giovedì 23 agosto 2012

40 uomini e due auto blindate. Quanto ci costa la scorta del deputato Berlusconi. - Thomas Mackinson


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Grazie ad una serie di provvedimenti varati dai suoi stessi governi, l'ex presidente del Consiglio conserva la protezione piena che gli era garantita quando era in carica. Due milioni e mezzo circa il costo annuo, pagato dai cittadini solo per la scorta. Senza contare il dispiegamento di Carabinieri a presidio delle sue abitazioni.

Una quarantina di uomini divisi in due squadre di 20 ciascuna e due auto blindate per una spesa superiore ai 200mila euro al mese. Vale a dire due milioni e mezzo l’anno. Tanto costano gli uomini dei servizi di sicurezza che ancora oggi stanno appresso all’ex premier Silvio Berlusconi. Senza contare i carabinieri dispiegati dal Ministero degli Interni per servizi ordinari presso le ville di famiglia. Un’eredità che lo stesso Berlusconi si è costruito da solo, a più riprese, con provvedimenti ad hoc e che è riuscito a mantenere anche oggi che è un deputato come altri, solo molto molto costoso. Tanto che gli 80mila euro per la scorta balneare di Fini, da settimane oggetto di furiose polemiche, diventano briciole.
Gli uomini al seguito del Cavaliere, spiegano fonti molto qualificate, hanno trattamenti economici doppi rispetto ai colleghi che svolgono servizi di sicurezza ordinari. Hanno stipendi e prerogative equiparati a quelli dei colleghi dello spionaggio e controspionaggio senza esserlo. Siamo, per essere chiari, intorno ai cinquemila euro al mese. E sono appunto quaranta. I conti sono presto fatti.
Nei suoi mandati, a più riprese, il Cavaliere è riuscito a cambiare le regole sulla sicurezza e imporre uomini di fiducia provenienti dalla sua azienda. Lo si scoprirà anni più tardi, quando i magistrati baresi cercheranno risposte all’andirivieni incontrollato di persone dalle ville del Cavaliere: possibile che nessuno della sicurezza controllasse chi entra e chi esce? Si, perché il premier, proprio per tutelare la sua “privacy”, già dal primo mandato era riuscito a sostituire gli uomini dello Stato con quelli della security di Fininvest e Standa (da quel giorno in poi a libro paga degli italiani). Un’impresa non semplice. Prima di allora, infatti, nessuno poteva entrare in polizia, carabinieri o finanza senza un regolare concorso pubblico. Per garantirsi la “sua” scorta – che obbedisca a personalissimi criteri di fedeltà privata e discrezione pubblica – Berlusconi ricorre allora a un escamotage senza precedenti: grazie alle sue prerogative di Presidente del Consiglio, s’inventa una nuova competenza ad hoc presso i Servizi, gli unici cui la legge consente di assumere personale a chiamata diretta. Nasce così un nucleo per la scorta del presidente che fa capo al Cesis (oggi Aisi, Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) anziché al Viminale, anche se con l’attività di intelligence vera e propria nulla ha a che fare.
Gli uomini d’azienda vestiranno la divisa sotto la guida dell’uomo che, alla fine degli anni Ottanta, faceva la security alla Standa. E che di punto in bianco si trova capo-scorta del presidente del Consiglio con la qualifica di capo-divisione dei servizi. E si porta dietro almeno altre cinque ex body-guard Fininvest. Col tempo la struttura è cresciuta a ventiquattro unità, poi 31 e infine 40 che stavolta vengono in parte attinte dalle Forze dell’Ordine, ma sempre su indicazione di quel primo nucleo. Che tornerà regolarmente ad ogni successivo mandato. Anzi, non smetterà più di prestare servizio.
Quegli stessi uomini, infatti, sono lì ancora oggi che il Cavaliere è tornato ad essere un deputato. Perché? Perché ha deciso così. E’ il 27 aprile del 2006. Berlusconi ha perso le elezioni e si appresta a fare le valigie e cedere la poltrona e la “campanella” del Consiglio dei Ministri a Romano Prodi. Ma non ha alcuna intenzione di cedere anche quella struttura che i magistrati baresi tre anni dopo definiranno quantomeno “anomala” e che in fin dei conti è una sua creatura. Così, giusto 17 giorni dopo il voto, poco prima di lasciare il Palazzo, Berlusconi vara un altro provvedimento ad hoc che oggi giorno potrebbe chiamarsi a buon diritto “salva-scorta”, nella migliore tradizione delle leggi ad personam. Se ne accorgono, in ottobre, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere, che raccontano come, non fidandosi del professore, la scorta per il futuro Berlusconi abbia provveduto a farsela da solo stabilendo che i capi di governo “cessati dalle funzioni” abbiano diritto a conservare la scorta su tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento. Così facendo riesce a portarsela via come fosse un’eredità personale, anche se era (e continua a essere) un servizio di sicurezza privato pagato con soldi pubblici. Al costo, ancora oggi, di due milioni e mezzo l’anno.

