mercoledì 1 giugno 2011

Il nuovo Pdl pensato dal premier: Alfano commissario e toto nomi per la Giustizia


Dopo il cappotto elettorale, il Cavaliere ritocca il partito. In testa c'è l'idea di affidare la guida di via dell'Umiltà all'attuale Guardasigilli. Per il suo posto sono in ballo due nomi: Lupi e Cicchitto, attuali vicepresidente e capogruppo alla Camera. Ma se il primo non piace alla Lega, il secondo smentisce e metterebbe in difficoltà Napolitano

Dopo il cappotto elettorale, il Pdl cerca nuove strade, dentro e fuori dal partito. Ieri l’ufficio di presidenza è stato rinviato di 24 ore per dare il tempo al Cavaliere di razionalizzare al meglio il nuovo schema del partito. Piani che in serata, come scrive l’agenzia di stampa Agi, sono stati, in parte, svelati. Primo punto, annunciato anche dal ‘Corriere della Sera’ di oggi, il commissario (o reggente) del Pdl. Ruolo che andrebbe al ministro della Giustizia Angelino Alfano. A lui, scrive l’Agi, riportando fonti vicine alla maggioranza, il compito di riscrivere lo statuto. In questo modo, però, Alfano lascerebbe il suo dicastero che passerebbe a Maurizio Lupi. Una nomina che però non è piaciuta alla Lega, vista l’appartenenza ciellina dell’attuale vicepresidente della Camera. Così ieri, nella concertazione generale, si era fatto pure un altro nome: quello di Fabrizio Cicchitto, attuale capogruppo alla Camera. In serata Cicchitto ha risposto a chi gli chiedeva conferma del progetto di nomina con un semplice “non ne so nulla, casco dalle nuvole”. E oggi rilancia: “Non ho nessuna intenzione di fare il ministro, preferisco il lavoro in Parlamento come sto facendo”. Ma se questo sarà lo schema definitivo, la palla dovrà comunque passare al presidente della Repubblica che ancora una volta si troverà tirato per la giacca nel firmare la nomina, quella di Cicchitto, di un ex piduista.

Scettico sulla strategia pare anche Ignazio La Russa che, in un’intervista al quotidiano ‘Il Messaggero’, parla chiaro: “Non è che se arriva Alfano al posto di Verdini si fanno miracoli. Non ci sono bacchette magiche. Il Pdl riparte solo se riusciremo a dare risposte alla gente”. Nonostante, sottolinea il ministro della Difesa, la stima e l’amicizia che lo lega al Guardasigilli. Che “vista la sua giovane età – aggiunge La Russa – è una risorsa nella prospettiva di un partito che duri a lungo”. Per lo stesso titolare della Difesa, attualmente tra i tre coordinatori del partito, è previsto un incarico di peso, ma non è ancora chiaro quale. I due, La Russa e Alfano, si sono comunque incontrati ieri. Appuntamento, spiegano fonti parlamentari del Pdl, che sarebbe servito ad aprire alla soluzione studiata dal Cavaliere.

E un altro incontro si è svolto ieri tra il premier e Denis Verdini affinché anche l’altro coordinatore di via dell’Umiltà possa dare l’ok al piano del presidente del Consiglio. Domani quindi nell’ufficio di presidenza del Pdl convocato per le ore 18 in via del Plebiscito, il Cavaliere dovrebbe già prospettare la possibilità che sia Alfano a guidare nel futuro il partito di via dell’Umiltà, mentre La Russa e Verdini – soprattutto quest’ultimo – potrebbero ricoprire incarichi legati all’organizzazione oppure restare coordinatori fino al cambiamento dello statuto. Eccoli, quindi, i punti salienti che stanno in testa al premier, il quale, nei giorni scorsi aveva anche sposato l’idea delle primarie. Nonostante qualcuno dalla maggioranza faccia notare come, da statuto, nessun cambiamento nell’impianto del triumvirato possa essere effettuato fuori dal congresso del partito.

Un’altra incognita, ricorda ancora il Corriere, è il nome di Claudio Scajola. Per cui, se Lupi dovesse passare alla Giustizia, si libererebbe il posto di vicepresidente della Camera. Mina vagante del piano sarebbe invece il governatore lombardo Roberto Formigoni che, ospite ieri a ‘Ballarò’, ha dichiarato: “Nel partito l’opinione di Berlusconi conta, ma non decide da solo”.



