giovedì 23 agosto 2012

Intervento del MAGISTRATO INGROIA - Palermo: 19 luglio 2012 "Via D'Amelio strage di Stato"

Toro Seduto.



"Si dice spesso che il crimine non paga.
Se non paga chi lo fa... figuriamoci chi lo subisce."
(Ermanno Bartoli - Barlow)


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Berlusconi, ”mister unpercento”

minterunpercento Berlusconi, mister unpercento

Le concessioni radiotelevisive costano al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi l’uno per cento del fatturato che ne ottiene. Avete letto bene. Lo Stato italiano regala da anni alla Mediaset, attraverso RTI, il 99% degli introiti che ne ottiene. Solo l’uno per cento rimane allo Stato.
Le frequenze su cui Mediaset trasmette sono dello Stato italiano che le può dare in concessione a qualunque società ritenga. Mediaset o altre. La logica vorrebbe che la concessione porti principalmente soldi alle casse dello Stato, non ai privati. La ricchezza del signor Berlusconi, dell’imprenditore Berlusconi, deriva da una “graziosa” concessione ottenuta prima da Craxi con un una tantum annua ridicola e poi dal Governo D’Alema nel 1999, con la legge un per cento (pagina 32: legge 488, art.27 comma 9, del 23 dicembre 1999). Legge mai messa in discussione dagli altri Governi che lo hanno seguito, tra cui ovviamente i suoi.
Il signor unpercento è ricco e continua a incrementare le sue ricchezze in virtù di una legge che gli regala letteralmente le frequenze radiotelevisive. Paga l’un per cento dei ricavi. Ma quale cittadino può avere in concessione un bene dello Stato pagando solo l’un per cento dei ricavi? Nessuno, se non Berlusconi. La legge che regolamenta le concessioni radiotelevisive va cambiata immediatamente. E’ una legge parassitaria che toglie agli italiani, a tutti gli italiani, un reddito enorme, di loro competenza, per donarlo al presidente del Consiglio. Una vera rapina a norma di legge.
Il Gruppo Mediaset vive alle spalle degli italiani. Nel 2007 ha fatturato oltre 4 miliardi di euro, di cui 2.5 miliardi derivanti da pubblicità delle Reti Mediaset. Invertiamo le percentuali: allo Stato il 99%, a Mediaset l’un per cento. L’Italia dei Valori presenterà un’interrogazione parlamentare su questo vero esproprio di reddito degli italiani da parte di Silvio Berlusconi.
P.s. Risultato Operativo 2007 del Gruppo Mediaset (EBIT): 1,49 miliardi di euro.


http://www.antoniodipietro.it/2009/01/berlusconi-mister-unpercento

Sud Africa - La POLIZIA SPARA sui MINATORI IN SCIOPERO - STRAGE 36 gli UCCISI 16-08-2012



Allucinante, una scena raccapricciante. Quanto poco vale la vita dell'uomo per i potenti. Dovremmo fargli fare la stessa fine.

40 uomini e due auto blindate. Quanto ci costa la scorta del deputato Berlusconi. - Thomas Mackinson


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Grazie ad una serie di provvedimenti varati dai suoi stessi governi, l'ex presidente del Consiglio conserva la protezione piena che gli era garantita quando era in carica. Due milioni e mezzo circa il costo annuo, pagato dai cittadini solo per la scorta. Senza contare il dispiegamento di Carabinieri a presidio delle sue abitazioni.