mercoledì 22 agosto 2012

Ilva, coprire i parchi minerali si può: lo ha fatto la Hyundai Steel in Corea del Sud. - Eleonora Bianchini e Pierluigi Giordano Cardone


parchi minerali ilva corea interna

Il Gruppo Riva e il ministro Clini spingono per il barrieramento, l'Arpa Puglia per la copertura. Beppe Grillo mostra su Facebook il caso virtuoso di un impianto siderurgico asiatico. Ilfattoquotidiano.it ha sottoposto il caso a esperti del settore, trovando conferme. Carlo Mapelli (Politecnico di Milano): "Soluzione tecnicamente interessante, ma non realizzabile a Taranto nel breve periodo".

“Perché in Corea del Sud sì e a Taranto no?”. Mentre politica e tecnici battibeccano a distanza sulle tecniche di bonifica dell’Ilva, (con il governo che propende per la costruzione di una barriera e l’Arpa che spinge per la copertura delle zone a rischio), dal web arriva l’esempio virtuoso: in Corea del Sud c’è un impianto siderurgico che ha deciso di coprire con alcune cupole i propri parchi minerali. Costi? Elevati. Effetti? Al di là delle più rosee aspettative. Da qui l’interrogativo: perché non esportare la soluzione asiatica anche in Italia? Per gli esperti si può. Per l’azienda meno. Ecco perché.
Il dibattito sul caso IlvaMettersi a norma “al prezzo di onerosissimi esborsi finanziari” sulla base “delle migliori tecnologie disponibili”. Le motivazioni del tribunale del Riesame parlano chiaro: per porre fine all’inquinamento provocato dall’Ilva di Taranto bisogna puntare al massimo. Con una soluzione definitiva. A ogni prezzo. La nuova partita sul futuro ‘ambientale’ dello stabilimento siderurgico del Gruppo Riva, quindi, è già iniziata. E per quanto riguarda la bonifica del Parco minerali (da cui si alzano le polveri che infestano il quartiere Tamburi) si gioca su due fronti: l‘Arpa Puglia vuole la copertura dell’area, la proprietà dell’acciaieria propende per il barrieramento (ipotesi sostenuta anche dal ministro Corrado Clini nella conferenza stampa del 17 agosto scorso), che avrebbe tempi di realizzazione e costi nettamente inferiori rispetto a quanto prospettato dall’Agenzia regionale per l’ambiente. Che in questa situazione conflittuale ha scoperto di avere un alleato inaspettato. Un paio di giorni fa, infatti,Beppe Grillo (‘riprendendo’ il Comitato cittadini liberi e pensanti di Taranto, ndr) ha postato sulla sua pagina Facebook la soluzione adottata dalla Hyundai Steel Corporation in Corea del Sud, che ha deciso di coprire i suoi parchi minerali con delle cupole ad hoc. “Questo perché durante le fasi di carico e scarico dei minerali avviene la dispersione di polveri e minerali nocivi nell’aria. Perché in Corea del Sud sì e a Taranto no?” si è chiesto il leader del Movimento 5 Stelle.
L’esempio della Hyundai SteelL’esempio asiatico ha suscitato entusiasmo in Rete ed è stato rilanciato da migliaia di utenti che lo ritengono il massimo del virtuosismo. I dati, del resto, sembrerebbero confermare la bontà della scelta di Hyundai. L’azienda sudcoreana, infatti, è stata la prima al mondo a realizzare un sistema di stoccaggio al coperto per ridurre l’impatto ambientale in tutte le fasi del processo di produzione. Secondo un servizio della Cnn realizzato a ottobre 2011, “l’aria è più pulita e le condizioni di vita sono migliorate”. L’impianto è costato complessivamente 5,5 miliardi di dollari (ammortizzabili a bilancio in un quinquennio) ed è in grado di produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (l’Ilva ne produce poco più di 9 milioni), con 35 chilometri di nastro trasportatore. Inoltre la copertura del materiale dall’inizio alla fine del processo di trasformazione consente all’azienda di risparmiare circa 20 milioni di dollari all’anno. Al contrario, lasciare tutto all’aria aperta, secondo la Hyundai, “provoca ai produttori di acciaio una perdita dello 0.5% del materiale a causa di pioggia, vento e freddo”. Insomma, gli ingredienti della soluzione coreana sono due: risparmio sulle materie prime e tutela ambientale.