Nucleare, la Cassazione dice sì al referendum del 12 e 13 giugno. - di Silvia D’Onghia


Dopo la decisione dei giudici di mantenere l'atomo tra i quesiti, la battaglia elettorale entra nel vivo. Con le opposizioni unite per il 12 e 13 giugno. Caccia a 8 milioni di schede oltre a quelle delle amministrative. Bersani: “Togliamo l’ultima macchietta”

La Corte di Cassazione ha deciso: all’interno della tornata referendaria del 12 e 13 giugno ci sarà anche il quesito che chiede di bloccare per sempre i piani nucleari del governo. Nonostante la fiducia posta al decreto Omnibus, con cui il governo ha fatto marcia indietro rispetto alla decisione di costruire nuove centrali, il collegio – composto da 17 giudici e presieduto da Antonino Elefante - ha accolto l’istanza presentata dal Pd. L’opposizione chiedeva di votare le nuove norme appena inserite nel decreto. Insomma, al posto del vecchio quesito, agli italiani sarà chiesto di esprimersi sulle leggi appena varate dal Parlamento che congelano per 12 mesi il programma governativo per tornare all’energia prodotta dall’atomo. E, intanto, dall’Autorità garante per le Comunicazioni è arrivato il richiamo alla tv di Stato affinché collochi i messaggi autogestiti sulla tornata in fasce orarie di maggior ascolto.

Nonostante la decisione della suprema Corte, la sfida per raggiungere il quorum non sarà facile. Con l’attuale legge, servirebbero tutti i voti che le opposizioni hanno preso alle elezioni più – almeno – altre otto milioni di schede. E considerate le date, gli italiani potrebbero essere indotti ad andare al mare. Anche perché, come è stato dall’inizio, c’è un unico quesito che fa realmente paura a Berlusconi, quello sul legittimo impedimento. Nonostante ieri lo stesso presidente del Consiglio avesse messo le mani avanti: “Non mi sono mai occupato dei referendum – ha detto il premier – ma se la gente non lo vuole, non è che il governo può decidere, non possiamo obbligare nessuno a costruire centrali. Con molto dispiacere il governo si adeguerà”. “Berlusconi fa il gioco delle tre carte”, ribattono i Comitati.

E allora, se fino a prima delle amministrative in piazza scendevano l’Idv e i comitati referendari (cioè molta gente comune), adesso i muri delle città si riempiono di manifesti coi loghi dei partiti. Dopo la presa di posizione del presidente della Camera, Gianfranco Fini, che lunedì ha invitato tutti i cittadini ad andare a votare “per non rinunciare alle proprie prerogative” e ieri ha pranzato col leader Udc, Pier Ferdinando Casini anche per trovare una linea comune sul referendum , ieri è stata dunque la volta del centrosinistra. Ieri il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, ha ribadito una massiccia campagna di iniziative: “Togliamo l’ultima macchietta”, ha detto riferendosi all’ormai celebre battuta sul giaguaro di Arcore. “Crediamo che il 12 e il 13 giugno possiamo dargli l’ultima spallata e dimostrare che in termini di fiducia e di programma Berlusconi non ha più alcun rapporto con gli italiani”, ha ribadito il leader Idv, Antonio Di Pietro, che dall’inizio ha sposato la campagna referendaria. Un appello al voto è arrivato anche da Nichi Vendola e Francesco Rutelli, che per la verità ha insistito solo sul nucleare riferendosi alla scelta tedesca di chiudere l’ultima centrale entro il 2020.

Ma la scia positiva dei ballottaggi entusiasma tutti. “Coloro che hanno votato alle amministrative rivoteranno per esprimere il loro dissenso rispetto a una certa maniera di fare politica – commenta padre Alex Zanotelli, membro del Comitato per i referendum sull’acqua –, sono profondamente fiducioso. Stiamo lavorando sodo da cinque o sei anni e ho la sensazione che la gente abbia capito di che si tratta, quanto è importante l’acqua, un bene già scarso”. Padre Zanotelli è contento di ricevere il supporto dei partiti, ma avverte: “Deve essere chiara una cosa: non accettiamo tradimenti. Non chiediamo una cosa generica, chiediamo che l’acqua venga gestita da un ente di diritto pubblico e non da una Spa”.