Una quarantina di uomini divisi in due squadre di 20 ciascuna e due auto blindate per una spesa superiore ai 200mila euro al mese. Vale a dire due milioni e mezzo l’anno. Tanto costano gli uomini dei servizi di sicurezza che ancora oggi stanno appresso all’ex premier Silvio Berlusconi. Senza contare i carabinieri dispiegati dal Ministero degli Interni per servizi ordinari presso le ville di famiglia. Un’eredità che lo stesso Berlusconi si è costruito da solo, a più riprese, con provvedimenti ad hoc e che è riuscito a mantenere anche oggi che è un deputato come altri, solo molto molto costoso. Tanto che gli 80mila euro per la scorta balneare di Fini, da settimane oggetto di furiose polemiche, diventano briciole.
Gli uomini al seguito del Cavaliere, spiegano fonti molto qualificate, hanno trattamenti economici doppi rispetto ai colleghi che svolgono servizi di sicurezza ordinari. Hanno stipendi e prerogative equiparati a quelli dei colleghi dello spionaggio e controspionaggio senza esserlo. Siamo, per essere chiari, intorno ai cinquemila euro al mese. E sono appunto quaranta. I conti sono presto fatti.
Nei suoi mandati, a più riprese, il Cavaliere è riuscito a cambiare le regole sulla sicurezza e imporre uomini di fiducia provenienti dalla sua azienda. Lo si scoprirà anni più tardi, quando i magistrati baresi cercheranno risposte all’andirivieni incontrollato di persone dalle ville del Cavaliere: possibile che nessuno della sicurezza controllasse chi entra e chi esce? Si, perché il premier, proprio per tutelare la sua “privacy”, già dal primo mandato era riuscito a sostituire gli uomini dello Stato con quelli della security di Fininvest e Standa (da quel giorno in poi a libro paga degli italiani). Un’impresa non semplice. Prima di allora, infatti, nessuno poteva entrare in polizia, carabinieri o finanza senza un regolare concorso pubblico. Per garantirsi la “sua” scorta – che obbedisca a personalissimi criteri di fedeltà privata e discrezione pubblica – Berlusconi ricorre allora a un escamotage senza precedenti: grazie alle sue prerogative di Presidente del Consiglio, s’inventa una nuova competenza ad hoc presso i Servizi, gli unici cui la legge consente di assumere personale a chiamata diretta. Nasce così un nucleo per la scorta del presidente che fa capo al Cesis (oggi Aisi, Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) anziché al Viminale, anche se con l’attività di intelligence vera e propria nulla ha a che fare.
Gli uomini d’azienda vestiranno la divisa sotto la guida dell’uomo che, alla fine degli anni Ottanta, faceva la security alla Standa. E che di punto in bianco si trova capo-scorta del presidente del Consiglio con la qualifica di capo-divisione dei servizi. E si porta dietro almeno altre cinque ex body-guard Fininvest. Col tempo la struttura è cresciuta a ventiquattro unità, poi 31 e infine 40 che stavolta vengono in parte attinte dalle Forze dell’Ordine, ma sempre su indicazione di quel primo nucleo. Che tornerà regolarmente ad ogni successivo mandato. Anzi, non smetterà più di prestare servizio.
Quegli stessi uomini, infatti, sono lì ancora oggi che il Cavaliere è tornato ad essere un deputato. Perché? Perché ha deciso così. E’ il 27 aprile del 2006. Berlusconi ha perso le elezioni e si appresta a fare le valigie e cedere la poltrona e la “campanella” del Consiglio dei Ministri a Romano Prodi. Ma non ha alcuna intenzione di cedere anche quella struttura che i magistrati baresi tre anni dopo definiranno quantomeno “anomala” e che in fin dei conti è una sua creatura. Così, giusto 17 giorni dopo il voto, poco prima di lasciare il Palazzo, Berlusconi vara un altro provvedimento ad hoc che oggi giorno potrebbe chiamarsi a buon diritto “salva-scorta”, nella migliore tradizione delle leggi ad personam. Se ne accorgono, in ottobre, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere, che raccontano come, non fidandosi del professore, la scorta per il futuro Berlusconi abbia provveduto a farsela da solo stabilendo che i capi di governo “cessati dalle funzioni” abbiano diritto a conservare la scorta su tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento. Così facendo riesce a portarsela via come fosse un’eredità personale, anche se era (e continua a essere) un servizio di sicurezza privato pagato con soldi pubblici. Al costo, ancora oggi, di due milioni e mezzo l’anno.

mercoledì 22 agosto 2012

Ilva, coprire i parchi minerali si può: lo ha fatto la Hyundai Steel in Corea del Sud. - Eleonora Bianchini e Pierluigi Giordano Cardone


parchi minerali ilva corea interna

Il Gruppo Riva e il ministro Clini spingono per il barrieramento, l'Arpa Puglia per la copertura. Beppe Grillo mostra su Facebook il caso virtuoso di un impianto siderurgico asiatico. Ilfattoquotidiano.it ha sottoposto il caso a esperti del settore, trovando conferme. Carlo Mapelli (Politecnico di Milano): "Soluzione tecnicamente interessante, ma non realizzabile a Taranto nel breve periodo".