Il parere di Arpa Puglia: “Copertura unica soluzione”“Corea e Giappone sono avanti anni luce rispetto a noi – ha spiegato al fattoquotidiano.it Giorgio Assennato, presidente di Arpa Puglia – La copertura dei parchi minerali è l’unica soluzione tecnicamente possibile contro l’inquinamento, soprattutto nel caso di Ilva”. Il perché sta nella pochezza delle alternative. “A nostro avviso – ha continuato Assennato – l’altro rimedio utile sarebbe la completa delocalizzazione dei parchi, ma questa avrebbe dei costi e dei tempi di realizzazione davvero esorbitanti”. E il barrieramento, magari con una bagnatura costante delle colline di polveri ferrose? “A Taranto la bagnatura dovrebbe esser già fatta e i risultati sono evidenti: non basta. Anche per questo motivo le barriere non sono la soluzione migliore – ha sottolineato il numero uno dell’agenzia ambientale pugliese – e credo che il tribunale del Riesame la pensi così, considerato che nelle motivazioni della sua sentenza ha fatto ampio riferimento alle nostre analisi”. 
L’esperto: “Soluzione tecnica degna di interesse”Sull’esempio delle acciaierie Hyundai Steel Corporation e sulla possibilità di ‘esportare’ la soluzione sudcoreana a Taranto, è interressante il parere al professor Carlo Mapelli, docente di siderurgia al Politecnico di Milano. “All’Ilva il trasporto su nastri protetti dalle navi ai parchi c’è già, a differenza delle cupole che in Corea coprono il parco minerario. Sono una soluzione tecnicamente interessante, per ora presente solo in questo impianto coreano – ha detto il professor Mapelli – Considerato il sistema di svuotamento, non sono una soluzione che si può pensare di installare in tempi rapidi a Taranto, in quanto servirebbero un bel po’ di mesi perché ci sarebbero da predisporre anche delle macchine specifiche sotto le cupole per consentire lo svuotamento del deposito. Comunque – è il parere del professore – si può trattare di una soluzione tecnica certo degna di interesse e di essere considerata per realizzare futuri miglioramenti, almeno di una parte del parco minerario”. Il dubbio di Mapelli, tuttavia, non è tanto nella tecnologia da utilizzare quanto sulla velocità di attuazione. “Rimango dell’opinione che per portare sollievo in tempi brevi alle persone che abitano nei pressi dell’impianto – ha specificato Mapelli – un buon sistema di irrorazione e di barriere verticali sia la soluzione più agibile, poi per il futuro compartimentare il parco e coprire singoli settori potrebbe essere interessante. La differenza è che quello coreano è un impianto nuovo di zecca (progettato apposta in quel modo) mentre qui bisogna modificare situazioni pregresse ed è molto meno semplice sopratutto su una superficie di 65 ettari. Col tempo e con un buon piano si potrà modificare qualcosa anche a Taranto”. Anche perché il tribunale del Riesame parla chiaro: soluzione definitiva a ogni costo e con le migliori tecnologie possibili. Dalla Corea del Sud un’idea è arrivata. E secondo gli esperti è fattibile, con buona pace di ministri e gruppo Riva.