L’indicazione a votare quattro sì viene anche dal mondo cattolico: “Al di là di quello sull’acqua, per il quale siamo nel Comitato promotore – spiega il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero – avremmo preferito non arrivare al referendum. Ma adesso che ci siamo, daremo indicazione di votare sì anche sul nucleare e sul legittimo impedimento. L’importante è che il tentativo maldestro del governo di soffocare il voto non vada a buon fine. La partecipazione è l’elemento per riprendersi la democrazia”.




L’ascesa di Flavio Tosi, il leghista eretico che disturba i fedeli di Bossi. - di Massimiliano Crosato



Domenica, il candidato del sindaco di Verona alla guida provinciale del Carroccio ha sbaragliato i rivali vicini al Senatùr. Ma dal territorio, la forza del primo cittadino scaligero si sta espandendo, complici la notorietà televisiva e gli atteggiamenti filo-istituzionali degli ultimi mesi. E nel partito c'è chi giura che lui miri a scavalcare i luogotenenti di Bossi per puntare alla successione

E’ solo questione di tempo, ma con Flavio Tosi tutta la Lega Nord presto o tardi dovrà fare i conti. Lui, intanto, ha cominciato a farseli per bene domenica a casa sua. Mentre Bossi perdeva sindaci, province e voti in Lombardia e Piemonte, lui vinceva a mani basse in un congresso provinciale bulgaro. Non solo perché s’è tenuto a porte chiuse – una cosa che non s’era mai vista prima nel movimento padano alle prese con gli spifferi del dissenso – ma anche per la vittoria schiacciante (più del doppio dei voti) del suo candidato.

Paolo Paternoster, presidente della municipalizzata di Verona ha surclassato il vice capogruppo alla Camera Alessandro Montagnoli, candidato ufficiale dei bossiani, che non sono nemmeno riusciti a far eleggere un loro delegato nel direttivo. Uno schiaffo per Gian Paolo Gobbo, il segretario veneto fedelissimo soldato di Bossi che pensava di riuscire a porre un argine allo strapotere di Tosi.

Un messaggio forte e chiaro da affidare all’ambasciatore Federico Bricolo, capogruppo al Senato del Carroccio, perché lo trasmetta nell’ormai famoso “cerchio magico” del Senatùr. Tosi non freme e non scalpita, è un’attendista che, smesse definitivamente le irruenze giovanili e verbali, ha imparato a coltivare la pazienza. E infatti il sindaco che non ha paura di distinguersi con dichiarazioni e comportamenti borderline rispetto all’ortodossia padana, non si danna più di tanto se proprio Gobbo e Bricolo continuano a rimandare l’indizione dei congressi di Treviso ePadova, necessari per concludere l’iter che porterà all’assise regionale per la nuova leadership della Liga Veneta. Movimento federato alla Lega, ma sempre subalterno al fiuto oggi un po’ appannato di Bossi. Una conta che i vertici al momento non vogliono affrontare, temendo i numeri di Tosi e i suoi. Meglio procrastinare finché non si trova un altro nome in grado di contrastare l’astro nascente veronese, magari confidando che sia proprio l’indefinita attesa a logorarlo. Oppure che anche lui inciampi in uno scivolone in diretta nazionale, mentre siede a scelta al Tg3 o da Gad Lerner “colpevoli” di averlo sdoganato come volto di un’altra Lega dialogante.

A Tosi, sotto le mentite spoglie di semplice sindaco di una città bella e importante ma certamente non centrale nei destini di una nazione, alcuni non perdonano il profilo politico che si è andato costruendo fuori dai percorsi ufficiali di partito. Essersi accreditato come una sorta di voce ufficiale ma alternativa della Lega, consultata da media e politica con la stessa frequenza che si riserva solo al leader. Ma anche la relazione stabilita in tempi non sospetti col presidente della RepubblicaGiorgio Napolitano, che il 19 giugno sarà per l’ennesima volta ospite del sindaco, anche a costo di sfidare apertamente via Bellerio sul tricolore e l’inno di Mameli. Non è sfuggito che al Capo dello Stato si sia poi dovuto allineare anche Bossi negli ultimi mesi, quasi che a dettare la linea politica sia diventato ora il municipio di Verona dell’ambizioso sindaco non-sindaco, osservano i maligni.

Lui, che al solito non andrà a Pontida a giugno, né a Venezia a settembre, sta chiuso in quello che sarà il suo ufficio ancora per i prossimi dodici mesi. Il prossimo anno nella città scaligera si vota, ma nei piani di Tosi ci sono ben altre successioni da preparare che non quella a se stesso o al solo Gobbo.




