lunedì 5 luglio 2021

Berlusconi al Colle: è Nonno Libero il grande elettore. - Tommaso Rodano

 

Come un fiume carsico, il nome di Silvio Berlusconi riaffiora per l’ennesima volta in direzione Quirinale. Può sembrare assurdo nel 2021 che a qualcuno venga in mente di proporre come presidente della Repubblica il personaggio più divisivo dell’Italia contemporanea, eppure è davvero così: Lui è scaramantico ma ci crede e Loro, quelli che gli stanno vicino, sono al lavoro per trasformare il sogno in realtà.

Berlusconi avrebbe confessato al Corriere della Sera – si legge in un retroscena di Francesco Verderami – di sentire solo “il 10- 15% di possibilità” di farcela, ma di avere una strategia per pescare i molti voti che mancano nel ventre molle e in dissoluzione dei Cinque Stelle in Parlamento.

Così ieri il nuovo tam-tam dei silviofili ha preso il largo con le dichiarazioni del sempre affettuoso Gianfranco Rotondi. Un’idea quasi onirica, quella del democristiano: Berlusconi al Quirinale per 18 mesi e solo per agevolare il passaggio a un sistema presidenziale. “La seconda repubblica – sostiene Rotondi – è incinta da ventisette anni della riforma presidenzialista, progettata ai tempi del tentativo Maccanico, sempre inserita nei programmi del centrodestra, mai realmente avviata. L’elezione di Silvio Berlusconi al Quirinale aprirebbe finalmente a questa possibilità, e Silvio sarebbe il solo presidente capace di accompagnare la riforma dimettendosi dopo diciotto mesi, al compimento del percorso di riforma costituzionale”. Uno scenario affascinante, al limite del lisergico, frutto di una progettualità a suo modo geniale.

Meno fantasioso di Rotondi, molto più prudente, ma in fondo ottimista è il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani: “Credo che sia prematuro lanciare candidature dai partiti per il Quirinale – ha detto a SkyTg24 – perché non è ancora iniziato il semestre bianco. Ma se lo chiedete a me, sono convinto che Berlusconi sarebbe un ottimo presidente della Repubblica. In ogni caso il centrodestra per l’elezione si muoverà compatto”.

Matteo Salvini per ora è poco compatto, fa lo gnorri: “Per il presidente della Repubblica si vota a febbraio del 2022. Ora mi sto occupando di salute e di lavoro, non di Quirinale. Non ho letto il Corriere, leggo solo la Gazzetta dello Sport e tifo per l’Italia”.

Ma il sostegno più convinto alla candidatura dell’ottuagenario Silvio arriva – coerentemente – dal settore della terza età. È accorato l’endorsement di Fabio Sciotto, presidente nazionale della Fapi (Federazione artigiani pensionati italiani): “Berlusconi al Colle sarebbe motivo di grande orgoglio e soddisfazione per le categorie produttive del Paese. Siamo convinti che darebbe lustro e credibilità internazionale all’Italia nel mondo, consentendo alle imprese di crescere e di espandersi anche in ragione di una autorevole ed esperta guida della nostra Repubblica”.

Alla fine il più entusiasta di tutti all’idea di Nonno Silvio al Colle è Nonno Libero, al secolo Lino Banfi: “Sarebbe bellissimo – dice sicuro – e glielo chiederò di persona tra pochi giorni, perché lui ogni anno, da quarant’anni, l’11 luglio che è il giorno del mio compleanno, mi telefona e mi dice ‘auguri vecchio’, perché sono nato poco più di due mesi prima di lui. Al Quirinale avrebbe vicino un uomo che è la sintesi, l’incarnazione della mediazione, che è Gianni Letta. E poi magari Berlusconi si inventerebbe un’altra onorificenza per me: tipo il Nonno d’Italia o l’Allenatore del Quirinale”. 2022, arriva in fretta.

ILFQ


Ma ci rendiamo conto del fatto che è stato condannato in via definitiva per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, creazione di fondi neri gestendo i diritti tv di Mediaset e che è sospettato di avuto rapporti con la mafia, oltre ad aver accumulato altri reati per cui, a suo nome, pendono altri processi?

“Sminatori” 5S, restano 2 nodi: sfiducia al leader e ruolo politico di Grillo. - To. Ro.

 

Movimento in conclave - I “7” ieri hanno telefonato al fondatore che riceve una lettera da cento attivisti: “Così ci fregano”.