Gli agenti della Dia: “Coi tagli si sta smantellando la Direzione antimafia”. - Silvia D'Onghia


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Era il sogno di Giovanni Falcone, che aveva compreso la necessità di avere un’unica struttura di polizia per affiancare i magistrati impegnati nella lotta alla criminalità organizzata. "La stanno uccidendo a piccoli passi, perché nessuno si assumerebbe la responsabilità di eliminarla in un colpo".


Era il sogno di Giovanni Falcone, che aveva compreso la necessità di avere un’unica struttura di polizia per affiancare i magistrati impegnati nella lotta alla mafia. In realtà la legge istitutiva della Direzione investigativa antimafia (Dia, ndr) non è mai stata applicata. Anzi, oggi qualcuno sta cercando di smantellarla del tutto”. È amareggiato, uno dei poliziotti che hanno scelto di non tacere più, oltre che arrabbiato. Sta assistendo, impotente, all’agonia di un organismo che – tanto per fare un esempio – tra il 2009 e il primo semestre del 2011 ha sequestrato beni per 5,7 miliardi di euro e ne ha confiscati altri per 1,2 miliardi di euro. Cifre che rappresentano l’introito maggiore per il Fondo unico Giustizia. “Se si sono finalmente aperti gli occhi sugli intrecci tra mafia e politica nel Nord Italia, lo si deve alla nostra attività – spiega un funzionario che per motivi di sicurezza deve restare anonimo –. L’operazione ‘Breakfast’, per esempio, che ha coinvolto alcuni elementi di spicco della Lega Nord. O la ‘Doma’, nella quale sono finiti colletti bianchi e politici nazionali, ‘vicini’ al clan dei Casalesi. Qualche mese fa è partita una nuova richiesta d’arresto nei confronti dell’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino. O le principali inchieste di Palermo, dove – guarda caso – i magistrati stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. Ma forse è proprio per questo che siamo diventati scomodi”. Lo smantellamento sembra procedere a piccoli passi, perché nessuno si assumerebbe la responsabilità di distruggere in un colpo solo la creatura di Falcone. Ma basta mettere insieme alcuni fatti degli ultimi 10 mesi per rendersi conto della situazione.
E’ stato inutile, per gli uomini della Dia, protestare sotto Montecitorio il 26 ottobre dello scorso anno. Pochi giorni dopo, il 12 novembre, la legge di stabilità ha drasticamente tagliato il Trattamento economico aggiuntivo (Tea), quella che in gergo viene chiamata “indennità di cravatta”: una compensazione economica (circa 250 euro mensili per un ispettore con 30 anni di carriera sulle spalle) che riconosce la specificità del lavoro di poliziotti, carabinieri e finanzieri della Dia. Nonostante proteste e numerose interrogazioni parlamentari, si è passati al 35 per cento di quella cifra. Peccato, però, che proprio da novembre dello scorso anno il Tea non sia più stato corrisposto: né nella sua interezza – per i mesi di novembre e dicembre – né nella misura del 35 per cento. Tanto che circa 500, tra sottufficiali e ufficiali, hanno presentato ricorso. “Ora l’Avvocatura dello Stato ha scritto al Dipartimento chiedendo perché non sono stati erogati quei fondi – prosegue il funzionario – e sottolineando come il personale sia l’ultima risorsa da toccare, anche in tempi di spending review”. Non solo: c’è un’analoga lettera del ministero dell’Economia che, preoccupato, fa notare come adesso siano da pagare anche gli interessi di mora. Non si capisce dunque perché la situazione non si sblocchi. Il bilancio della struttura, in generale, è stato fortemente penalizzato: si è passati dai 28 milioni di euro del 2001 ai 9 di quest’anno. Oltre tutto della Dia dovevano far parte, secondo la legge istitutiva del 1991, tra le tremila e le quattromila unità. Numeri mai raggiunti. Oggi la Direzione è composta da circa mille e 400 persone, 12 centri operativi e sette sezioni distaccate, “e ci sono centri che non hanno più personale della polizia di Stato, non mandano più né funzionari né ispettori”. Però ad aprile è accaduta un’altra cosa: è stato firmato un protocollo d’intesa tra la Direzione nazionale antimafia e il Corpo forestale dello Stato, per cui quest’ultimo metterà a disposizione i propri nuclei specializzati e la propria competenza in materia di tutela del territorio. “Nulla contro i colleghi della Forestale – spiega un agente –, ma il rischio è di perdere la nostra specificità, la nostra esperienza in materia di reati associativi. Se entra la Forestale dovrà entrare anche la Penitenziaria”.
Quello che spaventa di più gli uomini dell’Antimafia, però, sta avvenendo in realtà molto sotto traccia. Si stanno creando gruppi interforze ad hoc per il controllo degli appalti: vedi la ricostruzione all’Aquila (Gicer), l’Expo Milano 2015 (Gicex) e ora il terremoto in Emilia. “Ma la Dia ha già al suo interno un Osservatorio centrale sugli appalti” conclude il funzionario. La sensazione, dunque, è che la si voglia svuotare di soldi e significato. “C’è un atteggiamento vessatorio nei confronti del personale della Dia – fa notare Enzo Marco Letizia, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia – e la politica si mostra disattenta rispetto a tutto questo”. “Non colgo un’azione volontaria per smantellarla – ci va più cauto il segretario del Silp Cgil, Claudio Giardullo –, ma un immobilismo incomprensibile che rende impossibile utilizzare una struttura di eccellenza”. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridono ancora nella pagina riservata alla Dia sul sito del Viminale. Sorridono ignari.
Da Il Fatto Quotidiano del 22 agosto 2012

