sabato 17 luglio 2021

Ecco perché il Green pass è costituzionale e può limitare alcune libertà. - Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani

 

La Costituzione tutela la salute come interesse della collettività ed è quindi ammissibile limitare la libertà di chi non si vaccina, ma le cure vanno garantite a tutti.

I punti chiave


Alla sola ipotesi di introdurre anche in Italia il possesso del green pass per consentire l’accesso a stadi, ristoranti e altri luoghi pubblici si è risposto soprattutto con slogan. L’idea è stata liquidata come uno scherzo dal leader della Lega, definita addirittura «raggelante» da Giorgia Meloni, in insanabile contrasto con la libertà individuale «sacra e inviolabile». Dall’altra parte, non manca chi auspica una soluzione del genere come una sorta di giusta punizione per i reprobi che si sono sottratti al dovere etico di vaccinarsi e propone addirittura di far pagare le cure a chi si ammala «per colpa sua».

Tutto ciò distrae da una questione che è, invece, terribilmente seria e davvero merita di essere sottratta alla propaganda, specie ora che la maggioranza degli italiani ha ricevuto almeno la prima dose e quindi una prospettiva del genere diventa assai più concreta.

Quando la campagna vaccinale stava per partire ci eravamo chiesti se lo Stato avrebbe potuto costringere i cittadini alla profilassi. Anche allora, infatti, alcuni si opponevano per principio sventolando il vessillo della libertà, quasi mai però declinandone un significato intellegibile.

Cosa dice la Costituzione.

Nella nostra Costituzione, dicevamo, la salute non è tutelata solo come diritto fondamentale del singolo ma altresì come interesse della collettività. Ciò consente l’imposizione di un trattamento sanitario se diretto «non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri», come ha stabilito la Corte costituzionale nel 2018.
D’altro canto, la Costituzione stessa consente di introdurre limiti alla libertà di circolazione proprio per motivi di sanità. Intravediamo quindi lo spazio per istituire, per legge, non tanto una prescrizione, un trattamento sanitario obbligatorio, quanto qualcosa che somigli a un onere.

Per chi scatta l’obbligo del vaccino.

Si potrebbe subordinare alla vaccinazione l’esercizio di professioni che impongono il contatto con molte persone, a maggior ragione quando si tratta di persone fragili. Pensiamo a medici, insegnanti, forze dell'ordine.
Alla medesima condizione potrebbe essere sottoposta la partecipazione a eventi o contesti in cui il contagio rischia di diffondersi con rapidità, come concerti, stadi, discoteche e persino ristoranti o mezzi di trasporto pubblico.
Non vedremmo particolari difficoltà a estendere simili limitazioni alla frequentazione di scuole o luoghi di culto, qualora si dimostrasse che appunto si tratta di contesti ove il virus circola in modo più veloce.

E ciò non solo per evitare la diffusione di focolai, ma anche per consentire alle persone che non possono usufruire del vaccino per ragioni di salute – che sarebbero ovviamente esonerate dall'onere del “green pass” – di esercitare quei diritti che altrimenti sarebbero loro preclusi per elementari ragioni di prudenza.

Le condizioni per l’obbligo.

Certo, tutto ciò ad alcune condizioni: che la scienza garantisca, entro i confini in cui può farlo, la sicurezza dei vaccini e la loro indispensabilità per superare la pandemia; che sia diffusa una campagna di capillare informazione circa i molti benefici e i lievi rischi; che sia consentito a chiunque intenda vaccinarsi di farlo.

Questo scrivevamo mesi fa e questo sottoscriviamo oggi quando quelle condizioni che allora auspicavamo sembrano essersi tutte verificate. Sicché non vediamo difficoltà a che il Parlamento introduca limitazioni per chi avrebbe potuto vaccinarsi e ha scelto di non farlo. Ci pare infatti che una simile iniziativa corrisponda a un bilanciamento fra beni giuridici ben orientato dal punto di vista costituzionale. In particolare, di fronte a una pandemia che mette a serio rischio la vita, bene primario in assenza del quale gli altri beni nemmeno esisterebbero, questi ultimi ben possono essere compressi per tutelare il primo.

Vale il principio di ragionevolezza.