Una domenica di lavoro per provare a salvare il Movimento cinque stelle. Il tavolo virtuale è ancora su Zoom, a sedersi sono sempre i sette “saggi” che devono riscrivere lo Statuto e le regole in una forma che sia digeribile sia per il leader Giuseppe Conte che per il fondatore Beppe Grillo. Lavorano limando regole e codici, cercano una soluzione formale per colmare il vuoto enorme, sostanziale, che si era creato tra i duellanti del Movimento.

Una delle consegne assolute per i sette “sminatori” è quella del silenzio: sui risultati del loro lavoro filtra poco. Dopo il disastro dei giorni scorsi c’è un ottimismo di fondo, chissà quanto auto-imposto. Si comunica – come in una seduta automotivazionale – “grande determinazione” e “massima attenzione”. Chissà se basteranno.

Dal lavoro certosino dei sette dovrà vedere la luce l’insieme delle nuove regole, la rinnovata struttura su cui sarà fatto poggiare il “neo Movimento”, come l’aveva battezzato Conte (in una definizione forse non proprio apprezzata dal fondatore): e dunque Statuto, carta dei valori, codice etico.

Il lavoro di messa a punto dello Statuto della discordia dovrebbe essere quasi ultimato: è a “due terzi” secondo quanto filtra da chi ci sta mettendo mano. Se tutto procederà bene, sarà portato a termine entro stasera e potrebbe essere presentato alle due parti già domani.

Se Grillo e Conte lo accetteranno, a quel punto bisognerà indire la votazione degli iscritti, conservando almeno una spolverata di democrazia diretta nello scontro individuale tra le due personalità del Movimento.

Tra i nodi rimasti da sciogliere non c’è il tema dei due mandati. Al contrario di quanto si riteneva, su questo Conte e Grillo sono sostanzialmente d’accordo, o meglio: nessuno dei due è contrario a cambiare questa regola fondativa e lasciarla decidere dalla base del Movimento. Con diverse soluzioni: si potrebbe adottare una deroga al limite dei due mandati per gli eletti “meritevoli” (un po’ come avviene nel Pd) oppure concedere un terzo mandato a chi ne ha già fatti due, ma in un’assemblea elettiva diversa da quella in cui siede. I sette “saggi” in ogni caso non se ne stanno occupando, perché non è su questo tema che Conte e Grillo sono in disaccordo.

I nodi sono essenzialmente due, invece: il primo è la natura del ruolo del “garante”. Grillo chiede una formula che gli riconosca la primazia non solo sui valori del Movimento ma anche sulla “iniziativa politica”. Per Conte sarebbe il realizzarsi della “diarchia” che l’ex premier ha detto chiaramente di non poter accettare: se Grillo assume su di sé anche l’indirizzo politico, al leader cosa rimane?

L’altro punto sensibile riguarda il meccanismo di sfiducia del leader politico. Conte ha già accettato che il suo mandato alla guida dei Cinque stelle possa essere sottoposto al giudizio degli iscritti se il garante o uno degli altri organi direttivi intendesse chiedere una votazione di sfiducia. Ma pretende un meccanismo di riequilibrio, una sorta di “sfiducia costruttiva”: se la base dovesse dare ragione al leader politico contro la proposta di sfiducia, a quel punto a decadere dovrebbe essere l’organo che l’ha promossa.

Su questi aspetti lavorano gli “sminatori”, con la cautela che si richiede alla missione. Tra poco il loro compito sarà terminato, a quel punto toccherà ai due litiganti. Allora si capirà la verità: se Grillo ha bluffato o ha giocato sul serio. E cioè se ha affidato il mandato ai sette (Di Maio, Fico, Crimi, Patuanelli, Crippa, Licheri, Beghin) solo per condividere insieme a loro il naufragio della trattativa e della leadership di Conte (e probabilmente la fine del Movimento cinque stelle), oppure se ha capito di non avere altre carte in mano che affidare i destini della sua creatura all’ex presidente del Consiglio. Il quale è stato chiaro: prenderà la guida del Movimento solo se ci sarà una separazione netta dei ruoli e un controllo della direzione politica autonomo dall’ingombrante carisma del fondatore.

ILFQ

Ignorati e senza soldi. Così stan morendo gli Archivi di Stato. - Leonardo Bison

 

Chiudono uno dopo l’altro. A Camerino è salvato dai percettori di reddito di cittadinanza. Il patrimonio documentale italiano è in pericolo: mancano addetti e dirigenti.

