L’ho scritto l’altro giorno e lo ripeto: seguire gli ultimi giorni della crisi di governo dalla festa dei 10 anni del Fatto quotidiano anziché da Roma è stato un privilegio. Così come seguire i primi dalle non-vacanze. La redazione era tutta qui, a Marina di Pietrasanta, trapiantata alla Versiliana, immersa nella folla della nostra comunità, fra gente vera che ci ha aiutati come sempre a capire dove vanno gli umori del Paese.
A cogliere lo spirito del tempo, che cambia rapidamente e sta ancora cambiando. È un’esperienza elettrizzante che suggeriamo a chi fa politica: mai perdere il contatto con le persone. Salvini, che pure ne è sempre apparentemente circondato, ha commesso proprio lui questo errore: a un certo punto, ubriaco di voti inutili (quelli delle Europee), di sondaggi, di like e di yesman, ha iniziato ad ascoltare soltanto se stesso, e si è dannato. Ha aperto una crisi in pieno agosto che nessuno ha capito, nemmeno tra i suoi, anche perchè lui non l’ha mai spiegata. Ed è finito come la rana della fiaba antica, quella che si gonfia, si gonfia, si gonfia fino a scoppiare da sola.
Renzi, di cui siamo tutti fuorchè dei fan, è stato il più lesto a drizzare le antenne e a tradurre il nuovo senso comune in una proposta che, grazie al ricatto sui gruppi parlamentari di sua stretta fiducia (anzi, nomina), ha spostato il Pd dall’opzione elezioni all’opzione governo giallo-rosa. E Grillo, che da 12 anni tentava di aprire un dialogo anche sgangherato con il centrosinistra e ne veniva regolarmente respinto, ha riscoperto la voglia di fare politica, accompagnando per mano la sua Armata Brancaleone, sbalestrata da mesi di buone leggi e cattive performance elettorali, verso quell’appuntamento che era scritto nel destino.
Di Maio, il tanto bistrattato Di Maio, che pure ha commesso molti errori, soprattutto negli ultimi giorni, ha comunque fatto la scelta giusta, anche se comportava il sacrificio di se stesso: dopo il discorso di Conte in Parlamento, ha “sentito” che un governo così strano e inatteso come quello con i concorrenti di sempre poteva nascere soltanto sotto la guida di “Giuseppe”. E l’ha imposto.
A quel punto anche Zingaretti ha colto nell’aria che il polo opposto a quello salviniano si riconosceva attorno a Conte. E ha ceduto. Il resto sono scosse di assestamento, resistenze dettate dalla paura di cambiare, risentimenti personali frutto di troppi anni di insulti, veleni e tossine. Così la crisi più pazza del mondo si sta chiudendo con un esito degno di lei: quello che Antonio Padellaro ha ribattezzato il Governo dei Malavoglia.
Un governo che tutti sembrano subire loro malgrado, senza entusiasmi né sorrisi. L’ha notato Grillo, l’altra sera, in quel messaggio torrenziale come i suoi spettacoli, dove si appella non solo ai suoi che dovranno votare su Rousseau, ma anche alla base dei giovani del Pd, e dice a tutti: “dobbiamo cambiare tutto”, “vi voglio euforici” e “sono esausto”.
E oggi, nel suo intervento sul Fatto, chiede più ironia (e autoironia da “Elevato”), più curiosità, e persino più risate.
Lo chiede a Di Maio, che qualcuno vorrebbe punire o ridimensionare non si sa bene perchè, e lo chiede anche al centrosinistra.
Noi, qui alla Festa del Fatto, ne abbiamo incontrati a migliaia, di volti curiosi e sorridenti. Anche quando parlavano ospiti più distanti da loro, e da noi, come Carlo Calenda ed Elsa Fornero, che non tentavano di arruffianarsi l’uditorio e facevano emergere le contraddizioni del governo che sta nascendo dibattendo rispettivamente con Pierluigi Bersani e col presidente dell’Inps Pasquale Tridico.
Hanno empatizzato con l’amarezza di Nino Di Matteo per gli scandali della magistratura. Con la sete di verità e giustizia di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo.
E ieri con la stanchezza e l’ottimismo di Giuseppe Conte, collegato dal suo ufficio a Palazzo Chigi, al cui posto nessuno vorrebbe essere nella ricerca della difficilissima quadratura del cerchio.
Hanno ascoltato lo scrittore Maurizio De Giovanni che raccontava del suo Sud in giallo. E poi la magnifica lezione di Piero Angela e dei suoi meravigliosi 90 anni sui doveri dei governanti e sul bisogno di scienza e tecnologia nella cultura e nella politica.
Vista da qui, l’Italia sembra avere smaltito la sbornia salvinista. Ma è solo un’illusione.
Guai se i giallo-rosa si illudessero di avere convinto tutti, di rappresentare l’Italia dei buoni e dei giusti. E dimenticassero che c’è un’altra Italia, di dimensioni perlomeno equivalenti, maggioritaria soprattutto nel Nord e nel Centro dell’Italia, che vive il nuovo governo come una violenza, una furbata, un espediente, un’usurpazione, uno scippo del proprio voto.
