenesse quell’idea nell’esame di procedura penale?
Cantare i commi del codice è atletismo mnemonico: basta averne sotto mano un’edizione up to date; l’amnesia quindi merita indulgenza. Le storture sintattiche, no.
I pochi che hanno osato chiedere conto al Quirinale sono stati immediatamente tacciati di attentare alla democrazia.
Dev’essersi formata una retorica le cui battute escono automaticamente, cariche d’enfasi. Il ministro degli Interni denuncia l’aggressione al Capo dello Stato esortando gli italiani al massimo sdegno; e a proposito d’intercettazioni raccomanda ripensamenti seri ossia restrittivi. Altri vedono “schegge” togate cospiranti in difesa del “privilegio corporativo”, formula rumorosa priva d’ogni senso. Nel coro cantano a pieni polmoni plaudi-tori dell’uomo d’Arcore, in livrea o pseudo-equidistanti.
Anche il presidente Napolitano, chiamato in causa personalmente, nomina il bavaglio.
Tipica gaffe, sia detto rispettosamente, e rincresce notarla: sed magis amica veritas.
Sotto il governo Berlusconi parte della stampa protestava.
Ogni tanto scattano riflessi condizionati, inibitori e compulsivi; vi sono cose da non dire, “infandum”. Manierismi e stereotipi segnalano un calo della tensione critica, spiegabile dopo tanti anni d’asfissiante maleducazione verbale. Berlusco Magnus, uomo d’una suprema inettitudine al governo, a parte la scaltra gestione d’affari suoi, passa alla storia come formidabile guastatore dei meccanismi mentali collettivi: non s’è rassegnato alla caduta; padrone dell’ordigno mediatico, ha ancora delle chances in ambienti ridotti al panico dalla crisi, lui che se l’era covata e la negava. Recessioni intellettuali non costano meno dell’economica. Siamo al punto in cui quasi tutto diventa sostenibile, anche 2 + 2 = 5.
Il governatore della Lombardia da giorni nega d’essere sotto indagine perché la Procura non gli ha mandato avvisi di garanzia.
Quanto contorcibili siano gli argomenti legali, lo dicono famosi processi. Discorrere seriamente è un handicap sui palchi dove qualunque gesto verbale ha corso, specie se violento, convulso, deforme: platee scalmanate applaudono. Da notare come l’effetto distorsivo colpisca anche l’establishment culturale configurandosi come logofobia: chiamiamola paura del pensiero; qualche scuola lo vuole corto, saltuario, liquido; le catene ragionate costano fatica; “faticoso” è epiteto ricorrente nel lessico degli addetti alla censura.
L’urlo continuo manda in secondo piano cose importanti: qui dei magistrati indagano sulle stragi, una delle ferite più dolorose nella storia d’Italia.
Fosse vera l’ipotesi d’un patto tra istituzioni e la mafia, saremmo uno Stato dall’identità molto equivoca. Quando Moro stava in mano alle Brigate Rosse, nella cosiddetta prigione del popolo, che un ministero degli Interni inquinato da Gladio e P 2 non riusciva a scovare, ed era condannato a morte se non fossero state accolte certe richieste, correva uno slogan: “Lo Stato non tratta con gli eversori terroristi”; costa poco declamare massime virtuose sulla pelle altrui. La premessa suona falsa, perché niente vietava il riscatto, giustificato dalla necessità di salvarlo “dal pericolo attuale d’un grave danno alla persona”, “da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile” (art. 54 Codice penale). Il caso attuale risulta alquanto diverso, supponendo negoziati al vertice: non eravamo ridotti al punto che la sopravvivenza dell ’ italicum genus dipenda da accordi con la mafia; né costituisce curiosità fatua sapere cosa avvenisse dietro le quinte; e spetta ai tribunali dire se l’accaduto sia delitto.
Tra poco sarà il 19 luglio, vent’anni dalla morte di Borsellino, e nelle cerimonie tutti chiederanno “tutta la verità”.
In Italia la politica è anche teatro, talvolta infimo, d’un vario genere, buffo, patetico, grottesco, feroce, gaglioffo, funereo (che spettacolo i visi alla messa funebre d’Aldo Moro), persino postribolare. Il senso dell’atto scenico va colto in particolari minimi, quali smorfie appena percettibili, tic, espressioni vacue. Speriamo che l’iter palermitano arrivi al dibattimento, se emergono prove tali che l’accusa sia sostenibile: affari simili è bene che diventino res iudicata; esiste una res iudicanda più seria del sapere in che Stato viviamo?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/03/stato-mafia-franco-cordero-quirinale-e-trattativa-intervento-incongruo/282912/
“Quelle donne che restano con il marito violento”. - di Michela Marzano
“GLI uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”.
Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie. Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo?
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.
La Repubblica 04.07.12
E c'è un altro tipo di violenza, molto più sottile, quella che non lascia lividi sul corpo, ma indelebili ematomi nell'anima: la violenza psicologica. Cetta.
L'ascensore e l'assenza di un regolamento che ne determini, inequivocabilmente, l'esatta ripartizione delle spese.
Le solite leggi all'italiana create apposta per determinare panico e caos. Dovevo rispondere ad una domanda postami da un amico che abita a piano terra....non ho potuto rispondergli adeguatamente, leggete perchè.
***
Cari amici, il mio condominio è composto da garage al piano strada, 5 appartamenti al piano rialzato, ognuno con accesso indipendente, e altre unità abitative con in comune scala e ascensore. I proprietari del piano rialzato partecipano alle spese dell’ascensore che non usano?
Vincenza Vitale, Roma
La domanda ricorre spesso, e non solo in questa rubrica: devono pagare le spese per l’ascensore anche i proprietari che non godono del servizio, perché abitano al piano terra, accedono all’ appartamento direttamente dalla strada o sono titolari di negozi? E se sì, quali parti delle spese debbono accollarsi? Le questioni poste dalla lettrice si inseriscono in questa diatriba.
L’art. 1117 del codice civile considera l’ascensore una parte di proprietà comune a tutti i condomini, se è stato installato nell’edificio al momento della costruzione. In caso contrario, è di proprietà comune dei soli condomini per il cui uso e godimento l’impianto risulta costruito. Questa regola, che si chiama presunzione legale di comunione, può essere superata se si accerta che alcuni dei partecipanti non possono beneficiare del servizio. Occorre, quindi, verificare se esiste questa prova. Come? Consultando il regolamento condominiale e gli atti di acquisto delle singole unità immobiliari.
La Cassazione (sentenza 6 novembre 1986, n. 6499) ha stabilito che, in presenza di un regolamento contrattuale che per la manutenzione dell’ascensore prevede il concorso, in base ai rispettivi millesimi di proprietà, di tutti i condomini anche abitanti al piano terreno, questa clausola ha valore a tutti gli effetti.
Nel silenzio del regolamento, qualche indicazione arriva invece dalla giurisprudenza, anche se l’indirizzo non è univoco.
In passato (per esempio: Corte d’Appello di Bologna, 25 maggio 1963; Tribunale di Genova, 10 febbraio 1968) i giudici di merito hanno affermato che le spese per l’ascensore non gravano sui proprietari dei locali al piano terra, essendo tenuti a concorrere alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti condominiali che usano. Più di recente altre sentenze hanno sostenuto il contrario: le spese di rifacimento e manutenzione sono a carico anche dei proprietari dei locali a piano terra e dei negozi, perché l’ascensore è parte comune anche per loro e anche loro possono trarre utilità dall’impianto, che valorizza l’intero stabile.
La Corte di Appello di Bologna (1 aprile 1989, n. 273, in Arch. loc. e cond. 1990, 67) e il Tribunale di Milano (16 marzo 1989, in Arch. loc. e cond. 1989, 515) hanno dichiarato questo principio aggiungendo che bisogna fare riferimento alla potenzialità d’uso, non all’uso concreto.
Vincenza Vitale, Roma
La domanda ricorre spesso, e non solo in questa rubrica: devono pagare le spese per l’ascensore anche i proprietari che non godono del servizio, perché abitano al piano terra, accedono all’ appartamento direttamente dalla strada o sono titolari di negozi? E se sì, quali parti delle spese debbono accollarsi? Le questioni poste dalla lettrice si inseriscono in questa diatriba.
L’art. 1117 del codice civile considera l’ascensore una parte di proprietà comune a tutti i condomini, se è stato installato nell’edificio al momento della costruzione. In caso contrario, è di proprietà comune dei soli condomini per il cui uso e godimento l’impianto risulta costruito. Questa regola, che si chiama presunzione legale di comunione, può essere superata se si accerta che alcuni dei partecipanti non possono beneficiare del servizio. Occorre, quindi, verificare se esiste questa prova. Come? Consultando il regolamento condominiale e gli atti di acquisto delle singole unità immobiliari.