Grazie a un accordo tra il Comune e la direzione generale Archivi del ministero della Cultura, all’Archivio di Stato di Camerino lavoreranno i percettori di reddito di cittadinanza. La direttrice generale Anna Maria Buzzi ha dichiarato: “È il primo progetto di questo tipo in Italia. Spero possa essere presto portato avanti in altre realtà territoriali”. Si è così evitata la chiusura della sede, che era stata paventata all’inizio del 2021, e Camerino non è l’unico caso. Se si prendono in considerazione anche solo gli ultimi mesi, ci si accorge che sono in molti gli archivi a rischio chiusura. Tra gli altri, l’Archivio di Stato di Foggia, come spiegato dalla sua direttrice ai giornali l’8 giugno. In maggio un simile allarme è stato lanciato dall’Archivio di Stato di Nuoro, in aprile da quello di Trani, mentre da gennaio è noto che gli Archivi di Stato abruzzesi corrano lo stesso rischio, soprattutto quello di Sulmona. Il 30 giugno il deputato Cassinelli (FI) ha spiegato che lo stesso rischio riguarda quello di Genova. La situazione è sempre la stessa, un solo funzionario rimasto in servizio, e ormai prossimo alla pensione, ed è una situazione “insostenibile, che peggiora di anno in anno” spiega Micaela Procaccia, presidente dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana e già funzionaria e dirigente ministeriale, entrata nel 1978, che sottolinea come questa condizione colpisca la stragrande maggioranza degli archivi, in particolar modo al Centro-Nord. “Capisco per questo la scelta di inserire i precettori di reddito pur di non chiudere – spiega – ma la pezza rischia di essere peggiore del buco: anche i custodi, in spazi tanto ricchi e delicati, devono sapere come muoversi”.

Siamo di fronte a un collasso annunciato da almeno vent’anni: nell’ultimo decennio sono andati in pensione la quasi totalità degli assunti dei primi anni 80, che avevano riempito le fila dell’allora Ministero per i beni culturali garantendo anche il funzionamento degli Archivi di Stato. Una pletora di compiti diversi, che vanno dalla selezione del materiale da archiviare (tutti i documenti prodotti da ogni amministrazione statale, dalle prefetture alle carceri, devono passare per la supervisione dei funzionari prima di essere scartati), alla conservazione dello stesso in forme e spazi idonei, fino alla fruizione da parte del pubblico. Servono funzionari archivisti, e poi amministrativi, sorveglianti e custodi, ma anche immobili e spazi adeguati. Oggi manca, in troppi casi, quasi tutto, tanto che il 10 giugno la commissione cultura del Senato ha chiesto di avviare un’indagine sulla situazione del settore. “Conosco colleghi che devono partecipare a commissioni per lo scarto dei materiali in 15 enti diversi, occuparsi della manutenzione degli spazi, e poi della sala studio e dell’utenza: da soli”, spiega Procaccia. Il personale in servizio nel 2008 nei 101 archivi e 33 sezioni era oltre di oltre 3 mila unità, mentre nel 2018 era sceso a poco più di 2.200. Nonostante l’assunzione di 190 nuovi funzionari archivisti dopo il concorso del 2016 (il primo con simili numeri dopo trent’anni) si calcola che nel 2022 saranno 279 gli archivisti operativi, contro i 600 necessari: nel 2011 erano 535. Anche i dirigenti sono meno della metà del necessario, e da anni i posti nel settore archivistico vengono coperti da dirigenti di altri settori, che non conoscono la materia.

Gli archivi non sono legati soltanto alla memoria, ma raccolgono la documentazione amministrativa del Paese. Lì sono conservati anche documenti e materiali, a volte pezzi unici, dal valore storico ed economico rilevante. Una situazione di difficoltà simile lascia spazio a sottrazioni e furti. Spesso il Nucleo tutela del patrimonio culturale dei carabinieri rinviene documenti – risalenti anche al XIV o XV secolo – sottratti nel corso dei decenni agli archivi di stato. E alcuni casi assurgono alle cronache nazionali: nell’agosto 2020 fu annunciato un furto di almeno 970 labari della Marcia su Roma dall’Archivio centrale di Stato; nel novembre 2019 fu l’eurodeputato Mario Borghezio ad essere denunciato dall’Archivio di Stato di Torino per aver sottratto centinaia di documenti (il leghista si è difeso spiegando che voleva solo fotocopiarli, ma nessun documento può uscire dall’Archivio senza autorizzazione). Inserire in questo contesto persone senza formazione né esperienza, costrette a svolgere compiti di vigilanza e custodia per non perdere i sussidi, appare un’operazione gravida di rischi.

