Eppure non accade nulla.
Si è costretti a fingere di occuparsi di ciò che accade –giocoforza è inevitabile- ma quando si ha voglia di scambiare, con degli intimi fidati, la sintesi veritiera dell’attuale situazione italiana, subentra uno scoramento collettivo nel prendere atto che il paese è completamente paralizzato. Chi non lo capisce e non lo vede, o è stupido o è in malafede.
Ma un paese (una nazione, una etnia, un popolo) non è una astrazione, tantomeno una nozione virtuale. E’ la somma dei soggetti che lo compongono. La peste bubbonica della Mafia Mentale si è ormai impossessata delle esistenze degli individui e non si registra in nessuna formazione politica, presso nessuna categoria di lavoratori e tantomeno in alcun partito politico rappresentato, un conato, un vagito, una pallida sembianza di pudore civile che spinga qualcuno all’assunzione in proprio di una consapevolezza individuale, ammettendo le proprie responsabilità, se non altro nel proprio ambito. Macchè.
L’affaire Monte dei Paschi di Siena ne è un tragico termometro.
L’ex presidente di quella banca, dopo essere stato protagonista (oltre che autore e responsabile) del grave dissesto finanziario ai danni della collettività, viene promosso e nominato presidente della Associazione Bancaria Italiana con gli applausi di coloro che avrebbero dovuto controllarlo, denunciarlo e buttarlo in galera. Ancora oggi, nonostante siamo finiti nell’occhio del ciclone, non esiste neanche un giornalista italiano, un esponente politico, un importante magistrato, che si sia interrogato sulla vicenda e che abbia rivolto una domanda elementare ai diversi responsabili del Tesoro, di Bankitalia, ai diversi ministri dell’economia che negli ultimi dieci anni hanno gestito il management delle banche italiane. “Come è possibile che sia accaduto un fatto del genere?”.
Tutti quanti, a destra e a sinistra, sono sorpresi. E naturalmente non accade nulla.
Non così nel resto dell’Europa.
Nonostante in Italia sia stato censurato in maniera schiacciante, nel nostro continente il dibattito sul marciume corrotto dell’intero sistema bancario europeo (con l’Italia come leader) prosegue e si manifesta attraverso incontri, scontri, dibattiti, perché è ormai chiaro a tutti –anche ai più riottosi- che ci troviamo alla vigilia della fine di un percorso storico e il cambiamento immediato è ineluttabile. Pena l’implosione dell’intero sistema finanziario occidentale, con disastrose conseguenze epocali per l’intera collettività.
Da noi, invece, poiché gli italiani hanno scelto la rassegnazione tingendola dei consueti colori di un cinismo opportunista di parte, -fazioso quanto irresponsabile- si finge una sorpresa e si cerca di guadagnarci sopra quanto si può, usando e sfruttando le notizie e le informazioni per lucrare un punto in percentuale per il proprio partito, la propria associazione, movimento, istituzione, sostenendo che la responsabilità è da addebitare alla fazione opposta.
Tutti i più importanti esponenti politici che oggi sono in prima fila nella battaglia elettorale (compreso Mario Monti che “finge” di essere un novizio) hanno gestito negli ultimi 25 anni tutto ciò che c’era da gestire. Eppure non c’è nessuno che sostenga di essere stato, nella sua quota parte, responsabile di simile obbrobrio civico.
Non solo. Si arriva addirittura al punto di ascoltare gente come Giulio Tremonti (l’amorevole papà buono delle banche italiane corrotte) il quale si è presentato come il leader dell’opposizione contro le banche, denunciando il comportamento di persone che lui stesso ha fatto assumere imponendole di rigore. E’ un po’ come se Benito Mussolini, nel 1944, avesse deciso di diventare il leader riconosciuto delle brigate garibaldine della resistenza anti-fascista.
Nel resto dell’occidente non è così.
Non esiste nessun paese, da Varsavia a Lima, da Montreal a Stoccolma, in cui la classe dirigente sia la stessa di 25 anni fa. Noi siamo l’unico. Siamo unici.
I giovani anglo-americani non sanno neppure chi siano Margaret Thatcher o Henry Kissinger e in Francia e Germania gente come Jacques Chirac o Helmut Kohl vengono considerati alla stregua di vecchi nonni ritirati dal servizio pubblico, i quali ogni tanto si fanno vedere a qualche festival locale che conta poco o niente.
In Italia c’è ancora gente che attribuisce un qualunque valore a persone come Berlusconi, Bossi, Bersani, Monti, Casini. Nel Lazio, Francesco Storace si è candidato presentandosi come la novità politica del momento e i sondaggi lo accreditano di una vigorosa percentuale. Idem per ciò che riguarda la Lombardia dove è candidato Roberto Maroni, l’uomo che nella sua qualità di ministro degli interni non è riuscito ad impedire la totale presa del territorio lombardo da parte della ‘ndrangheta, fornendo un enorme contributo alla distruzione del tessuto industriale di quella regione.