“Perché in Corea del Sud sì e a Taranto no?”. Mentre politica e tecnici battibeccano a distanza sulle tecniche di bonifica dell’Ilva, (con il governo che propende per la costruzione di una barriera e l’Arpa che spinge per la copertura delle zone a rischio), dal web arriva l’esempio virtuoso: in Corea del Sud c’è un impianto siderurgico che ha deciso di coprire con alcune cupole i propri parchi minerali. Costi? Elevati. Effetti? Al di là delle più rosee aspettative. Da qui l’interrogativo: perché non esportare la soluzione asiatica anche in Italia? Per gli esperti si può. Per l’azienda meno. Ecco perché.
Il dibattito sul caso IlvaMettersi a norma “al prezzo di onerosissimi esborsi finanziari” sulla base “delle migliori tecnologie disponibili”. Le motivazioni del tribunale del Riesame parlano chiaro: per porre fine all’inquinamento provocato dall’Ilva di Taranto bisogna puntare al massimo. Con una soluzione definitiva. A ogni prezzo. La nuova partita sul futuro ‘ambientale’ dello stabilimento siderurgico del Gruppo Riva, quindi, è già iniziata. E per quanto riguarda la bonifica del Parco minerali (da cui si alzano le polveri che infestano il quartiere Tamburi) si gioca su due fronti: l‘Arpa Puglia vuole la copertura dell’area, la proprietà dell’acciaieria propende per il barrieramento (ipotesi sostenuta anche dal ministro Corrado Clini nella conferenza stampa del 17 agosto scorso), che avrebbe tempi di realizzazione e costi nettamente inferiori rispetto a quanto prospettato dall’Agenzia regionale per l’ambiente. Che in questa situazione conflittuale ha scoperto di avere un alleato inaspettato. Un paio di giorni fa, infatti,Beppe Grillo (‘riprendendo’ il Comitato cittadini liberi e pensanti di Taranto, ndr) ha postato sulla sua pagina Facebook la soluzione adottata dalla Hyundai Steel Corporation in Corea del Sud, che ha deciso di coprire i suoi parchi minerali con delle cupole ad hoc. “Questo perché durante le fasi di carico e scarico dei minerali avviene la dispersione di polveri e minerali nocivi nell’aria. Perché in Corea del Sud sì e a Taranto no?” si è chiesto il leader del Movimento 5 Stelle.
L’esempio della Hyundai SteelL’esempio asiatico ha suscitato entusiasmo in Rete ed è stato rilanciato da migliaia di utenti che lo ritengono il massimo del virtuosismo. I dati, del resto, sembrerebbero confermare la bontà della scelta di Hyundai. L’azienda sudcoreana, infatti, è stata la prima al mondo a realizzare un sistema di stoccaggio al coperto per ridurre l’impatto ambientale in tutte le fasi del processo di produzione. Secondo un servizio della Cnn realizzato a ottobre 2011, “l’aria è più pulita e le condizioni di vita sono migliorate”. L’impianto è costato complessivamente 5,5 miliardi di dollari (ammortizzabili a bilancio in un quinquennio) ed è in grado di produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (l’Ilva ne produce poco più di 9 milioni), con 35 chilometri di nastro trasportatore. Inoltre la copertura del materiale dall’inizio alla fine del processo di trasformazione consente all’azienda di risparmiare circa 20 milioni di dollari all’anno. Al contrario, lasciare tutto all’aria aperta, secondo la Hyundai, “provoca ai produttori di acciaio una perdita dello 0.5% del materiale a causa di pioggia, vento e freddo”. Insomma, gli ingredienti della soluzione coreana sono due: risparmio sulle materie prime e tutela ambientale.