La chiusura a tempo indeterminato che si abbatte su alcune delle sedi è solo la punta di un iceberg. Da decenni la fruizione degli utenti diventa sempre più limitata: un funzionario deve sempre essere a disposizione degli stessi durante i momenti di apertura al pubblico. E anche se durante i mesi del lockdown gli archivi sono rimasti aperti, come più volte rivendicato dal ministero e dalla direzione generale Archivi, la limitazione di orari e posti messi a disposizione, nonché del numero di documenti consultabili, li ha resi spesso quasi inutilizzabili. Solo pochi giorni fa un centinaio di accademici di tutto il mondo hanno scritto l’ennesima lettera al ministro, stavolta sulle condizioni dell’Archivio di Stato di Venezia. “Le difficoltà illustrate stanno incidendo in maniera pesantissima sulla filiera della ricerca – scrivono – con esiti devastanti per i singoli studiosi ma anche, ci pare di poter affermare, per l’immagine dell’Istituto”. Servirebbe più personale, ma questo continua a calare per i pensionamenti, mentre il concorso che avrebbe dovuto vedere la luce nel 2020 (che porterebbe all’assunzione di qualche decina di archivisti e di 8 dirigenti) è stato rinviato a data ancora da destinarsi. Nel Recovery Plan non c’è traccia degli Archivi di Stato, se non per un pur opportuno adeguamento energetico delle sedi e un investimento per la digitalizzazione del materiale (40 miliardi, di cui 500 milioni solo per il settore culturale). Ma “i processi di archiviazione informatica non sono più semplici di quelli cartacei – conclude Procaccia -. Senza personale formato e in numero sufficiente, difficile che la digitalizzazione possa risolvere qualcosa”.

ILFQ

Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio

 

Il Delinquente della Repubblica. “Berlusconi in campo per il Colle: mi do il 10-15% di possibilità” (Francesco Verderami, Corriere della sera, 3.7). Se vota tutta la famiglia Mubarak, è fatta.

La Storia siamo loro. “Nessuna alleanza obbligata, vedremo l’evoluzione 5Stelle. Concorrenza di Conte? Se penso alla nostra storia, non ci spaventa” (Irene Tinagli, vicesegretaria Pd, Messaggero, 3.7). La storia di una che stava in Italia Futura con Montezemolo e in Scelta civica con Monti.

Maremma Maiolo. “La macelleria di S.M. Capua Vetere. Travaglio e Bonafede ululavano: mai liberi! Vi stupite dei pestaggi?” (Tiziana Maiolo, Riformista, 2.7). Ora un tribunale dovrà decidere se li abbia picchiati io o se questa poveretta meriti finalmente il sospirato Tso.

Il passo del Merlo. “Nel Paese è cambiato il clima e sta cambiando il passo” (Francesco Merlo, Repubblica, 2.7). Ora c’è quello dell’oca.

Il nuovo Ungaretti. “Posso dire del libro di poesie di Nichi Vendola come se le voci e le carte fossero… passeggere, opinabili. Un libro invece resta, passa di mano in mano e di casa in casa per generazioni… Ecco, lo sguardo di Vendola è limpido. La sua poetica pasoliniana struggente e feroce, la lingua aspra e la consapevolezza, specie nel dolore e nell’errore, piena” (Concita De Gregorio, Repubblica, 2.7). M’illumino d’incenso.

Scappa e spada. “Conte ci ha divisi, sarà difficile ricomporre. Chi esce lasci gli incarichi” (Vincenzo Spadafora, deputato M5S, Correre della sera, 2.7). E chi ha spinto Franco Di Mare alla direzione di Rai3 in quota 5Stelle che fa, resta?

Berdini con la B. “A sinistra rispunta Berdini: ‘Per il Comune di Roma ci sono anch’io’” (Repubblica-cronaca di Roma, 27.6). Mo’ me lo segno.

Il trascinatore di folle. “Appello di Calenda a Letta: ‘Ora basta 5Stelle!’” (Claudia Fusani, Riformista, 2.7). In effetti scambiare un alleato al 16% con uno al 2% è un affarone.

Forza Coerenza. “Forza Francia!” (Radio Padania, Europei 2000). “Forza Germania!” (Radio Padania, Mondiali 2006). “Devo ancora decidere se fare il tifo per il Brasile, l’Argentina, la Germania o la Repubblica Federale Elvetica. Certo non per l’Italia” (Matteo Salvini, Lega Nord, Mondiali 2010). “Andiamo a Monaco cazzo! Andiamo a Monaco! Dai dai dai dai dai! Sì sì sì sì sì!” (Matteo Salvini, Lega, con la maglia della Nazionale, Instagram, 26.6). Dopo numerosi tentativi, deve avere appena ottenuto la cittadinanza.