Pannelli solari nel Sahara.



Ricercatori giapponesi ed algerini stanno realizzando il più grande progetto di sviluppo dell'energia solare di sempre: il "Sahara Solar Breeder Project".

L'idea è quella di trasformare il deserto del Saharain un'enorme centrale solare che possa soddisfare il 50% della domanda energetica mondiale.

Tutto nasce da una semplice constatazione, nel deserto abbonda la silice, da cui si può ricavare il silicio per realizzare i pannelli solari, in questo modo, spiega Hideomi Koinuma dell'Università di Tokyo, è possibile posizionare i pannelli direttamente nel deserto, costruendoli in loco con il materiale già esistente.

Le centrali solari che così nasceranno saranno connesse alla rete energetica mondiale tramite linee a corrente continua ad alto voltaggio, questa scelta permette di evitare l'uso di superconduttori, che richiederebbero di essere raffreddati, con una conseguente perdita d'energia pari al 3% su 1.000 km.

"L'energia che riceviamo continuamente dal Sole è pari a 10.000 volte l'energia che attualmente l'umanità utilizza" dice Koinuma. "Quindi, se riusciamo a utilizzarne con abilità lo 0,01%, non avremo una carenza d'energia, ma un surplus".

Ovviamente la realizzazione del Sahara Solar Breeder Project non si presenta affatto semplice, estrarre il silicio dalla sabbia del deserto è un operazione molto complessa e richiede un grande dispendio di energia, il trasporto dell'energia prodotta su lunghe distanze ha un costo molto elevato, inoltre potrebbero insorgere problemi di natura ambientale come tempeste di sabbia ecc.

Ma, come è ormai abitudine di questo magazine, noi ci schieriamo apertamente a favore di tutte quelle persone che dimostrano quanto l'intelletto dell'uomo è un dono da utilizzare per costruire un mondo migliore e non uno strumento per assoggettare la volontà collettiva.

http://www.sm-solution.it/futuro/societa/71-societa/435-pannelli-solari-sahara.html


Interessante da vedere..




martedì 31 maggio 2011

Milano, capro espiatorio Moratti La signora se ne va da sola. - di Thomas Mackinson


Dai big del partito a Gabriele Albertini, gli "amici" del Pdl si dileguano e la Lega prende le distanze: "Nei mercati c'eravamo solo noi". L'ex sindaco non si sbilancia sul futuro, ma non chiude a "nuovi ambiti di responsabilità"

Pisapia le ha rubato anche l’ultima scena. MentreLetizia Moratti pronunciava il suo addio alla città le telecamere si sono girate improvvisamente su di lui. Negli stessi minuti, ai microfoni di Sky,Giuliano Pisapia faceva la prima esternazione da sindaco. Sono le 17.30 quando un obiettivo impietoso sancisce l’ideale passaggio di consegne tra vincitore e sconfitto, divisi da ben 67mila voti. La partita si chiude con un 55,1% e un 44,89%. Una batosta per Letizia Moratti. Una bocciatura senza appello per il Pdl. Una “sberla”, come l’ha definita il ministro degli Interni Roberto Maroni.

Un colpo così violento che ci vorrà un’ora e mezza prima che Letizia si materializzi in via Montebello, sede del suo comitato elettorale, per le dichiarazioni di rito. Scende dall’auto sfoggiando un sorriso tiratissimo. Le si fa incontro una militante che l’ha attesa, paziente, per ore. Un abbraccio, la voce tremula che ringrazia. Centinaia di flash. Gli ultimi per Letizia Moratti. Lei prende posto e inizia a recitare una breve dichiarazione scritta su un foglio. “Ho telefonato a Pisapia per congratularmi e garantire la mia disponibilità per un rapido passaggio di consegne e per una collaborazione futura”, scandisce. Su sei righe protocollari di dichiarazione una rivela subito il tentativo di mettere le mani avanti e difendersi dal processo dei suoi stessi alleati: “Metterò il mio capitale di fiducia a disposizione delle forze moderate di questo Paese e di questa città per rafforzare la coalizione intorno a temi fondanti come la famiglia, la libertà, la tolleranza e la legalità”. Come dire: vi siete divisi, mi avete lasciata sola. Vero. Sui toni esasperati della campagna elettorale e sul valore nazionale del risultato no comment: “Lascio queste valutazioni agli opinionisti politici”, dice. Seguono i ringraziamenti e nessuna risposta ai cronisti che la incalzano.