La Cassazione (sentenza 6 novembre 1986, n. 6499) ha stabilito che, in presenza di un regolamento contrattuale che per la manutenzione dell’ascensore prevede il concorso, in base ai rispettivi millesimi di proprietà, di tutti i condomini anche abitanti al piano terreno, questa clausola ha valore a tutti gli effetti.
Nel silenzio del regolamento, qualche indicazione arriva invece dalla giurisprudenza, anche se l’indirizzo non è univoco.
In passato (per esempio: Corte d’Appello di Bologna, 25 maggio 1963; Tribunale di Genova, 10 febbraio 1968) i giudici di merito hanno affermato che le spese per l’ascensore non gravano sui proprietari dei locali al piano terra, essendo tenuti a concorrere alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti condominiali che usano. Più di recente altre sentenze hanno sostenuto il contrario: le spese di rifacimento e manutenzione sono a carico anche dei proprietari dei locali a piano terra e dei negozi, perché l’ascensore è parte comune anche per loro e anche loro possono trarre utilità dall’impianto, che valorizza l’intero stabile.
La Corte di Appello di Bologna (1 aprile 1989, n. 273, in Arch. loc. e cond. 1990, 67) e il Tribunale di Milano (16 marzo 1989, in Arch. loc. e cond. 1989, 515) hanno dichiarato questo principio aggiungendo che bisogna fare riferimento alla potenzialità d’uso, non all’uso concreto.
Il rendiconto è d'obbligo ma la forma è libera
***Praticamente, in questo nostro paese, se vuoi saperne di più e metterti in regola, ti trovi in un pantano senza fine dove tutti hanno ragione e torto al contempo.(Cetta)Quel TOMMASI da LAMPEDUSA ha lasciato il SEGNO in moltissime AREE della DISFUNZIONE....assieme al KAFKA e processi con morto, assassino, e FANTASMA a cui viene imputata ogni colpa...Ahh ahh ahh (se non fosse Una TRAGEDIS, sarebbe una COMMEDIA..ed anche un po' di TEATRO dei PUPI non manca...)(Giovanni Ruffini su fb)
Freedom ... - Claudia Petrazzuolo
La vita di ognuno è una scelta!.
Che tu sia l’ultimo o il primo dei “ tutti “, la tua esistenza è il frutto di una scelta fatta in un dato momento e ad un determinato bivio; per quanto tu cerchi, per quanto tu possa ritornare indietro nel tempo e con la memoria, quello snodo a cui hai preso la destra anziché la sinistra, non riuscirai ad individuarlo perché, a ben guardare, ne troverai un altro precedente e poi un altro ed un altro ancora ciascuno dei quali conseguenza di una ulteriore scelta anteriore.
Spagna 1982 : Sandro Pertini; Spagna (Kiev) 2012 : Giorgio Napolitano.
Essere ed apparire:
- un ex partigiano, ex prigioniero politico, socialista di ferro, uomo integerrimo, combattente nato, rispettoso di sé e di conseguenza degli altri, un uomo alla Presidenza della Repubblica;
- un ex comunista mai comunista, ex migliorista, fautore da sempre della trattativa, alieno da ogni possibile scontro, vaso di coccio tra i vasi di ferro, espressione idiomatica e sintomatica di un sistema, un politicante alla presidenza della repubblica.
Partito democratico (PD). Partito della libertà (PDL).
Il Partito Comunista Italiano unica forza dell’occidente di origine e natura marxista che fosse riuscita, in funzione del proprio essere, a raggiungere un grado di rispetto dell’altrui modo di vedere tale da condizionare il sociale del contesto in cui era inserito; l’unica forza di sinistra in un mondo fascista, anche lì dove il rosso era il colore dominante, a realizzare democraticamente una evoluzione del mondo degli afflitti e dei derelitti attraverso conquiste e progresso pari solo all’evoluzione scientifica degli ultimi cinquant’anni.
Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra corona Unita: criminalità organizzata al punto da integrarsi nel sistema società civile prendendone il possesso dei gangli principali; sfruttandone i difetti, le deviazioni ed affrancandosi dalle pastoie di coloro che volevano servirsene ed anzi schiavizzando, alla fine, quegli stessi che credevano di poterle governare.