Apparizioni. “Il Capitano e il voto nelle città: ‘Sul candidato di Milano ci tocca andare a Lourdes’” (Stampa, 3.7). A Medjugorje non lo fanno più entrare.

Riza Psicosomara. “Il reddito grillino atrofizza il cervello” (Raffaele Morelli, psichiatra, Libero, 28.6). Lui comunque non rischia nulla.

Descamisados. “Non me lo vedo Conte a capo dei descamisados che leggono il Fatto di Travaglio” (Paolo Mieli, Giornale, 29.6). Uahahahahah.

Un sincero democratico. “Io consegnerei anche nella prossima legislatura le chiavi di Palazzo Chigi a Draghi o al premier draghiano che verrà dopo di lui” (Mieli, ibidem). Giusto: aboliamo le elezioni.

L’ideona. “Un solo modo per impedire questi orrori: abolire il carcere” (Piero Sansonetti, Riformista, 29.6). Da oggi svaligiare casa Sansonetti senza passare dal carcere si può. Diamoci da fare.

Uffa, altro sondaggio sbagliato. “Michetti svetta su tutti. Gualtieri incalza Raggi. La sindaca al 23,5%, l’ex ministro del Pd al 23, 1, che però vincerebbe il ballottaggio con chiunque” (Repubblica- cronaca di Roma, 2.7). È il loro modo per dire che Gualtieri è terzo dietro Michetti e la Raggi, però basta abolire il primo turno e diventa primo.

A grande richiesta. “Lo ‘Spelacchio’ in piazza del Fico pericolante sulle teste dei passanti” (Repubblica, cronaca di Roma, 29.6). Se ne sentiva giusto la mancanza: quando la Raggi rischia di non perdere, non si butta via niente. Uno Spelacchio è per sempre.

L’autorecensione. “’Libro Aperto’, la rivista di cultura politica diretta da Antonio Patuelli, dedica il supplemento al numero 105 (‘Luigi Einaudi 1961-2021’, pagg. 320, euro 20) a questa nobile esistenza… Oltre ai nomi già citati, il volume si avvale degli interventi… di chi scrive questa rubrica” (Stefano Folli, Robinson-Repubblica, 3.7). Povero Folli: non c’era nessuno che volesse recensirlo e allora si è recensito da solo. Alla fine l’oste ha garantito che il vino era buono.

La mano morta. “Darò una mano sul ddl Zan” (Matteo Renzi, segretario Iv, Giornale, 2.7). Quindi salutiamo il ddl Zan: una prece.

Ottimo e abbondante. “Ma adesso ci serve solo debito buono” (Mario Draghi, Stampa, 2.7). Dicesi debito buono quello che fa lui. Dicesi debito cattivo quello che fanno gli altri.

Il titolo della settimana/1. “Libero pubblica le proposte di Orbàn. Gli altri giornali no” (Libero, 3.7). Sono soddisfazioni.

Il titolo della settimana/2. “Referendum Radicali, Lega e Forza Italia, è già record di firme. Dopo l’Udc, c’è il sì dei Riformisti” (Verità, 3.7). Solo non si vedono i due liocorni.

ILFQ

domenica 4 luglio 2021

IA, l’Italia ha il suo primo Dottorato nazionale.

 

Promosso dal MUR e coordinato da CNR e Università di Pisa, riunisce 61 università e mette in campo 177 borse di studio. È la prima volta.

Promuovere l'alta formazione sull'intelligenza artificiale, costruire una comunità di giovani ricercatori distribuita su tutto il territorio nazionale che porti innovazione nel mondo della ricerca e in quello dell'industria italiane, creare una vera e propria rete italiana di centri di ricerca su un tema così strategico per il futuro del paese e dell'Europa: sono questi gli obiettivi del primo Dottorato nazionale in intelligenza artificiale.

Il progetto promosso dal MUR e coordinato dal CNR e dall’Università di Pisa, si basa su una rete formata da 5 atenei capofila, da Torino a Napoli passando per Roma e Pisa, che coinvolge 61 università e centri di ricerca sparsi per tutta Italia che ospiteranno la formazione dei dottorandi. Marco Conti, direttore dell’Istituto di Informatica e Telematica di Pisa, è il responsabile scientifico CNR per il progetto di dottorato nazionale.

