L'INTERVISTA - Da lunedì 7 febbraio su Rai3 riparte il programma d'inchiesta condotto da Riccardo Iacona che dopo 13 anni torna a varcare i portoni delle università e li trova infestati dalla piaga dei concorsi pilotati. "La pandemia per un verso e le sfide del Pnrr per l’altro ci dicono che la partita si gioca sulle competenze date dall’alta formazione. Richiedono ricerca, capacità, etica. Ma la Scienza in Italia sembra contare solo a parole". Poi la Rai, la libertà di informazione nel servizio pubblico. Ecco cosa vedremo nella nuova stagione.
Concorsi truccati, la campanella suona per tutti. Un’ora e mezza in tv, in prima serata. Non era mai successo. Lunedì prossimo parte la13esima edizione di “Presa Diretta” su Rai3 e lo fa aprendo la stagione con una puntata che indaga a fondo il male endemico dell’università italiana: la piaga dei concorsi accademici truccati e delle baronie. Riccardo Iacona ha deciso di trattare in prima persona il nodo del sistema di assegnazione delle cattedre con un reportage ampio, che dalla Sicilia passa per Firenze e arriva a Tor Vergata, sulla scia di tre clamorose inchieste della magistratura. Un viaggio nel “cuore malato” del sistema di selezione dei docenti, con una valigia di documenti d’indagine, testimonianze e intercettazioni e una domanda sul taccuino che interroga tutto il Paese: l’Italia deve rassegnarsi al fatto che i “migliori” siano selezionati così, con sistematica devianza da merito e competenza, e che il sistema universitario smetta di essere la fabbrica della conoscenza e delle competenze? Spoiler: la risposta, come spesso accade, si trova purtroppo, ancora e sempre fuori dall’Italia. Iacona, classe 1956, da 35 in Viale Mazzini (con parentesi da editto bulgaro), ha voluto condurre personalmente l’inchiesta che apre la nuova stagione, tornando sul “luogo del delitto” e mettendo il coltello nella piaga.
Perché hai deciso di ripartire da qui?
Da “ragazzino”, ormai si può dire, avevo fatto “Viva la ricerca”. Fu trasmesso nel 2009 in prima serata e portò alla ribalta nazionale il tema delle scarse risorse che stavano portando all’asfissia un settore così strategico per l’innovazione ed elevazione del Paese nella competizione globale. A distanza di 13 anni ho intrapreso questo nuovo viaggio tra i “concorsi pilotati”, altro grande male dell’alta formazione, certificato negli ultimi cinque-sei anni da una serie impressionante di inchieste della magistratura. L’ambizione è andare oltre la cronaca, per indagare il nocciolo di questo fenomeno.
Che effetto ti han fatto?
Molta impressione, davvero. Non ti aspetteresti mai che la Digos debba entrare in una alta accademia come l’università di Catania e di scoprire le cose che racconteremo in prima serata lunedì sera. Mi ha molto colpito constatare che ogni volta che le Procure mettono l’occhio o le microspie scoprono che le procedure di reclutamento sono illegali, che le persone entrano o vanno avanti non tanto per il merito ma per l’appartenenza. I nostri giovani non possono far altro che subire o replicare a loro volta questi meccanismi, in alternativa lasciare l’Italia. E magari sono proprio i migliori.
Dei baroni però si parla da anni, perché infilare ora il dito nella piaga?
Perché la pandemia per un verso e le sfide del Pnrr per l’altro ci dicono che la partita si gioca sulle competenze date dall’alta formazione che richiedono ricerca, capacità, etica. E’ nelle università che si forma la classe dirigente che può fare scelte di salute pubblica, mettere mano a buoni progetti, spendere bene le risorse. Ma se nei luoghi a questo deputati i docenti sono scelti con meccanismi di mera cooptazione la sfida si perde in partenza. Sentirete un procuratore che definisce quel sistema “mafioso”. Se ti metti contro, se fai ricorso, ti isolano col bollo dell’infamia. Ma parte del problema è che queste cose quasi non fanno più scandalo.
La politica che responsabilità ha avuto?
Molte, ha chiuso gli occhi per anni sulla riduzione dei fondi per la ricerca. Poi ha trattato l’università come marginale, favorendone così l’autoreferenzialità e lasciando che tutto il sistema di reclutamento si adagiasse su una legalità che è solo apparente: ad ogni concorso devi costruire una commissione nazionale, col costo che ha, che lavora per confermare una scelta già fatta a monte, senza una reale comparazione. Del resto, basta parlare coi protagonisti che hanno vissuto soprusi terribili per rendersi conto della violenza di questo sistema di cooptazione tribale vestito da concorso. Ma la politica spesso non ascolta.
E che cosa può fare?
Abbiamo intervistato la ministra, che è ben consapevole che questo meccanismo di selezione fallisce proprio nello scopo per cui è stato costruito, quello di premiare i migliori anziché pupilli e raccomandati. Lei mette in campo alcune soluzioni tecniche che sono anche dure e quasi rivoluzionarie, ad esempio cancellare l’articolo 24 che consente di bandire concorsi solo per candidati interni.