Il parere di Arpa Puglia: “Copertura unica soluzione”“Corea e Giappone sono avanti anni luce rispetto a noi – ha spiegato al fattoquotidiano.it Giorgio Assennato, presidente di Arpa Puglia – La copertura dei parchi minerali è l’unica soluzione tecnicamente possibile contro l’inquinamento, soprattutto nel caso di Ilva”. Il perché sta nella pochezza delle alternative. “A nostro avviso – ha continuato Assennato – l’altro rimedio utile sarebbe la completa delocalizzazione dei parchi, ma questa avrebbe dei costi e dei tempi di realizzazione davvero esorbitanti”. E il barrieramento, magari con una bagnatura costante delle colline di polveri ferrose? “A Taranto la bagnatura dovrebbe esser già fatta e i risultati sono evidenti: non basta. Anche per questo motivo le barriere non sono la soluzione migliore – ha sottolineato il numero uno dell’agenzia ambientale pugliese – e credo che il tribunale del Riesame la pensi così, considerato che nelle motivazioni della sua sentenza ha fatto ampio riferimento alle nostre analisi”. 
L’esperto: “Soluzione tecnica degna di interesse”Sull’esempio delle acciaierie Hyundai Steel Corporation e sulla possibilità di ‘esportare’ la soluzione sudcoreana a Taranto, è interressante il parere al professor Carlo Mapelli, docente di siderurgia al Politecnico di Milano. “All’Ilva il trasporto su nastri protetti dalle navi ai parchi c’è già, a differenza delle cupole che in Corea coprono il parco minerario. Sono una soluzione tecnicamente interessante, per ora presente solo in questo impianto coreano – ha detto il professor Mapelli – Considerato il sistema di svuotamento, non sono una soluzione che si può pensare di installare in tempi rapidi a Taranto, in quanto servirebbero un bel po’ di mesi perché ci sarebbero da predisporre anche delle macchine specifiche sotto le cupole per consentire lo svuotamento del deposito. Comunque – è il parere del professore – si può trattare di una soluzione tecnica certo degna di interesse e di essere considerata per realizzare futuri miglioramenti, almeno di una parte del parco minerario”. Il dubbio di Mapelli, tuttavia, non è tanto nella tecnologia da utilizzare quanto sulla velocità di attuazione. “Rimango dell’opinione che per portare sollievo in tempi brevi alle persone che abitano nei pressi dell’impianto – ha specificato Mapelli – un buon sistema di irrorazione e di barriere verticali sia la soluzione più agibile, poi per il futuro compartimentare il parco e coprire singoli settori potrebbe essere interessante. La differenza è che quello coreano è un impianto nuovo di zecca (progettato apposta in quel modo) mentre qui bisogna modificare situazioni pregresse ed è molto meno semplice sopratutto su una superficie di 65 ettari. Col tempo e con un buon piano si potrà modificare qualcosa anche a Taranto”. Anche perché il tribunale del Riesame parla chiaro: soluzione definitiva a ogni costo e con le migliori tecnologie possibili. Dalla Corea del Sud un’idea è arrivata. E secondo gli esperti è fattibile, con buona pace di ministri e gruppo Riva.