Sono 177 le borse di studio messe a disposizione per il primo ciclo di questa importantissima operazione formativa: una vasta rete di futuri ricercatori, innovatori e professionisti che al termine dei tre anni di percorso saranno specializzati sia nelle tematiche di punta della ricerca sull'AI che nei settori applicativi, allenati ad avere una visione integrata e articolata dell’ecosistema delle tecnologie e delle soluzioni AI e in grado di affrontare i problemi con un approccio sistemico e multi-disciplinare, sia nel mondo della ricerca che in quello dell’impresa.

Il modello organizzativo sfrutta una struttura coordinata orizzontale/verticale: tutti i dottorandi parteciperanno a esperienze e attività formative multidisciplinari comuni, per poi concentrarsi sull'area di specializzazione scelta. Le cinque aree sono state individuate nei settori strategici di sviluppo e applicazione dell'intelligenza artificiale:

- Salute e scienze della vita, con capofila l'Università Campus Bio-Medico di Roma: intelligenza artificiale, IoT e biorobotics per promuovere la medicina di precisione, una medicina sempre più predittiva, preventiva, personalizzata e partecipativa.

- Agricoltura (agrifood) e ambiente, capofila l'Università degli Studi di Napoli Federico II: l’intelligenza artificiale per fronteggiare le incertezze legate al cambiamento climatico e la variabilità dei fattori che determinano la produzione primaria.

- Sicurezza e cybersecurity, capofila la Sapienza Università di Roma: applicazione delle tecniche di intelligenza artificiale per la sicurezza dei sistemi informatici e la sicurezza delle infrastrutture , la cyber intelligence, la protezione della privacy.

- Industria 4.0, capofila il Politecnico di Torino: robotica, manutenzione preventiva, automatizzazione dei processi, analisi dei dati per migliorare la produzione ed aumentare la competitività.

- Società, capofila l'Università di Pisa: l’intelligenza artificiale e la data science per lo studio della società e della complessità dei fenomeni sociali ed economici quali, ad esempio, la mobilità umana e la dinamica delle città, le migrazioni ed i loro determinanti economici, la formazione e la dinamica delle opinioni e delle conversazioni online, e l’impatto sociale dei sistemi AI.

Marco Conti commenta così l’apertura del bando: “Il dottorato nazionale in Intelligenza Artificiale ha raggiunto l’importante obiettivo di mobilizzare le risorse delle università e degli enti di ricerca nazionali per realizzare uno dei programmi di dottorato sull’intelligenza artificiale più grandi ed ambiziosi a livello mondiale, in grado di formare una generazione di dottori di ricerca per guidare la transizione digitale del Paese.

La struttura a rete basata su cinque hub, con il coordinamento del CNR e dell’Università di Pisa, ha consentito di mettere a sistema le eccellenze del Paese in questo settore e allo stesso tempo di garantire un’ampia copertura del territorio nazionale. Una struttura che rappresenta un modello virtuoso per guidare il rilancio del Paese, attraverso il PNRR, investendo sulle eccellenze ma riducendo allo stesso tempo il digital divide.

Uno dei temi trasversali più importanti per l’intero dottorato è quello della Trustworthy AIl’intelligenza artificiale “degna di fiducia”, l’elemento che caratterizza la strategia dell’Unione Europea per l’AI: i dottorandi seguiranno corsi dedicati a etica, equità, correttezza, sicurezza, giustizia, accettazione sociale dell’intelligenza artificiale, oltre a concentrarsi sullo sviluppo di una AI sostenibile e che possa aiutare la società europea a raggiungere i Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 dell’ONU.

ANSA

Tassa minima globale: Irlanda, Estonia e Ungheria contro il via libera finale (per ora). - MIchele Pignatelli

 

Il nodo dell'unanimità. Tre paesi non hanno firmato l'intesa Ocse e per una direttiva Ue serve il via libera di tutti gli Stati membri.

All’indomani di quella che Janet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, ha definito «una giornata storica per la diplomazia economica», l’intesa sulla tassazione globale minima siglata con il coordinamento dell’Ocse da 130 Paesi su 139 inizia a fare i conti con gli ostacoli che ancora restano per renderla effettiva.

All’appello tra i firmatari mancano 9 Paesi, ma a preoccupare sono soprattutto le tre defezioni europee. Irlanda, Ungheria ed Estonia per il momento hanno detto no al piano, già avallato dal G7, che prevede una corporate tax minima del 15% e una redistribuzione almeno parziale delle tasse pagate dalle multinazionali, allocando parte di quel gettito nei Paesi in cui gli utili vengono effettivamente realizzati.