Come si opera questo bilanciamento? In base ad alcune regole note, declinate seguendo il principio di ragionevolezza. Possiamo ricordarne alcuni: i beni collettivi possono fare premio su quelli individuali; in base al principio di solidarietà, le persone più deboli debbono essere tutelate; in base a quello di responsabilità, chi si è posto in una posizione di rischio che avrebbe potuto evitare senza difficoltà, può essere, in una certa misura, meno tutelato di chi quella stessa posizione di rischio non ha potuto evitare; infine, situazioni emergenziali possono giustificare una maggiore compressione, per il tempo strettamente necessario, di alcuni diritti fondamentali.

Lo ribadiamo: la legge può limitare, senza comprimerla del tutto, la libertà di movimento e di riunione di chi, potendo vaccinarsi, non l’ha fatto per sua libera scelta, contro l’opinione della comunità scientifica. Ciò, al fine di debellare il virus e garantire l’esercizio pieno di tali libertà alle persone escluse dalla profilassi per motivi di salute.

In quest’ottica qualcuno addirittura ipotizza di escludere dalle cure chi abbia rinunciato alla prevenzione. Non condividiamo una simile soluzione, almeno oggi in cui non esiste una scarsità di risorse tali da imporre scelte drammatiche. Accettare questa impostazione significa porsi su una china pericolosa e in contrasto con l’idea della salute come diritto assoluto, di cui si gode indipendente dalle scelte di vita. All’estremo, infatti, seguendo questa “strada” gli ospedali potrebbero “respingere” chi ha avuto una condotta di vita poco sana, oppure a chi si è messo in pericolo o a chi ha attentato alla propria vita.
E noi preferiamo vivere in un Paese che si prende cura di fumatori obesi, appassionati di sport estremi e aspiranti suicidi.

IlSole24Ore

La Germania devastata dalle inondazioni, oltre 130 morti.

 

In totale i morti in Europa sono 157.


Si aggrava il bilancio delle vittime del maltempo che sta devastando in questi giorni Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. Il Paese più colpito è la Germania dove il numero delle persone morte a causa delle alluvioni è salito a 133.

In totale i morti in Europa sono 153. Lo riferiscono fonti ufficiali tedesche. La polizia di Coblenza ha fatto sapere che "secondo le ultime informazioni disponibili 90 persone hanno perso la vita" nella regione della Renania-Palatinato, una delle più colpite. A queste si aggiungono le 43 vittime nella Renania Settentrionale-Westfalia e le 24 persone morte in Belgio. 

"Nessuno può dubitare che questa catastrofe dipenda dal cambiamento climatico". Lo ha detto il ministro dell'Interno Horst Seehofer, parlando allo Spiegel. "Un'alluvione con così tante vittime e dispersi io non l'ho mai vissuta prima". Il ministro ha promesso aiuti per le aree colpite, e sollecitato maggiore impulso alle politiche ambientali.

"I nostri pensieri sono con le famiglie delle vittime delle devastanti alluvioni in Belgio, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi e con coloro che hanno perso la casa. L'Ue è pronta ad aiutare". Così la Commissione europea in un tweet, precisando che "i paesi interessati possono rivolgersi al meccanismo di protezione civile dell'Unione europea".

Il commissario per la gestione delle crisi Janez Lenarčič ha dichiarato che "l'Ue è pienamente solidale con il Belgio in questo momento difficile e sta fornendo un sostegno concreto. Esprimiamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari". L'Ue sta anche fornendo la mappatura satellitare di emergenza Copernicus con mappe di valutazione delle aree colpite.

Le vittime delle alluvioni che hanno colpito il Belgio salgono ad almeno 24. Lo hanno reso noto le autorità belghe, sottolineando la difficoltà di raggiungere un gran numero di persone a causa di blackout e interruzioni delle reti telefoniche. Dalla serata di ieri il tempo è migliorato in tutto il Belgio e il livello dei fiumi si sta abbassando. Sono circa 120 i comuni colpiti, principalmente nel sud e nell'est del Paese. Il primo ministro belga, Alexander De Croo, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si trovano ora nelle aree più colpite per incontrare residenti, soccorritori e funzionari locali.