La darwiniana evoluzione dei primi e dei secondi ci consegnano nel quotidiano forze apparentemente in antitesi l’una con l’altra, oggettivamente simili nelle idee e nei comportamenti, essenzialmente simbiotiche nelle esistenza giornaliera. Il tutto, alla faccia della democrazia dell’alternanza, dell’interesse delle classi elettrici, a discapito di un paese persosi nella notte dei tempi nel prendere ogni volta una direzione sbagliata.
L’Italia e gli Italiani.
Il giardino d’Europa (Metternich), il ventre molle della vacca ( Churchill). Questo paese dalle antichissime e preistoriche origini geografiche è la quint’essenza di ogni bellezza naturale: racchiude in sé la bellezza dei mari tropicali, l’estensione delle pianure americane, l’algida candida dominanza del gelo polare, l’ora violento l’ora calmo scorrere dei torrenti e dei fiumi amazzonici, il placido panorama dei grandi laghi, la speranza di un’alba nel deserto, la pace di un tramonto sul Gran Canyon.
Un giardino dell’Eden creato apposta per permettere all’uomo di credere nelle proprie capacità, distrutto dall’uomo incapace di credere in sé stesso.
Terra di santi poeti e navigatori (Mussolini 1935) ha mostrato di esser genitrice e complice di ladri, di truffatori, di abbuffini, di criminali, di arrivisti senzadio, di gente senza dignità e senza anima, di un popolo senza amor patrio e coscienza del proprio essere razza, specie e soggetto preferendo la forma alla sostanza e l’avere all’essere: trasformatasi da paradiso ad inferno in terra, oggetto di derisione mondiale, soggetto dei peggiori trasformismi, attrice di un meretricio continuo e senza vergogna.
Il giardino d’Europa (Metternich), il ventre molle della vacca ( Churchill). Questo paese dalle antichissime e preistoriche origini geografiche è la quint’essenza di ogni bellezza naturale: racchiude in sé la bellezza dei mari tropicali, l’estensione delle pianure americane, l’algida candida dominanza del gelo polare, l’ora violento l’ora calmo scorrere dei torrenti e dei fiumi amazzonici, il placido panorama dei grandi laghi, la speranza di un’alba nel deserto, la pace di un tramonto sul Gran Canyon.
Un giardino dell’Eden creato apposta per permettere all’uomo di credere nelle proprie capacità, distrutto dall’uomo incapace di credere in sé stesso.
Terra di santi poeti e navigatori (Mussolini 1935) ha mostrato di esser genitrice e complice di ladri, di truffatori, di abbuffini, di criminali, di arrivisti senzadio, di gente senza dignità e senza anima, di un popolo senza amor patrio e coscienza del proprio essere razza, specie e soggetto preferendo la forma alla sostanza e l’avere all’essere: trasformatasi da paradiso ad inferno in terra, oggetto di derisione mondiale, soggetto dei peggiori trasformismi, attrice di un meretricio continuo e senza vergogna.
Io, tu, voi, noi, tutti: ciascuno a rincorrere una effimera tranquillità personale ignara ed ignorante delle condizioni di ognuno degli altri; ognuno stupido nel non capire che la malasorte di uno è gioco forza la fine prossima per ognuno degli altri; ognuno proteso alla strenua difesa di un proprio miserabile interesse dimentico del proprio vicino se non per invidiarne, tentando di copiarla, l’eventuale migliore condizione, del tutto disinteressato al chi, un gradino più sotto, annaspa, si arrampica, ed invidia a sua volta. Ognuno, come scimmia originaria, appeso al suo personale ramo d’albero.
Freedom: in questo paese è solo una canzone di Aretha Franklin!.
https://www.facebook.com/notes/claudia-petrazzuolo/freedom-/335386959874250
L'ultimo giallo del San Raffaele un misterioso furto nel caveau.
Intimidazioni su mandato di Don Verzè, estorsioni e un milione di euro sparito prima del suicidio di Mario Cal. In manette tre addetti alla sicurity del polo ospedaliero.