Se tutto ciò è accaduto, se tutto ciò sta accadendo, se tutto ciò seguiterà ad accadere, non è colpa dei comunisti (se si è di destra) o dei fascisti (se si è di sinistra) ecc., è colpa dei singoli individui italiani che compongono la collettività. Cioè di tutti.
L’Italia è diventata una nazione di malati mentali, votati a un masochistico suicidio consapevole. Fa testo il nuovo preoccupante record nazionale di cui poco si parla: siamo diventati il primo paese d’occidente nel consumo di psico-farmaci, anti-depressivi e ansiolitici, nonché record mondiale come quantità di persone che nel 2012 si sono presentate al pronto soccorso ospedaliero in preda ad un attacco di panico. Anche a me, se fossi un lombardo, l’idea di vedere Berlusconi, Formigoni o Maroni candidati alle elezioni farebbe venire un attacco di panico. Idem per tutti gli altri in tutte le altre ragioni. Basterebbe non votarli più.
Tutto qui.
Si tratta di una tossicomania. Questa è la verità.
Forse un giorno si scoprirà che avevano immesso negli acquedotti nazionali delle sostanze incolori, inodori, insapori, che provocavano dipendenza dai ladri banditi. E’ difficile trovare, per il momento, altre spiegazioni.
La Cultura è sempre stata il miglior toccasana contro le intossicazioni dello spirito, contro la deriva morale dell’anima. Non a caso l’attuale classe politica dirigente ha investito nei decenni scorsi ingenti risorse per eliminarla (o accorpandola al proprio servizio per osmosi da corruttela) impedendo alla collettività di poter produrre il necessario sistema immunitario per combattere il morbo e sottrarsi alla tossicomania.
Fino ai primissimi anni’80 esisteva ancora una rigorosa classe intellettuale che esercitava una propria funzione di sostegno degli onesti, di stimolo e pungolo, di furiosa e furibonda protesta contro la corruzione, accompagnata da forti e coraggiose prese di posizione. Nei decenni è stata decimata, consapevolmente. Volontariamente.
Oggi, privi di bussole e punti di riferimento, gli onesti vivono se stessi come clandestini della società, veri partigiani esistenziali in una lotta di resistenza all’idiozia, alla falsità e alla menzogna continua, ufficiale e non, alla disperata ricerca di quel Senso che ci hanno sottratto.
Quello va recuperato.
Per chi è troppo giovane per ricordarlo, o per coloro che non lo hanno mai letto, propongo qui di seguito un testo esemplare di un grande intellettuale italiano. Si tratta di uno scritto storico perché ha segnato il confine tra un’Italia bella, sveglia, intelligente e combattiva e questa italietta melensa di oggi. Venne pubblicato il 15 marzo del 1980 sul quotidiano La Repubblica sotto forma di ampio editoriale, provocando allora un furibondo dibattito. In seguito a questo articolo si scatenò, allora, una gigantesca polemica, perché l’autore –l’italiano Italo Calvino- che era stato anti-fascista nel 1930, diventato poi comunista ed espulso dal partito nel 1956 per aver osato contestare con vigoria la sanguinosa invasione sovietica dell’Ungheria, chiamava a rapporto i vertici della sinistra italiana, denunciandone la natura conservatrice, ipocrita, doppiogiochista, liberticida, avvertendo la cittadinanza che ci si trovava all’alba di una svolta pericolosa, l’inizio di “un sistema di corruzione mentale che è foriero di una spaventosa dittatura potenziale che potrebbe avvinghiare le prossime generazioni soffocandone lo spirito, l’entusiasmo vitale, finendo per disossarle di ogni speranza ed entusiasmo per il loro futuro”. Era già tardi. Venne massacrato. Di lì a tre mesi se ne andò dall’Italia trasferendosi a vivere a Parigi. L’articolo era dedicato “agli italiani onesti”.
Mi sembra un ottimo toccasana per cercare di riallacciarci a un filo (e a un filone) nazionale, non importato, che appartiene alla autentica tradizione intellettuale di un grande spirito libertario. Tutto italiano. Doc.
Bisogna prendere atto della realtà per ciò che essa è.
Le mummie si sono impossessate del paese e delle menti delle persone, come nei film di fantascienza o in quelli horror hollywoodiani.
Dobbiamo ripartire da questo editoriale della primavera del 1980.
Viene dall’aldilà, essendo l’autore morto qualche anno dopo.
Ma è come se fosse stato scritto ieri. Anzi, proprio oggi.
Noi veniamo da lì. Anche.
E da lì bisogna ripartire.
Buona lettura.
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino
di Italo Calvino
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.