E quell’Italia non va ignorata, nè derisa, né demonizzata: va convinta, con ministri seri e programmi molto precisi, per evitare che l’ambiguità e la fretta preparino la strada alle solite risse. La sfida dello strano governo giallo-rosa non finisce il giorno del giuramento: comincia lì.
A cogliere lo spirito del tempo, che cambia rapidamente e sta ancora cambiando. È un’esperienza elettrizzante che suggeriamo a chi fa politica: mai perdere il contatto con le persone. Salvini, che pure ne è sempre apparentemente circondato, ha commesso proprio lui questo errore: a un certo punto, ubriaco di voti inutili (quelli delle Europee), di sondaggi, di like e di yesman, ha iniziato ad ascoltare soltanto se stesso, e si è dannato. Ha aperto una crisi in pieno agosto che nessuno ha capito, nemmeno tra i suoi, anche perchè lui non l’ha mai spiegata. Ed è finito come la rana della fiaba antica, quella che si gonfia, si gonfia, si gonfia fino a scoppiare da sola.
Renzi, di cui siamo tutti fuorchè dei fan, è stato il più lesto a drizzare le antenne e a tradurre il nuovo senso comune in una proposta che, grazie al ricatto sui gruppi parlamentari di sua stretta fiducia (anzi, nomina), ha spostato il Pd dall’opzione elezioni all’opzione governo giallo-rosa. E Grillo, che da 12 anni tentava di aprire un dialogo anche sgangherato con il centrosinistra e ne veniva regolarmente respinto, ha riscoperto la voglia di fare politica, accompagnando per mano la sua Armata Brancaleone, sbalestrata da mesi di buone leggi e cattive performance elettorali, verso quell’appuntamento che era scritto nel destino.
Di Maio, il tanto bistrattato Di Maio, che pure ha commesso molti errori, soprattutto negli ultimi giorni, ha comunque fatto la scelta giusta, anche se comportava il sacrificio di se stesso: dopo il discorso di Conte in Parlamento, ha “sentito” che un governo così strano e inatteso come quello con i concorrenti di sempre poteva nascere soltanto sotto la guida di “Giuseppe”. E l’ha imposto.
A quel punto anche Zingaretti ha colto nell’aria che il polo opposto a quello salviniano si riconosceva attorno a Conte. E ha ceduto. Il resto sono scosse di assestamento, resistenze dettate dalla paura di cambiare, risentimenti personali frutto di troppi anni di insulti, veleni e tossine. Così la crisi più pazza del mondo si sta chiudendo con un esito degno di lei: quello che Antonio Padellaro ha ribattezzato il Governo dei Malavoglia.
Un governo che tutti sembrano subire loro malgrado, senza entusiasmi né sorrisi. L’ha notato Grillo, l’altra sera, in quel messaggio torrenziale come i suoi spettacoli, dove si appella non solo ai suoi che dovranno votare su Rousseau, ma anche alla base dei giovani del Pd, e dice a tutti: “dobbiamo cambiare tutto”, “vi voglio euforici” e “sono esausto”.
E oggi, nel suo intervento sul Fatto, chiede più ironia (e autoironia da “Elevato”), più curiosità, e persino più risate.
Lo chiede a Di Maio, che qualcuno vorrebbe punire o ridimensionare non si sa bene perchè, e lo chiede anche al centrosinistra.
Noi, qui alla Festa del Fatto, ne abbiamo incontrati a migliaia, di volti curiosi e sorridenti. Anche quando parlavano ospiti più distanti da loro, e da noi, come Carlo Calenda ed Elsa Fornero, che non tentavano di arruffianarsi l’uditorio e facevano emergere le contraddizioni del governo che sta nascendo dibattendo rispettivamente con Pierluigi Bersani e col presidente dell’Inps Pasquale Tridico.
Hanno empatizzato con l’amarezza di Nino Di Matteo per gli scandali della magistratura. Con la sete di verità e giustizia di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo.
E ieri con la stanchezza e l’ottimismo di Giuseppe Conte, collegato dal suo ufficio a Palazzo Chigi, al cui posto nessuno vorrebbe essere nella ricerca della difficilissima quadratura del cerchio.
Hanno ascoltato lo scrittore Maurizio De Giovanni che raccontava del suo Sud in giallo. E poi la magnifica lezione di Piero Angela e dei suoi meravigliosi 90 anni sui doveri dei governanti e sul bisogno di scienza e tecnologia nella cultura e nella politica.
Vista da qui, l’Italia sembra avere smaltito la sbornia salvinista. Ma è solo un’illusione.
Guai se i giallo-rosa si illudessero di avere convinto tutti, di rappresentare l’Italia dei buoni e dei giusti. E dimenticassero che c’è un’altra Italia, di dimensioni perlomeno equivalenti, maggioritaria soprattutto nel Nord e nel Centro dell’Italia, che vive il nuovo governo come una violenza, una furbata, un espediente, un’usurpazione, uno scippo del proprio voto.
E quell’Italia non va ignorata, nè derisa, né demonizzata: va convinta, con ministri seri e programmi molto precisi, per evitare che l’ambiguità e la fretta preparino la strada alle solite risse. La sfida dello strano governo giallo-rosa non finisce il giorno del giuramento: comincia lì.