MILANO
Uno “sfratto esecutivo” bypassando le vie legali e architettando atti di sabotaggio e tentate estorsioni fino ad arrivare a ordinare di dare fuoco agli immobili di un «affittuario divenuto scomodo». E poi, in pieno dissesto finanziario, un furto dal caveau quasi un milione di euro. Sono questi gli ingredienti di un’inchiesta parallela a quella per la bancarotta del San Raffaele, dove di nuovo Don Verzè, sebbene morto lo scorso dicembre, è tra i protagonisti. E questa volta come presunto mandante di una serie di intimidazioni.
Così questa mattina i militari della Guardia di Finanza di Milano hanno portato a San Vittore Danilo Donati, uno dei responsabili della security del polo ospedaliero e altri due addetti alla sicurezza, Antonio Vito Cirillo e Francesco Pinto. Le ordinanze di custodia cautelare sono state firmate dal gip Vincenzo Tutinelli su istanza dei pm Luigi Orsi, Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta. Respinta invece la richiesta di arresto di Andrea Roma, l’ex responsabile dell’ufficio tecnico. Le accusa a vario titolo sono furto, incendio e tentata estorsione, quest’ultima proprio in concorso con Don Verzè.
L’indagine è nata dalla rilettura di alcune intercettazioni ambientali di un procedimento di sei anni fa della Dda milanese che ha permesso ai magistrati di appurare come il fondatore del polo di cura e di ricerca «avesse avviato una violenta campagna contro Andrea Lomazzi», l’amministratore di Olympia, società che dal 1996 aveva in affitto un’area vicino all’ospedale con un centro sportivo, campi da calcio e tennis, ristrutturato e rilanciato. Il motivo: l’allora presidente della Fondazione Monte Tabor «aveva bisogno di rientrare anticipatamente nella disponibilità dei terreni per sviluppare una diversa iniziativa immobiliare», un residence per gli studenti dell’Università Vita e Salute prima che andasse in fumo l’opportunità di ricevere finanziamenti pubblici.
Secondo le testimonianze raccolte e la ricostruzione degli inquirenti, falliti i tentativi di un accordo tra il sacerdote-imprenditore e Lomazzi ( in un incontro « mi disse ’il giudice sono io e decido io») il primo di fronte alle «resistenze» del secondo, tra il settembre del 2003 e il 2010, avrebbe ordinato atti intimidatori e di sabotaggio per riappropriarsi dei terreni: dallo sversamento di catrame sul campo di calcio, passando per due incendi che hanno semi distrutto il centro sportivo ( a cui si aggiunge quello dell’auto di una persona che si era rifiutata di dar corso al particolare “sfratto”, fino all’interruzione della corrente con cadenza settimanale per almeno tre anni. Ma il culmine del piano è stato quando, come testimonia un dialogo del gennaio del 2006 captato dalle microspie, don Verzè chiese, senza successo, a Niccolò Pollari, allora numero uno del Sismi, un suo intervento per far partire verifiche fiscali ad hoc «al solo fine di scoraggiare le attività» di Olympia.
L’altro capitolo dell’indagine riguarda invece un furto da 930mila euro dalla cassa continua all’interno dell’ospedale, di cui «411.670 mila euro attribuibili alla Fondazione Monte Tabor, 47.815 mila attribuibili a Diagnostica e Ricerca San Raffaele spa, oltre a titoli di credito pari a complessivi 480.384 mila». Un colpo, secondo il gip, messo a segno da Cirillo (con parecchi precedenti) e Pinto qualche giorno prima del suicidio di Mario Cal e preparato in «maniera certosina»: i due però la notte del 13 luglio scorso «pur essendo fuori servizio, sono stati visti scendere presso il caveau e poi tornare indietro 15-20 minuti dopo verso due diverse automobili».
E questo non è tutto per i pm: nella loro richiesta infatti, a proposito del caso di una Mecedes di Cal, scrivono che al San Raffale, pur con un piano di salvataggio in corso che porta il nome di concordato preventivo «c’è ancora chi lavora (...) con attitudine predatoria, si impossessa di beni sottocosto e ruba dove può rubare». Infatti, la macchina di lusso, intestata e pagata dalla Fondazione, nel 2005, 106 mila euro, dopo una storia «complicata» (definita «una via di mezzo tra romanzo d’appendice e racconto dell’assurdo») è stata «rilevata da Cirillo per 17 mila euro nel novembre 2011». E sempre Cirillo, riporta il provvedimento del giudice Tutinelli, tra il 2009 e il 2011 avrebbe incassato senza giustificazione, dalla Metodo, la società ora in fallimento riferibile a Gianluca Zammarchi (già sotto processo), circa 100 mila euro. Pagamenti dietro ai quali ci sarebbe «un giro di false fatturazioni» e «meritevoli di approfondimento».
