Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 31 maggio 2010
domenica 30 maggio 2010
Peter Gomez sulle intercettazioni dà una lezione a marco taradash - omnibus 24 maggio 2010
di Roberto Natale
I ripensamenti sono sempre bene accetti, ma stavolta è impossibile considerarli vere aperture. Gli emendamenti al ddl Alfano annunciati venerdì dal Pdl, in vista del dibattito che si aprirà domani pomeriggio nell’aula del Senato, non cambiano la sostanza del rischio-bavaglio. Le sanzioni a carico degli editori sono state ridotte di un terzo, ma è difficile esultare: l’importo massimo rimane pur sempre di 310 mila euro, comunque sufficienti per “suggerire” al proprietario del giornale di diffidare pesantemente direttore e redazione dal pubblicare qualsiasi notizia troppo cara. E soprattutto non si può spacciare come grande conquista di libertà il fatto che in materia di cronaca giudiziaria si torni alla formulazione uscita dalla Camera, ripristinando la possibilità di pubblicare “per riassunto” il contenuto degli atti giudiziari prima dell’udienza preliminare e tenendo fermo il divieto totale di pubblicazione delle intercettazioni fino alla conclusione delle indagini preliminari, anche se i testi non sono più coperti dal segreto. È questo il punto decisivo, che continua a motivare la nostra netta contrarietà: ciò che è pubblico perché è stato portato a conoscenza delle parti coinvolte deve anche poter essere pubblicabile; anche per non aprire la strada a un’informazione allusiva o ricattatoria, in cui chi ha letto gli atti può mandare torbidi messaggi a mezzo stampa alle persone coinvolte nelle inchieste.
Argomenti così forti che quasi tutti i direttori dei giornali italiani si sono trovati uniti nell’annunciare che non verranno comunque meno al dovere di informare, “indipendentemente da multe, arresti e sanzioni”. È la stessa unità che, sul diritto-dovere di cronaca, i giornalisti italiani chiedono alle loro rappresentanze. Perché non sempre è stato così, negli ultimi mesi: dalla grande manifestazione di ottobre in piazza del Popolo, che aveva mostrato la ricchezza dell’alleanza coi cittadini, il segretario dell’Ordine nazionale aveva preso le distanze con una scelta polemica che certo non ha rafforzato la categoria. Come non l’ha rafforzata qualche timidezza di troppo, da parte dell’Ordine, su un tema che invece meritava e merita una vera e propria campagna pubblica. Ora è urgente recuperare un convinto impegno comune: la lunga battaglia contro il ddl Alfano, tra le aule del Parlamento italiano e – se sarà necessario – la Corte europea di Strasburgo, può e deve essere vinta.
*Presidente Fnsi
Morto l'attore Dennis Hopper - Alessandra Baldini
30 maggio, 15:29
NEW YORK - Giovane ribelle con James Dean, hippie davanti e dietro la macchina da presa nel film simbolo della protesta anni Sessanta Easy Rider: Dennis Hopper, personaggio effervescente, anticonformista e anti-establishment del cinema americano, è morto oggi a Venice in California. Aveva 74 anni. Hopper è morto per complicazioni del cancro alla prostata di cui era da tempo malato. Con lui, ha detto l'amico Alex Hitz, si erano raccolti i suoi cari.
Adesso si ricorda di lui la lunga carriera, oltre 50 anni di cinema a partire da Gioventù Bruciata (1955) e Il Gigante (1956) con il mentore James Dean, ai personaggi folli di Apocalipse Now di Francis Ford Coppola, Velluto Blu di David Lynch e Speed del 1994 di Jan De Bont con Keanu Reeves e Sandra Bullock. Ma la fama di Hopper è intrinsecamente legata alla motocicletta e a Easy Rider, il film con Peter Fonda e l'allora sconosciuto Jack Nicholson, che gli è valso una delle due nomination all'Oscar (con Fonda e Terry Southern per la migliore sceneggiatura, l'altra nomination sarebbe arrivata nel 1986 per il dramma strappacuore Hoosiers). Easy Rider è considerato uno dei più grandi film della storia del cinema americano: i suoi protagonisti in Harley Davidson, gli spacciatori Wyatt (Fonda) e Billy (Hopper), popolarizzarono il mito della vita 'sulla strada', il fumo e l'amore libero nelle comuni. Hopper fece da apripista a una nuova era nel cinema in cui la vecchia guardia di Hollywood fu costretta a cedere il passo a una giovane generazione di cineasti come Coppola e Martin Scorsese.