ANSA

Il covid arriva a Tokyo 2020, 15 positivi ai Giochi. -

 

Tra soli sei giorni l'inizio delle Olimpiadi.


Il primo caso di coronavirus è stato registrato nel Villaggio Olimpico di Tokyo, quando mancano solo sei giorni all'inizio dei Giochi: lo hanno reso noto oggi gli organizzatori. "C'e' stata una persona nel Villaggio.

E' stato il primo caso nel Villaggio che è stato segnalato durante i test", ha detto Masa Takaya, il portavoce del comitato organizzativo delle Olimpiadi. Le autorità non hanno reso nota l'identità della persona, che è stata portata in un hotel e messa in isolamento, ha spiegato il portavoce. Da parte sua la presidente di Tokyo 2020, Seiko Hashimoto, ha detto che "stiamo facendo tutto il possibile per prevenire qualsiasi focolaio di Covid. Se dovessimo ritrovarci con un focolaio, ci assicureremo di avere un piano in atto per rispondere".

In tutto sono 15 i contagi da Covid riscontrati a Tokyo tra persone legate in vari modi ai Giochi, tra cui il primo caso di Covid segnalato all'interno del villaggio olimpico che riguarda, precisa l'organizzazione, una persona proveniente dall'estero e non un atleta, di cui non è stata rivelata nè l'identità nè lo stato di salute. Le altre persone infettate sono 7 lavoratori a contratto, sei dipendenti del comitato organizzatore locale e due rappresentanti dei media. Dei positivi, 8 sono arrivati a Tokyo dall'estero da meno di due settimane, 7 risiedono in Giappone. Non è chiaro se queste persone abbiano avuto accesso al Villaggio olimpico.

 A meno di una settimana dall'inizio delle Olimpiadi, Tokyo registra un nuovo massimo giornaliero dei casi di Covid in quasi sei mesi. Il governo metropolitano della capitale ha segnalato 1.410 positività: si tratta del livello più alto dal 21 gennaio, con una tendenza in continua ascesa che ha superato quota 1.000 per il quarto giorno consecutivo.  L'amministratore delegato di Tokyo 2020, Toshihiro Muto, ha detto che da un test condotto nel Villaggio olimpico è emersa una positività, ma il caso è solo uno dei 15 riscontrati nella giornata di sabato tra i lavoratori impegnati nell'organizzazione della manifestazione sportiva e vario personale legato ai Giochi. Si tratta del numero di contagi più alto registrato nell'entourage olimpico dal primo luglio, quando il comitato ha iniziato a compilare le statistiche, e non include gli atleti impegnati nei camp pre-estivi. Dal primo luglio ci sono stati un totale di 45 infezioni di coronavirus segnalati dagli organizzatori. Aperto dallo scorso martedì, il villaggio olimpico è composto da 21 palazzi capaci di ospitare fino a 18 mila letti. Il presidente del Comitato olimpico internazionale (CIO), Thomas Bach, in Giappone dall'8 luglio, ha garantito al premier giapponese, Yoshihide Suga, che l'85% degli atleti è immunizzato. La cerimonia di apertura delle Olimpiadi è in programma il 23 luglio, allo Stadio nazionale di Tokyo. (

ANSA

venerdì 16 luglio 2021

Perché non ci sono foto di politici mentre fanno il vaccino? - Peter Gomez

 

La politica si divide sul Green Pass. C’è chi è a favore, chi contro e chi lo vuole all’italiana: non per bar e ristoranti, sì per tutto il resto. In attesa che il governo faccia sentire la sua voce, la campagna di vaccinazione registra una brusca frenata. All’appello mancano ancora tantissimi over 60. Il 18 giugno i non vaccinati anziani erano 2 milioni e 833 mila. Tre settimane dopo, il 9 luglio, solo 300 mila in meno.