Così questa mattina i militari della Guardia di Finanza di Milano hanno portato a San Vittore Danilo Donati, uno dei responsabili della security del polo ospedaliero e altri due addetti alla sicurezza, Antonio Vito Cirillo e Francesco Pinto. Le ordinanze di custodia cautelare sono state firmate dal gip Vincenzo Tutinelli su istanza dei pm Luigi Orsi, Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta. Respinta invece la richiesta di arresto di Andrea Roma, l’ex responsabile dell’ufficio tecnico. Le accusa a vario titolo sono furto, incendio e tentata estorsione, quest’ultima proprio in concorso con Don Verzè.
L’indagine è nata dalla rilettura di alcune intercettazioni ambientali di un procedimento di sei anni fa della Dda milanese che ha permesso ai magistrati di appurare come il fondatore del polo di cura e di ricerca «avesse avviato una violenta campagna contro Andrea Lomazzi», l’amministratore di Olympia, società che dal 1996 aveva in affitto un’area vicino all’ospedale con un centro sportivo, campi da calcio e tennis, ristrutturato e rilanciato. Il motivo: l’allora presidente della Fondazione Monte Tabor «aveva bisogno di rientrare anticipatamente nella disponibilità dei terreni per sviluppare una diversa iniziativa immobiliare», un residence per gli studenti dell’Università Vita e Salute prima che andasse in fumo l’opportunità di ricevere finanziamenti pubblici.
Secondo le testimonianze raccolte e la ricostruzione degli inquirenti, falliti i tentativi di un accordo tra il sacerdote-imprenditore e Lomazzi ( in un incontro « mi disse ’il giudice sono io e decido io») il primo di fronte alle «resistenze» del secondo, tra il settembre del 2003 e il 2010, avrebbe ordinato atti intimidatori e di sabotaggio per riappropriarsi dei terreni: dallo sversamento di catrame sul campo di calcio, passando per due incendi che hanno semi distrutto il centro sportivo ( a cui si aggiunge quello dell’auto di una persona che si era rifiutata di dar corso al particolare “sfratto”, fino all’interruzione della corrente con cadenza settimanale per almeno tre anni. Ma il culmine del piano è stato quando, come testimonia un dialogo del gennaio del 2006 captato dalle microspie, don Verzè chiese, senza successo, a Niccolò Pollari, allora numero uno del Sismi, un suo intervento per far partire verifiche fiscali ad hoc «al solo fine di scoraggiare le attività» di Olympia.
L’altro capitolo dell’indagine riguarda invece un furto da 930mila euro dalla cassa continua all’interno dell’ospedale, di cui «411.670 mila euro attribuibili alla Fondazione Monte Tabor, 47.815 mila attribuibili a Diagnostica e Ricerca San Raffaele spa, oltre a titoli di credito pari a complessivi 480.384 mila». Un colpo, secondo il gip, messo a segno da Cirillo (con parecchi precedenti) e Pinto qualche giorno prima del suicidio di Mario Cal e preparato in «maniera certosina»: i due però la notte del 13 luglio scorso «pur essendo fuori servizio, sono stati visti scendere presso il caveau e poi tornare indietro 15-20 minuti dopo verso due diverse automobili».
E questo non è tutto per i pm: nella loro richiesta infatti, a proposito del caso di una Mecedes di Cal, scrivono che al San Raffale, pur con un piano di salvataggio in corso che porta il nome di concordato preventivo «c’è ancora chi lavora (...) con attitudine predatoria, si impossessa di beni sottocosto e ruba dove può rubare». Infatti, la macchina di lusso, intestata e pagata dalla Fondazione, nel 2005, 106 mila euro, dopo una storia «complicata» (definita «una via di mezzo tra romanzo d’appendice e racconto dell’assurdo») è stata «rilevata da Cirillo per 17 mila euro nel novembre 2011». E sempre Cirillo, riporta il provvedimento del giudice Tutinelli, tra il 2009 e il 2011 avrebbe incassato senza giustificazione, dalla Metodo, la società ora in fallimento riferibile a Gianluca Zammarchi (già sotto processo), circa 100 mila euro. Pagamenti dietro ai quali ci sarebbe «un giro di false fatturazioni» e «meritevoli di approfondimento».