Non una parola sul suo futuro e sui tanti temi sospesi tra la sua mano che lascia e quella di Pisapia che prende. A chi le chiede se resterà commissario Expo, ad esempio, risponde: “Le valutazioni le farò nei prossimi giorni con la coalizione e nelle sedi opportune. Ci sono profili diversi che appartengono anche ad ambiti di responsabilità diverse”. Cosa significhi, nessuno lo sa. Certo Expo resta uno dei temi caldi del passaggio di consegne, con il ministro Giulio Tremonti che ha fatto chiaramente intendere che potrebbe congelare i fondi statali (“Con Pisapia l’Expo se ne va via”). Da sciogliere il tema dell’acquisto dei terreni e del loro utilizzo dopo il 2015. Per aria il destino di Ecopass. In bilico il nuovo piano regolatore approvato a soli tre mesi dal voto. Incerta la quotazione di Sea programmata in autunno. Su questi temi si misurerà la tenuta della coalizione di Pisapia. Domani. Perché ieri è stato il giorno del commiato della Moratti.

Un addio quasi in punta di piedi il suo, dopo una campagna elettorale dai toni a dir poco aggressivi. Lo stesso comitato elettorale ieri si è trasformato nella plastica metafora della sua solitudine. Da queste parti non si è visto nessuno del Pdl. Non uno che commentasse la disfatta. Tacciono i big locali Maurizio Lupi, Luigi Casero, Mariastella Gelmini, Roberto Formigoni e Mario Mantovani. Sembra lontana anni luce la foto di gruppo scattata alla vigilia del voto dalla terrazza di Letizia per dare un segnale di coesione. Un espediente inutile.

Chiuse le urne si sono subito rotte le righe. Perfino l’ex sindaco Gabriele Albertini, chiamato all’ultimo in città in un disperato tentativo di salvataggio, è già tornato al Parlamento europeo. Gli unici a parlare forte e chiaro sono i leghisti. Proprio non riescono a contenere la rabbia per aver perso Milano. Il processo alla Moratti in camicia verde è immediato e cruento. Affonda il coltelloMatteo Salvini, spogliato all’ultimo dal ruolo di vicesindaco in pectore: “I milanesi – dice – si sono infastiditi nell’ascoltare temi che non interessano la città come le Br, i giudici, i ladri d’auto”. Ogni riferimento non è affatto casuale. Lo scontro sale di livello in poche ore. Ignazio La Russa accusa la Lega di aver fatto mancare i voti. A stretto giro incassa una dura replica di Umberto Bossi: “Per strada e nei mercati c’eravamo solo noi”. Lo scricchiolio tra alleati a Milano è già diventato boato a Roma.



Milano e Napoli, volano De Magistris e Pisapia Berlusconi: “Milanesi preghino Dio ora”


Alla fine il marchio della sconfitta lo metteBerlusconi in persona, parlando dalla Romania: “Abbiamo perso, è evidente”. La giustificazione è pronta: “Guardando caso per caso, la sconfitta non ha niente a che vedere con il governo”. Il premier assicura che l’esecutivo andrà avanti, contro tutto e contro tutti, “con l’accordo di Bossi”. E non risparmia la battutaccia nel giorno della sconfitta peggiore: “Ora i milanesi devono pregare il buon Dio che non gli succeda qualcosa di negativo”. Quanto a Napoli, dice il Cavaliere, gli elettori “si pentiranno tutti moltissimo”.

Il premier si spezza ma non si piega, insomma, mentre tutto attorno lo scenario racconta un cappotto completo su tutta la linea. Persa Milano per mano del “comunista” Pisapia. Tracollo a Napoli, dove De Magistris prende percentuali bulgare che neanche il Bassolino dei tempi d’oro. E poi Cagliari, che finisce nelle mani dell’altro comunista protagonista di queste amministrative,Massimo Zedda (60%). Via a cadere le città già perse al primo turno: Torino, Bologna. E infineTrieste, che torna nelle mani del centrosinistra. Basterebbero queste sei città per disegnare quel famigerato vento di cambiamento che trascina il centrodestra fuori dalle città che contano. Ma c’è di più, molto di più, andando a guardare nei centri piccoli e medi.