La chiamata alla siringa del generale Francesco Figliuolo, condita da roboanti frasi del tipo “li cercheremo casa per casa”, è rimasta sulla carta tanto che, se si andrà avanti di questo passo, gli over 60 saranno tutti immunizzati solo a dicembre. L’improvvido ottimismo che il 23 aprile aveva spinto il militare ad assicurare ai sindaci la conclusione della campagna vaccinale entro l’estate è insomma solo un ricordo. Al di là delle discussioni sulle responsabilità di Figliuolo, di Palazzo Chigi, delle Regioni e dell’Europa, resta il fatto che è ben difficile convincere i cittadini a vaccinarsi se chi li rappresenta al governo e in Parlamento marca visita. Tanti politici, è vero, hanno dato il buon esempio. I social sono pieni zeppi di foto di deputati, senatori, presidenti di Regione che offrono il braccio al siero. Curiosamente, però, mancano le immagini di chi di social vive.

Matteo Salvini che documenta su Instagram e Facebook i propri pranzi, le cene e persino il cappuccino, il caffè e l’ammazacaffè, sul punto appare renitente. Il 2 luglio aveva spiegato di aver dovuto far saltare l’appuntamento a causa di un processo e aveva garantito che arrivato il suo momento avrebbe postato “una foto con dedica” (al presidente campano Vincenzo De Luca che gliene aveva chiesto conto, ndr).

Siamo arrivati al 16, in Lombardia vista la carenza di volontari, gli appuntamenti te li fissano ormai nel giro di due giorni, ma tutto ancora tace. E silenziosa è pure Giorgia Meloni che, dopo aver accusato il governo Conte bis e il vecchio commissario Arcuri di imperdonabili ritardi nella pianificazione delle vaccinazioni, il 10 giugno assicurava che presto si sarebbe immunizzata: “Mi sono prenotata”. Sono passati 35 giorni. Nel Lazio vaccinano pure gli under 16, ma lei sui social, per la gioia dei no-vax, ha postato di tutto tranne che la sua foto con la siringa al braccio.
Conte, invece, s’è fatto la prima dose il 12 luglio e farà il richiamo a fine mese. Decisamente pro-vax è anche Matteo Renzi, che da premier impose il “pacchetto” obbligatorio della Lorenzin e lo scorso anno, quando ancora quelli anti-Covid non c’erano, annunciò una petizione perché diventassero obbligatori. Oggi i vaccini ci sono. E in Rete ci sono pure le immagini di Maria Elena Boschi che più giovane di lui, dà il buon esempio con tanto di didascalia: “A tutela della mia salute e di quella della comunità”. Mancano invece quelle di Matteo. Due giorni fa, quando gli hanno chiesto “lei è controcorrente (il titolo del suo nuovo libro, ndr) anche perché è uno dei pochi parlamentari a non essersi ancora vaccinato?”, Renzi ha risposto così: “Nel mese di luglio è in corso il procedimento. Conto di finire entro agosto”. “Quindi è già prenotato?”, ha tentato di insistere una giornalista. Niente da fare. L’ex presidente del Consiglio ha proseguito tutto di un fiato: “Rispettando le regole e non saltando la fila” per poi dirsi d’accordo con le decisioni di Macron. In molti malpensanti resta il dubbio che leader di Italia Viva si sia già vaccinato in marzo al Gran premio del Bahrein, dove i vaccini li facevano gratis, mentre in Italia quasi non c’erano. Lui, a suo tempo, ha negato. E noi gli crediamo. Perché Renzi, si sa, è un uomo di parola.

ILFQ

Renzi è peggio di Craxi: per lui la politica è un affare privato. - Pietro Corrias

 

Nel mondo capovolto di Matteo Renzi, foderato di inchieste, ville col mutuo, querele, prestiti bancari, telefonate imbarazzanti, tradimenti doppi e tripli, amici carcerati, conferenze a tassametro, i soldi sono solo soldi, la politica non c’entra. Ci mancherebbe. E a proposito dei 700 mila euro ricevuti da Lucio Presta per girare un documentario davvero inedito sulla Firenze Rinascimentale, purtroppo valutato pochi spiccioli dai ragionieri del libero mercato, ci raccomanda di non farci idee sbagliate sull’intreccio giudiziario che sventatamente lo riguarda: il malloppo è suo, lo ha incassato “in modo lecito, regolare, trasparente”. E più precisamente: “Quei soldi appartengono alla mia vita privata e li uso per la mia vita privata”.