Irlanda, Ungheria ed Estonia insieme valgono appena il 4% del Pil Ue e il 3,6% della popolazione, ma il loro potere negoziale è amplificato dalle normative comunitarie, che richiedono il varo di una direttiva approvata all’unanimità. E i primi segnali non sono incoraggianti.

L’Ungheria, spina nel fianco Ue.

«La minimum tax globale ostacolerebbe la crescita, l’aliquota del 15% è troppo alta e non dovrebbe essere applicata alle attività economiche reali», ha sentenziato ieri il ministro delle Finanze ungherese Mihaly Varga, salvo poi smorzare i toni dicendosi pronto a continuare colloqui «costruttivi» con i partner Ocse per raggiungere «un accordo appropriato». 

Budapest, con una corporate tax del 9%, ha l’aliquota più bassa nell’Unione europea e l’ha sfruttata per attrarre robusti investimenti nel settore automobilistico e manifatturiero (da Bmw agli impianti per la produzione di batterie); investimenti che hanno trainato la crescita e l’impiego, contribuendo a rafforzare il potere del premier Viktor Orban e offrendogli una solida base di consenso per reggere lo scontro con l’Unione europea sullo Stato di diritto. Non è un caso che Orban qualche giorno fa abbia definito «assurdo» il fatto che «un’organizzazione internazionale si arroghi il diritto di dire quali tasse l’Ungheria può imporre e quali no», tanto più – ha aggiunto - che il Paese «non è un paradiso fiscale», ma attrae imprese che investono veramente e non scelgono l’Ungheria soltanto come sede legale per pagare meno tasse.

L’Irlanda, allievo modello.

Discorso diverso per l’Irlanda, assurta a esempio di politiche virtuose negli anni seguiti alla crisi finanziaria e ai piani di bailout europei e ora ben integrata nelle isituzioni comunitarie, dove tra l’altro detiene, con il ministro delle Finanze, Pascal Donohoe, la presidenza dell’Eurogruppo. Alleanze strategiche e capacità negoziali hanno consentito a Dublino di resistere per anni agli attacchi di quei Paesi – Francia in testa – che l’accusavano di concorrenza sleale per una corporate tax al 12,5% e, ancor di più, per agevolazioni o accordi mirati che hanno favorito l’elusione o consentito alle multinazionali di pagare imposte irrisorie. 

L’attrattività fiscale è stata un fattore chiave per portare a Dublino il quartier generale di colossi come Google, Apple e Facebook e le nuove regole mettono ora in pericolo, secondo le prime stime, due miliardi di euro all’anno di entrate da imposte societarie, anche per effetto della riallocazione del gettito nei Paesi che sono vero mercato delle multinazionali. Così ieri il ministro delle Finanze Donohoe, che già giovedì aveva espresso le riserve irlandesi, ha ribadito la contrarietà di Dublino: «In Irlanda questo – ha detto in un’intervista radiofonica – è un tasto molto sensibile e nel testo che mi è stato presentato non c’erano sufficiente chiarezza e un adeguato riconoscimento di una questione per noi chiave».

Il ministro ha espresso tuttavia ottimismo sul raggiungimento di un’intesa entro l’anno. Ed è probabile che Dublino, con qualche ulteriore concessione, sia pronta a dire sì; anche il mondo del business sembra già preparato alle nuove regole, forte di un appeal basato anche su altri fattori oltre a quello fiscale e su investimenti ormai consolidati nel Paese.

L’Estonia e gli utili detassati.

L’Estonia, da anni in cima alla classifica di competitività fiscale del think tank americano Tax Foundation, ha tra i suoi punti di forza una corporate tax relativamente bassa (oscilla tra il 14 e il 20% degli utili) applicata però solo in caso di dividendi. Non vengono cioè tassati gli utili reinvestiti.

Il Paese baltico si è opposto con decisione alle nuove regole. Il ministero delle Finanze ieri ha diffuso un comunicato in cui sottolinea che il Paese non è pronto «a sostenere completamente» le proposte per una minimum tax globale. Più esplicita (e dura) era stata nei giorni scorsi la ministra delle Finanze Keit Pentus-Rosimannus, che aveva definito la proposta «pericolosa per le imprese, la concorrenza internazionale e la creazione di posti di lavoro».

Verso il via libera del G20.