Gli agenti della Dia: “Coi tagli si sta smantellando la Direzione antimafia”. - Silvia D'Onghia


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Era il sogno di Giovanni Falcone, che aveva compreso la necessità di avere un’unica struttura di polizia per affiancare i magistrati impegnati nella lotta alla criminalità organizzata. "La stanno uccidendo a piccoli passi, perché nessuno si assumerebbe la responsabilità di eliminarla in un colpo".


Era il sogno di Giovanni Falcone, che aveva compreso la necessità di avere un’unica struttura di polizia per affiancare i magistrati impegnati nella lotta alla mafia. In realtà la legge istitutiva della Direzione investigativa antimafia (Dia, ndr) non è mai stata applicata. Anzi, oggi qualcuno sta cercando di smantellarla del tutto”. È amareggiato, uno dei poliziotti che hanno scelto di non tacere più, oltre che arrabbiato. Sta assistendo, impotente, all’agonia di un organismo che – tanto per fare un esempio – tra il 2009 e il primo semestre del 2011 ha sequestrato beni per 5,7 miliardi di euro e ne ha confiscati altri per 1,2 miliardi di euro. Cifre che rappresentano l’introito maggiore per il Fondo unico Giustizia. “Se si sono finalmente aperti gli occhi sugli intrecci tra mafia e politica nel Nord Italia, lo si deve alla nostra attività – spiega un funzionario che per motivi di sicurezza deve restare anonimo –. L’operazione ‘Breakfast’, per esempio, che ha coinvolto alcuni elementi di spicco della Lega Nord. O la ‘Doma’, nella quale sono finiti colletti bianchi e politici nazionali, ‘vicini’ al clan dei Casalesi. Qualche mese fa è partita una nuova richiesta d’arresto nei confronti dell’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino. O le principali inchieste di Palermo, dove – guarda caso – i magistrati stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. Ma forse è proprio per questo che siamo diventati scomodi”. Lo smantellamento sembra procedere a piccoli passi, perché nessuno si assumerebbe la responsabilità di distruggere in un colpo solo la creatura di Falcone. Ma basta mettere insieme alcuni fatti degli ultimi 10 mesi per rendersi conto della situazione.
E’ stato inutile, per gli uomini della Dia, protestare sotto Montecitorio il 26 ottobre dello scorso anno. Pochi giorni dopo, il 12 novembre, la legge di stabilità ha drasticamente tagliato il Trattamento economico aggiuntivo (Tea), quella che in gergo viene chiamata “indennità di cravatta”: una compensazione economica (circa 250 euro mensili per un ispettore con 30 anni di carriera sulle spalle) che riconosce la specificità del lavoro di poliziotti, carabinieri e finanzieri della Dia. Nonostante proteste e numerose interrogazioni parlamentari, si è passati al 35 per cento di quella cifra. Peccato, però, che proprio da novembre dello scorso anno il Tea non sia più stato corrisposto: né nella sua interezza – per i mesi di novembre e dicembre – né nella misura del 35 per cento. Tanto che circa 500, tra sottufficiali e ufficiali, hanno presentato ricorso. “Ora l’Avvocatura dello Stato ha scritto al Dipartimento chiedendo perché non sono stati erogati quei fondi – prosegue il funzionario – e sottolineando come il personale sia l’ultima risorsa da toccare, anche in tempi di spending review”. Non solo: c’è un’analoga lettera del ministero dell’Economia che, preoccupato, fa notare come adesso siano da pagare anche gli interessi di mora. Non si capisce dunque perché la situazione non si sblocchi. Il bilancio della struttura, in generale, è stato fortemente penalizzato: si è passati dai 28 milioni di euro del 2001 ai 9 di quest’anno. Oltre tutto della Dia dovevano far parte, secondo la legge istitutiva del 1991, tra le tremila e le quattromila unità. Numeri mai raggiunti. Oggi la Direzione è composta da circa mille e 400 persone, 12 centri operativi e sette sezioni distaccate, “e ci sono centri che non hanno più personale della polizia di Stato, non mandano più né funzionari né ispettori”. Però ad aprile è accaduta un’altra cosa: è stato firmato un protocollo d’intesa tra la Direzione nazionale antimafia e il Corpo forestale dello Stato, per cui quest’ultimo metterà a disposizione i propri nuclei specializzati e la propria competenza in materia di tutela del territorio. “Nulla contro i colleghi della Forestale – spiega un agente –, ma il rischio è di perdere la nostra specificità, la nostra esperienza in materia di reati associativi. Se entra la Forestale dovrà entrare anche la Penitenziaria”.
Quello che spaventa di più gli uomini dell’Antimafia, però, sta avvenendo in realtà molto sotto traccia. Si stanno creando gruppi interforze ad hoc per il controllo degli appalti: vedi la ricostruzione all’Aquila (Gicer), l’Expo Milano 2015 (Gicex) e ora il terremoto in Emilia. “Ma la Dia ha già al suo interno un Osservatorio centrale sugli appalti” conclude il funzionario. La sensazione, dunque, è che la si voglia svuotare di soldi e significato. “C’è un atteggiamento vessatorio nei confronti del personale della Dia – fa notare Enzo Marco Letizia, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia – e la politica si mostra disattenta rispetto a tutto questo”. “Non colgo un’azione volontaria per smantellarla – ci va più cauto il segretario del Silp Cgil, Claudio Giardullo –, ma un immobilismo incomprensibile che rende impossibile utilizzare una struttura di eccellenza”. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridono ancora nella pagina riservata alla Dia sul sito del Viminale. Sorridono ignari.
Da Il Fatto Quotidiano del 22 agosto 2012