Accadeva – in un tempo ormai remoto – proprio il contrario. Qualunque Cirino beccato con la grana nel materasso o il quadro d’autore appeso nel salotto, s’affrettava a scaricarsi la coscienza sulle spalle (e nelle tasche) del partito. Il malcapitato chiedeva clemenza per il disguido d’appropriazione indebita, ammetteva con la lacrima del rimorso e l’inchino delle buone intenzioni, tipo l’indimenticabile Lorenzo Cesa, “sono pronto a vuotare il sacco”, tutti sempre giurando di averlo fatto non “per arricchimento personale”, ma per l’ideale. Intitolato qualche volta a don Sturzo, talaltra a Pietro Nenni, o a Umberto Terracini. E che solo nelle urgenze della vita reale, ahinoi, quell’ideale si era voltato in una bella villa sulla costiera, una sede sfarzosa di partito, qualche clientela, qualche viaggio, qualche discoteca, e poi vabbè, le pupe, i vestiti, i ristoranti, oltre alla ricorrente seccatura delle campagne elettorali utili a rinnovare l’ideale e il malloppo. Una commedia che ha smesso da tempo di andare in scena, salvo che nella cella frigorifera dove si ostina ad abitare Stefania Craxi, immune agli anni che sono passati dalla parabola di suo padre, che si rubò, al netto dei miliardi, l’intera storia del Partito socialista.

Il pronipote Renzi è di tutt’altra pasta. Rivendica, non dissimula. Nella sua celebre auto-intervista a Piazzapulita, ha detto: “Se lei mi domanda se sono stato in Arabia Saudita a fare conferenze, sì. Sono stato negli Emirati Arabi? Sì. In Cina? Sì. Oggi ero in Olanda. L’altra settimana a Barcellona. Sì, vengo retribuito per fare delle conferenze perché c’è gente che pensa che sia interessante ciò che ho da dire”. Anche su Santa Croce, sul David di Donatello e su una sua recente scoperta, gli Uffizi. Nulla lo turba. La politica per lui è un lavorare in proprio. Che sia per un documentario o per il Quirinale prossimo venturo. Con il Pd e contro il Pd. Con Berlusconi quando serve, con Denis Verdini sempre. Qualche volta contro Matteo Salvini, qualche altra volta in coda. Arbitro in proprio del suo dire e disdire. Imbrogliare le carte in tavola. Rivoltare la frittata. Friggere la parola data: “Se perdo il referendum non mi vedrete più”. Come? Gli avevate creduto?

A questo giro dell’inchiesta – mentre il fiorentino si traveste da vittima dei guelfi neri, i magistrati – ci cascano i più facinorosi della destra di carta, quella che strilla legge, ordine e mazzate, ma solo per i poveracci. Lieti di condividere, nel manicomio delle loro ossessioni extralegali, l’ora d’aria con il nuovo martire della “giustizia a orologeria”. Renzi Matteo, l’ennesimo prigioniero della “vendetta dei pm”, anzi del “cancro della magistratura incosciente” diventata “una emergenza nazionale che necessita un intervento non più rinviabile”. Preparate i moschetti. Avanti con i referendum. Che Renzi forse firmerà o forse no. Intanto lancia il libro. Incassa il fatturato. Minaccia: “Non temo niente e nessuno” come ringhiavano agli sceriffi i cercatori d’oro nel Klondike.

ILFQ

Marta, jolly di Formigoni la domenica al Santuario. - Gianni Barbacetto

 