Il centrodestra tiene solo a Varese, dove il leghista Attilio Fontana porta a casa una vittoria sofferta. Il resto è ancora tinto dai colori del centrosinistra: Gallarate, dove la Lega sostiene di fatto il Pd, Novara, Rimini, Pordenone, Grosseto e Crotone. Mentre al centrodestra vanno Cosenza, Iglesias e Rovigo. Per quanto riguarda le province, vanno al centrosinistra quelle di Mantova, Pavia e Macerata. Mentre il centrodestra si prende Vercelli e Reggio Calabria.

Spremuti i dati elettorali, il succo politico è evidente. E Berlusconi lo sa bene. Tracollo, ad essere pietosi, disarmo totale, per dirla tutta. Il primo a farne le spese (unico nel suo genere) è il coordinatore del Pdl Sandro Bondi, che immediatamente rassegna le sue dimissioni. Per il resto è un diluvio di necessità di “riflettere”. Da Quagliariello ad Alemanno, da Frattini alla stessaMoratti, parte in realtà la resa dei conti dentro il partito. Il ministro degli esteri chiede di sperimentare il modello delle primarie nel partito. Ma a parte lui, con i big che tacciono sono i pesci più piccoli che sondano il terreno per capire chi e cosa sarà investito dal terremoto politico. Sisma che potrebbe scatenarsi già oggi, quando il premier di ritorno da Bucarest riunirà l’ufficio di presidenza del Pdl. I nodi hanno nomi e cognomi: Mantovani, che da coordinatore lombardo non ha brillato, Scajola, deciso a dare battaglia. E poi Beccalossi, che al Tg4 ha criticato il premier sulle case abusive. E poi i sempre meno responsabili, ancora in attesa delle promesse poltrone. La lib-dem Melchiorre che lascia il posto da sottosegretario. Ogni nome, negli incubi del premier diventa una possibile corrente da disinnescare.

Il premier glissa sulla resa dei conti e preferisce parlare di “maggiore radicamento nel territorio”: ”Adesso ci vediamo e faremo quello che serve per radicare molto di più il partito sul territorio, come eravamo già intenzionati a fare”, dice ai giornalisti da Bucarest. Ma l’ipotesi, Berlusconi non lo nega, è quella di fare piazza pulita degli attuali coordinatori per fare posto al ministro della Giustizia Alfano: “Si tratta di un processo che era già avviato, un lavoro sul Popolo delle Libertà di cui mi occupo direttamente, perché vogliamo rilanciarlo alla grande”.

Non va meglio in casa della Lega. Matteo Salvini, a Milano, marca subito la distinzione: “Non siamo qui a fare i processi, ma è chiaro che il Pdl ha perso voti, e la Lega ne ha guadagnati”. Il ministro Calderoli, per parte sua, si mostra tranquillo, fedele nel solco tracciato dal premier: “Il governo andrà avanti fino alla fine della legislatura per fare le riforme. Si vince e si perde insieme”. Ma c’è da giurare che la base non sarà così netta nel distribuire le colpe, né così blanda nelle soluzioni.

Chi se la ride, nonostante i magri risultati elettorali, è il presidente della Camera. Gianfranco Finiaffida ad una nota la sua vendetta: “Avevo avvertito Berlusconi, scrive Fini, lui mi ha ripagato buttandomi fuori”. Il leader di Fli si spinge oltre: “Il governo può anche non cadere, ma il berlusconismo è finito”. E aggiunge, preoccupato per la manovra economica alle porte: “Speriamo di non essere alla vigilia di giorni più complicati”.

Ridono, e di gusto, anche nel centrosinistra, e per oggi non potrebbe essere altrimenti. Pisapia e De Magistris, certo, festeggiano. Così come fanno festa Bersani - “Abbiamo smacchiato il giaguaro”, commenta sarcastico – Bindi, Veltroni, D’Alema, i big del partito democratico di solito impegnati a distinguersi per una volta sono tutti d’accordo. Da padre storico dei democratici sorride anche Romano Prodi, che si presenta in piazza del Pantheon a Roma per festeggiare. L’avvertimento dell’unico uomo che abbia battuto Berlusconi (per due volte) è tanto chiaro quanto perentorio: “Non più di cinque minuti per festeggiare – ammonisce – poi subito mettersi al lavoro”. C’è da augurarsi che i suoi seguano il consiglio.