Nonostante gli ostacoli - tra i quali vanno menzionati anche la necessaria approvazione del Congresso Usa, con i repubblicani pronti a dare battaglia, e il nodo della digital tax, su cui Janet Yellen e la vicepresidente della Commissione Ue, Margrethe Vestager, avranno un colloquio il 6 luglio - all’indomani dell’intesa prevale l’ottimismo, anche considerando che l’hanno siglata Paesi importanti e in dubbio fino all’ultimo, come l’India e la Cina (con le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao).

In attesa dei dettagli tecnici, da mettere a punto ancora in sede Ocse a ottobre, sembra dunque spianata la strada al via libera dei ministri delle Finanze del G20, in programma a Venezia la prossima settimana, priorità della presidenza italiana. «Le notizie che arrivano dall’Ocse - ha confermato il ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco - sono un passo avanti verso l’intesa politica. Siamo fiduciosi sulla possibilità di trovare un accordo a livello G20 sulla struttura di nuove regole per la riallocazione dei profitti delle grandi multinazionali e per la tassazione minima effettiva, che cambierebbero radicalmente l’attuale architettura della fiscalità internazionale».

Intanto, mentre il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, promette di raddoppiare gli sforzi per convincere i Paesi riluttanti, la Commissione Ue mantiene un cauto ottimismo. «Siamo fiduciosi che, mentre si mettono a punto i dettagli, anche gli altri Stati membri possano firmare», ha dichiarato un portavoce.

IlSole24Ore

Sennò? - Marco Travaglio

 

Guai a farsi distrarre troppo dall’ultimo show di Grillo “Te lo do io il M5S” (l’ultima gag è il Comitato dei 7 al posto del Direttorio dei 5) e dal serial “La spallata” del generalissimo Figliuolo (passato dal Cts a Santa Rita da Cascia e da “Un milione di vaccini al giorno a luglio” a “Il piano resta a 500mila” che poi sono meno). Sennò non resta tempo per la sit-com “Casa Letta”, inteso come Enrico. Da quando il Pd entrò nel governo Draghi alleandosi con la Lega, Letta non fa che ripetere che Salvini deve scegliere: o fa quello che gli dice lui, oppure molla il governo. Salvini risponde: “Sennò?” e resta nel governo continuando a fare e a ottenere tutto quel che vuole, mentre il Pd non tocca palla come 5Stelle e Leu. E tutto va avanti come prima. Anzi, se qualcuno fa notare che gli intrusi in questo governo di centrodestra non sono i partiti di centrodestra, ma quelli di centrosinistra, si sente rispondere: zitto, sennò regali Draghi a Salvini (manco fosse un pacco postale). Ergo, l’unico modo per non regalare un premier di centrodestra al centrodestra è approvare le sue politiche di centrodestra senza fiatare, anzi ringraziando e sorridendo. Che è un po’ come dire che Chiellini, nella semifinale degli Europei, deve garantire almeno due autogol nella porta azzurra, sennò regala Morata alla Spagna. Intanto Salvini, per non regalare Orbán alla Meloni, firma con Orbán, Meloni e altri nazionalisti il manifesto antieuropeista perfettamente coerente col programma della Lega, oltreché con quello della Meloni. E Letta riattacca con la tiritera: “Salvini o sta con Draghi o sta con Orbán, stare con entrambi è come tifare per l’Inter e il Milan”.

È il classico sillogismo a cazzo, visto che è proprio Draghi a tifare Inter e Milan, governando con Letta e Salvini. Infatti il manifesto Salvini-Orbán fa infuriare Letta, ma non Draghi. E Salvini, per nulla preoccupato di regalare Draghi a Letta (mission impossible), risponde: “Se non gli sta bene Orbán, Letta esca dal governo”. Infatti anche Letta tifa Inter e Milan. Almeno finché non risponderà ai “sennò?” salviniani con la conclusione di ogni aut aut che si rispetti: “Sennò il Pd esce dal governo”. Ma è proprio questo che spaventa Letta: il fatto che poi, siccome Salvini non ha alcun motivo per non essere Salvini, il Pd dovrebbe uscire per davvero. E non ne ha alcuna intenzione (certi miracoli, tipo stare al governo avendo perso le elezioni, càpitano una volta nella vita, e per il Pd è già la sesta in dieci anni). Anche perché né Salvini né Draghi lo rincorrerebbero. Quindi Letta continuerà a chiedere a Salvini di uscire dal governo e a restare al governo con Salvini, riuscendo persino a farlo apparire più coerente di lui. Sennò rischia di regalare Salvini a Draghi.

ILFQ