Milano

Per trovare un articolo davvero interessante su Marta Cartabia, ministro della Giustizia, si deve andare a cercare con pazienza su TuttoBiciWeb, il “sito di riferimento del ciclismo italiano”. Qui, Alessandro Brambilla racconta con penna vivace una domenica del 1992. Era il 22 marzo di quell’anno quando la futura giurista partecipa, con un ruolo importante, alla “giornata speciale per il Santuario di Santa Maria alla Fontana e per il quartiere Isola di Milano”. Scrive Brambilla: “I piazzali e giardini del Santuario ospitano una speciale cronostaffetta benefica a coppie su mountain bike. Ogni coppia è composta da un corridore professionista e da un calciatore o disc-jockey o vip. A organizzare sono i giovani di Comunione e liberazione fortemente aiutati dall’onorevole Roberto Formigoni e dal suo segretario particolare Sergio Maggioni. Il duo Formigoni-Maggioni incarica il sottoscritto”, spiega Brambilla, “a condurre l’evento che prevede anche esibizioni musicali, interventi di autorità religiose e politiche. È una manifestazione organizzata in grande stile” – e qui il tono slitta un po’ verso l’agenzia Stefani – “nella domenica post Milano-Sanremo e con il Campionato di Serie A in pausa per impegni della Nazionale. Per l’occasione è presente la troupe Rai Tv con il grande Adriano De Zan pronto a realizzare il servizio; molti sono i ciclisti professionisti invitati a gareggiare, da Stefano Allocchio e da Vitaliano Zini, proprietario del vicino ristorante Il Tronco, e dallo staff Amore & Vita di patron Ivano Fanini”. Un non esperto comincia a perdersi tra i nomi dei vip, da Claudio Chiappucci a Beppe Bergomi, dal dj Ringo al velocista Alessio Di Basco.

“Presentare corridori, calciatori e disc-jockey per me è un invito a nozze, tuttavia data la tipologia dell’evento benefico, il repertorio seppur senza debordare va arricchito con note sociali, e naturalmente ci sono dirigenti da presentare che nulla hanno a che vedere con bici e pallone. Per garantirmi e agevolarmi il lavoro, gli organizzatori mi affidano a Marta, una bella ragazza dai capelli castani, gentile e raffinata”. Chi è? “Marta, mi precisano, è laureata in giurisprudenza”. È “una delle giovani responsabili dell’organizzazione e naturalmente rimane sul palco con l’onorevole Formigoni e altri dirigenti. Lei si dimostra immediatamente efficace. Oltre a rappresentare molto bene il comitato promotore nelle pubbliche relazioni, la ragazza è un jolly capace di occuparsi un po’ di tutto: si presta anche a fare la spola tra la mia postazione e i cronometristi, portandomi classifiche aggiornate e varie comunicazioni, compresi nominativi di starter, di chi deve consegnare i premi ai concorrenti e altre note organizzative”.

Un jolly. La gara benefica del Santuario “registra un notevole successo”. E “a fine evento Marta è molto soddisfatta, quanto me. Ci salutiamo con affetto, la ringrazio per la sua preziosa collaborazione e lei nel salutarmi mi porge il suo biglietto: Dottoressa Marta Cartabia”. Jolly di Formigoni e futuro ministro di Mario Draghi.

ILFQ

La Guardagingilli. - Marco Travaglio


L’equivoco del bravo banchiere “competente” e “migliore” per definizione in tutti i rami dello scibile umano sta crollando dinanzi alle scempiaggini che Draghi sforna a piene mani appena esce dal perimetro bancario. “Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno”. “Sì, è un condono fiscale, ma molto limitato e permette una lotta all’evasione più efficiente”. “Il cashback favorisce i più ricchi”. “Con quella Coppa gli Azzurri possono fare ciò che vogliono” (cioè violare il decreto Draghi contro gli assembramenti senza mascherine). “La responsabilità collettiva (nei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ndr) è di un sistema che va riformato. La riforma Cartabia è un primo passo che appoggio con convinzione”. C’è da sperare che i 52 agenti penitenziari arrestati per aver massacrato di botte i detenuti non leggano l’ultima, altrimenti hanno un alibi di ferro certificato dal premier: non è stata colpa loro, ma di un fantomatico “sistema”; e se, per evitare pestaggi futuri, occorre una riforma, vuol dire che i pestaggi passati e presenti sono previsti dalla legge vigente. In realtà sono da sempre vietati e attengono alla “responsabilità personale” di chi li commette. E la riforma Cartabia del processo (emendamenti peggiorativi alla Bonafede) non c’entra nulla con i pestaggi. Se cercano pretesti per giustificare il nuovo Salvaladri, se ne inventino un altro: questo non attacca.