Che differenza c'è tra un clan di mafiosi e questa cricca di indemoniati?
Record di disoccupati tra i giovani E' senza lavoro il 36,2% di under 25.
In leggera flessione invece il dato globale: il tasso s'attesta al 10,1%
In Italia la disoccupazione a maggio fa un piccolo passo indietro, fermandosi al 10,1%. Ma per i giovani è un bagno di sangue: e il tasso degli under 25 alla ricerca di un posto supera il 36%, il livello più alto mai registrato. Un record definito dal ministro del Lavoro Elsa Fornero «non accettabile dalla società» e contro cui occorre «mettere in campo tutte le energie disponibili». Intanto il mercato perde pezzi anche nel Vecchio Continente, con il tasso di disoccupazione che nella zona euro raggiunge il valore più alto dalla nascita della moneta unica (11,1%).
La tensione sul fronte lavoro resta alta sia in Italia che in Europa. D’altra parte nella Penisola i miglioramenti rilevati dall’Istat nelle stime provvisorie reggono solo a confronto con aprile, mentre rispetto a un anno prima il deterioramento resta evidente. Nel dettaglio, se su base mensile i disoccupati scendono di 18 mila unità, in termini tendenziali salgono di oltre mezzo milione, con un esercito che complessivamente nelle sue fila conta quasi 2,6 milioni di persone. Lo stesso vale per il tasso dei senza lavoro, in discesa di 0,1 punti percentuali su aprile ma in crescita di 1,9 punti su 12 mesi prima. Le stime dell’Istat descrivono quindi, come spiegano i tecnici dell’Istituto, un quadro «sostanzialmente stazionario», con la disoccupazione che resta su «valori molto elevati». Passando a osservare gli occupati, il loro numero è in rialzo sia a livello congiunturale (+60 mila) sia su base annua (+98 mila). Ma il miglioramento probabilmente è frutto della stretta sui pensionamenti, con i più adulti obbligati a restare a lavoro. Un contributo all’allargamento della disoccupazione arriva invece dal calo degli inattivi.
Con la crisi sempre meno persone possono permettersi di stare a casa e a maggio i non interessati a cercare un posto scendono di 598 mila su base annua. Ma spesso trovare un lavoro risulta impossibile, e così molti ex inattivi si ritrovano disoccupati. Anche a maggio sono i ragazzi a soffrire di più: tra loro è in cerca di un posto il 36,2% delle forze lavoro under 25. Un dato in crescita di 0,9 punti in un solo mese, che tocca il valore più elevato mai comparso sia nelle serie storiche mensili dell’Istat, iniziate nel 2004, sia in quelle trimestrali, cominciate nel 1992. Si tratta quindi di un record assoluto, il tasso più alto almeno da venti anni. Non stupisce così che l’Italia si trovi tra il gruppo di Paesi con la quota più ampia di ragazzi a caccia di un posto. Una classifica comunque ancora capeggiata da Spagna e Grecia (52,1%). Invece il tasso complessivo dei senza lavoro si mantiene sotto sia alla media della zona euro, pari all’11,1%, sia a quella dell’intera Ue, salita al 10,3% (entrambi tassi record). Tutti numeri che suscitano timori su ogni fronte.
Per la Cgil le cifre sugli under 25 rappresentano «una drammatica emergenza nazionale». Sulla stessa linea la Uil: «I giovani sono le prime vittime della mancata crescita». E anche la Cisl parla di una situazione che resta «negativa», nonostante il primo calo congiunturale della disoccupazione complessiva dopo un anno e mezzo. Sulla quota record di senza lavoro sotto i 25 anni arriva anche il commento del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi: «È gravissimo», «è la cosa che mi preoccupa di più». Un dato definito «allarmante» pure dall’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Dello stesso parere il responsabile Economia e Lavoro Pd Stefano Fassina che definisce «drammatici» i numeri dell’Istat. Per il senatore Pdl ed ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, i dati suscitano «angoscia». Mentre il leader Idv, Antonio Di Pietro, chiama in causa l’esecutivo, «il peggior nemico dei giovani».
Quello che i giornali non dicono è che la percentuale è di gran lunga maggiore. Sono infatti tantissimi a non cercare più un lavoro perchè stanchi di aspettare e di girare a vuoto: sono i senza vita e senza un futuro, i futuri accattoni..
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