Ma se ne parla poco. Ci sono resistenze?
Nel Milleproroghe diversi parlamentari vogliono perpetuare quel sistema, perché c’è una “lobby dei professori” anche in Parlamento. Il concorso interno si chiama così ma nella pratica conferisce potere di nomina che hai nelle mani: se glielo togli non puoi più accomodare le persone che hai deciso di portare avanti. Altra cosa è l’abolizione del concorso per l’abilitazione nazionale della Gelmini, altra proposta della ministra che toglierebbe agli ordinari nazionali delle singole discipline il potere di decidere chi deve fare carriera e chi no.
E allora chi deve mettere mano al problema dei concorsi?
L’università da sola non lo può risolvere, perché è complice. E’ una partita troppo importante per lasciarla in mano solo a chi ci lavora. Andrebbe messa su un “”tavolo in cui c’è la magistratura, la politica, la società civile per uscire fuori dal ghetto dell’agenda politica dove sta l’università e tirarla su. La nostra ambizione è di dare un contributo di conoscenza che favorisca questa consapevolezza nel Paese, non per nulla lo approfondiamo per 90 minuti in prima serata, senza accontentarci di fare la cronaca giudiziaria ma afferrandone la complessità.
Clima impazzito, la nuova Guerra Fredda tra Usa e Cina, criminalità digitale. Tra le inchieste della nuova stagione c’è anche “Amore bestiale”, tutta sugli animali domestici. E’ una scelta bizzarra per un programma d’inchiesta.
In effetti è un tema che in tv viene trattato come servizio di coda, noi invece faremo una puntata visionaria che mi piace molto. Presa Diretta è l’unico programma della tv italiana privata e pubblica generalista che tutte le settimane propone un monografico che ha l’aspirazione di raccontare per 90 minuti un fenomeno senza fare il “magazine”. Tutte le cose che scegliamo hanno la larghezza narrativa giusta per andare a fondo.
E cosa vedremo?
E’ una puntata che merita 90 minuti. Racconta una trasformazione antropologica di cui ci rendiamo conto quando andiamo in giro per strada: ci sono più cani e gatti che figli. Gente che parla ai cani come agli umani. E poi ci accorgiamo di quanto pesi l’industria che ci gira attorno, comprese le onoranze funebri per cani e gatti, i gelati per loro. C’è un mondo che vive attorno ai nostri amici. E ti domandi cosa è successo. Solo facendo i monografici riesci in qualche modo a mettere l’occhio nel medio futuro, nel mondo che sarà. E sarà un mondo dove animali di ogni genere e grado rispondono a un bisogno di cura che in realtà è nostro. Nasce iscritto nel Dna per i figli, ma si sta spostando sui cani. Sullo sfondo, il declino demografico. Un puntata visionaria, secondo me.
A proposito di visioni. Sì è visto Berlusconi nei panni del candidato al Colle: come sta oggi il rapporto tra politica, Rai e giornalismo?
Tra politica e giornalismo d’inchiesta c’è un fisiologico corpo-a-corpo ed è anche giusto così. Succede in tutto il mondo. I giornalisti portano avanti il loro racconto, la politica deve tenerne conto, l’opinione pubblica è in mezzo e apprende cose che non sapeva. Direi che ora anche in Italia c’è più di uno spazio all’interno della Rai per raccontare in maniera indipendente la realtà e quello che ci circonda.
Dunque è chiusa la stagione degli editti?
Diciamo che in Italia ci sono precedenti pericolosi di cui tenere conto. Non si era mai visto in Europa un presidente del Consiglio che dalla Bulgaria fa un editto contro i conduttori sgraditi e trovi orecchie pronte nell’azienda pubblica per chiudere programmi di grande successo, come erano quelli di Biagi, Luttazzi e Santoro. Chiaro che quella vicenda ha lasciato un segno, ma non è più il tempo in cui l’occupazione politica della Rai da parte degli uomini di dell’ex premier era persino militare, l’epoca dei palinsesti studiati a tavolino con la concorrenza.
C’è più spazio per l’approfondimento giornalistico?
Il sistema della televisione nel suo complesso resta bloccato: c’è un conflitto di interessi ancora molto potente, un mondo privato consistente in mano sempre all’ex presidente del Consiglio. Ma nel frattempo ci siamo ripresi i nostri spazi di libertà, parliamo direttamente al nostro pubblico. E se facciamo un buon lavoro, ci ascolta anche il cosiddetto “mondo della politica”.
L’antidoto all’interferenza?
Fare un buon lavoro. Ci hanno consegnato una prima serata, possiamo fare 90 minuti di racconto. Li vogliamo fare bene e fare in modo che le persone che li vedono siano più ricche, proprio come succede a noi ogni volta che affrontiamo un argomento. Non raccontiamo le cose che già sappiamo o pensiamo siano così per un pregiudizio ideologico o politico. Noi ci buttiamo nel mare del racconto, anche quando è in tempesta, in maniera libera, dai diversi punti di vista. La fontana della libertà resta aperta se racconti in maniera onesta quel che ci sta accadendo nella sua complessità. Il resto non serve a nulla, sono fumetti, non approfondimento giornalistico.
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