A meno che non si riferiscano all’altra schiforma minacciata dalla ministra tramite Repubblica: la modifica della legge Gozzini, cioè dell’ordinamento penitenziario del 1975 che ha reso la certezza della pena una burletta e la giustizia uno spaventapasseri: una roba che fa paura da lontano e fa ridere da vicino. Ma questo alla Cartabia non basta ancora: vuole completare il colabrodo con la definitiva decarcerazione. E in effetti, svuotando le carceri, il problema dei pestaggi sarebbe risolto: eliminando non i picchiatori, ma i detenuti da picchiare. L’ideona si basa su un refrain ripetuto a ogni piè sospinto dall’ex cheerleader di Formigoni: “Non può essere il carcere l’unica pena per chi commette un reato”. Che, detto in Italia, è meglio di una barzelletta. Il suo amico Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione e altri delitti, è uscito dopo 5 mesi. Il suo alleato B., condannato a 4 anni per una mega-frode fiscale, se l’è cavata con 10 mesi di visite trisettimanali a un ospizio. Verdini, amico dei suoi alleati, condannato a 6 anni e 6 mesi per bancarotta fraudolenta, è uscito dopo meno di 3 mesi con la scusa del Covid (gli altri 1200 ospiti di Rebibbia invece no) e i giudici hanno appena confermato che può restarsene a casa perché “ha accettato la pena”.

Come se chi accetta la pena meritasse un premio. “La condanno all’ergastolo, che fa: accetta?”. “Ma sì”. “Perfetto, fuori”. Oggi, su circa 90 mila detenuti, 30 mila (un terzo) sono fuori in pena alternativa perché condannati a meno di 4 anni (anche per reati gravissimi: il tetto sale a 7 anni con gli sconti di un terzo per i riti alternativi). Fanno eccezione i soggetti mal difesi e gli stranieri senza fissa dimora: cioè i poveracci. E in una simile farsa che ci viene a raccontare la Cartabia? Che “il carcere non può essere l’unica risposta al reato”. Come se oggi ogni condannato finisse in carcere, mentre tutti sanno che non ci finisce nemmeno un decimo. Ora tenetevi forte e sentite cos’ha in serbo la Guardagingilli. Per le condanne fino a 4 anni (cioè a 7 col patteggiamento o col rito abbreviato, sempreché qualcuno ancora li chieda, con la prospettiva dell’improcedibilità in appello), il carcere resta finto: domiciliari o servizi sociali o semilibertà. Però oggi almeno i condannati sopra i 4 anni vanno in galera, salvo chiamarsi Formigoni e Verdini. Niente paura, Nostra Signora dell’Impunità ha pensato anche a loro con la “messa alla prova”, che sospende il processo e poi lo annulla se l’imputato chiede scusa, ripara il danno e chiede scusa alla vittima: non più per i reati puniti fino a 4 anni, ma addirittura fino a 6 (inclusi quelli sessuali, fiscali, tangentizi, edilizi, ambientali, gli omicidi colposi e naturalmente le violenze delle forze dell’ordine tipo S. M. Capua Vetere). Non solo: per questi reati si potranno pure evitare la confisca dei beni e il licenziamento, finora esclusi dal patteggiamento.

Una pacchia senza fine per i criminali e una beffa alle vittime, alla collettività e a quei fessi di cittadini che si ostinano a rispettare le leggi. Molte di queste facezie erano già nella “riforma” Orlando, quintessenza dell’impunitarismo “de sinistra” che contribuì alla débâcle elettorale del Pd nel 2018 e alla vittoria dei due partiti che si battevano per la certezza della pena: 5Stelle e Lega (poi convertita all’impunitarismo “de destra”). Infatti il governo gialloverde, con Bonafede ministro, smantellò la boiata. Ora, in barba alla volontà popolare, si ricomincia dando la mazzata finale a quel poco che resta dello Stato di diritto. Il tutto, barzelletta nella barzelletta, mentre si combatte sul ddl Zan per punire parole e violenze discriminatorie (rispettivamente) fino a 18 mesi e a 4 anni: altri processi nati morti o destinati a pene finte. L’ennesima macchina per tritare l’acqua. Alle prossime elezioni, chi avrà votato queste follie spiegherà agli elettori che è giusto mandare impunito uno stupratore perché è poco carino che il suo processo d’appello duri 2 anni e 1 giorno. Così gli elettori sapranno cosa fare.

ILFQ