Girato con un budget da fame, Easy Rider segnò l'esordio di Hopper dietro la macchina da presa: introdusse l'America profonda al mondo degli hippie e all'Età dell'Acquario catturando l'immaginazione di un paese in crisi di identità, travagliato dall'opposizione alla guerra nel Vietnam. Nello stesso anno di Woodstock, Easy Rider divenne uno dei manifesti della controcultura. In seguito, anche a causa di guai personali, Dennis Hopper si era ammorbidito pur restando sempre un personaggio fuori dall'establishment. A marzo gli era stata conferita una stella nella celebre Walk of Fame di Hollywood: l'attore e regista si era presentato all'appuntamento con l'amico di sempre Jack Nicholson pur essendo magrissimo e ormai devastato dalla malattia.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/spettacolo/2010/05/29/visualizza_new.html_1817096559.html
I Servizi alla mafia - Nando Dalla Chiesa
Ma non c’è da affettare alcuno stupore o alcuna offesa incredulità davanti agli scenari che si profilano.
La presenza dei servizi segreti e delle zone d’ombra del potere nelle vicende di mafia è un fatto storico acclarato. E da anni chi non è né vuole essere cieco è costretto a confrontarsi con scampoli inquietanti di verità. Nelle quali l’odore dei Servizi, ma non solo il loro, si riconosce da lontano. La cassaforte svuotata, la notte del delitto, nella casa del prefetto Dalla Chiesa, chiusa anche ai parenti. Il tritolo dell’Addaura e quel rinvio di Falcone alle “menti raffinatissime”, come a indicare una regia esterna a Cosa Nostra. L’assassinio dell’agente Agostino e i suoi misteri. La vicenda di via D’Amelio e il terribile groviglio di piste e di interessi che le è lievitato intorno con gli anni. Le inchieste di Caltanissetta e di Firenze che lambiscono poteri economici di primissimo livello, da Gardini a Berlusconi. Il celebre “papello” di Riina e l’altrettanto celebre trattativa, condotta mentre frana la prima Repubblica. La mediazione di Vito Ciancimino con le testimonianze del figlio Massimo, che scoperchiano le relazioni tra suo padre (agli arresti domiciliari) e Bernardo Provenzano o quel “signor Franco”, uomo delle istituzioni, finalmente individuato in foto accanto a personaggi di governo.
Tutto questo abbiamo davanti, e questa matassa dobbiamo sbrogliare con precisione e senza pregiudizi, perché questa è materia sulla quale non si può sbagliare, né per eccesso né per difetto.
Ma, appunto, bisogna dotarsi di una bussola capace di offrire punti di riferimento certi. Il primo è che la mafia è, in Italia, parte costitutiva del sistema di potere.
Sgradevole all’olfatto, da non portare ai matrimoni (anche se qualcuno ce la porta), ma sempre presente. Il secondo è che la mafia non prende ordini da nessuno.
La mafia fa e chiede favori. Agisce cioè da interlocutore dei differenti soggetti, illegali e legali, che compongono il circuito del potere. Sta in una zona di libero scambio che il nostro ordinamento non dovrebbe tollerare ma tollera. Perché, e questo è il terzo punto fermo, il sistema istituzionale e politico italiano prevede organicamente al proprio interno un alto tasso di illegalità, assolutamente anomalo nel contesto occidentale.
Se questi tre punti fermi sono veri, allora non c’è da rincorrere un’“entità”, un soggetto unico, magari una cupola strutturata, per capire che cosa è accaduto. Bisogna pazientemente e intelligentemente comporre gli scambi possibili e il gioco degli interlocutori possibili. Vagliare chi e perché avrebbe potuto desiderare o decidere una cosa; chi e perché avrebbe potuto avvantaggiarsi – e fino a che punto –, almeno nelle intenzioni, di una particolare scelta criminale. Senza farsi prendere dalla fantascienza ma sapendo che a volte la mafia, e il rapporto mafia-stato, è fantascienza.
E sapendo che lo scambio col diavolo è nella nostra democrazia un metodo.
Non monopolio di questo o quell’altro politico, ma una costante che si trasmette nelle generazioni.
Una cosa abbiamo dunque il dovere di fare. Di aspettare gli esiti del lavoro della magistratura, certo. Ma di non aspettare la conclusione dei processi di terzo grado, se verranno, per sforzarci di dare agli italiani la ricostruzione più attendibile (non “più gradevole”) di quanto è accaduto. Le stragi le ha fatte la mafia. Ma le hanno volute e coperte anche altri: interlocutori stretti, protagonisti della zona di libero scambio. A quei nomi stiamo arrivando.
Quei nomi cercheranno di salvarsi, in tutti i modi.