L'attacco alla repubblica del Ecuador. Ecco il perchè di Londra. - Sergio Di Cori Modigliani



Oggi parliamo di geo-politica e di libera informazione in rete.
Tutto ciò che sta accadendo oggi, tecnicamente (nel senso di “politicamente”) è iniziato il 12 dicembre del 2008. Secondo altri, invece, sarebbe iniziato nel settembre di quell’anno. Ma ci volevano almeno quattro anni prima che l’onda d’urto arrivasse in Europa e in Usa.
Forse è meglio cominciare dall’inizio per spiegare gli accadimenti.
Anzi, è meglio cominciare dalla fine.
Con qualche specifica domanda, che –è molto probabile- pochi in Europa si sono posti.
Mi riferisco qui alla questione di Jules Assange, wikileaks, e la Repubblica di Ecuador.
Perché il caso esplode, oggi?
Perché, Jules Assange, ha scelto un minuscolo, nonché pacifico, staterello del Sudamerica che conta poco o nulla?
Come mai la corona dell’impero britannico perde la testa e si fa prendere a schiaffi davanti al mondo intero da un certo signor Patino, ministro degli esteri ecuadoregno, per gli euro-atlantici un vero e proprio Signor Nessuno, il quale ha dato una risposta alla super elite planetaria (cioè il Foreign Office di Sua Maestà) tale per cui, cinque anni fa avrebbe prodotto soltanto omeriche risate di pena e disprezzo, mentre oggi li costringe ad abbozzare, ritrattare, scusarsi davanti al mondo intero?
Perché l’Ecuador? Perché, adesso?
Tutto era più che prevedibile, nonché scontato.
Intendiamoci: era scontato in tutto il continente americano, in Australia, Nuova Zelanda, Danimarca, paesi scandinavi. In Europa e a Washington pensavano che il mondo fosse lo stesso di dieci anni fa. Perché l’Europa –e soprattutto l’Italia- è al 100% eurocentrica, vive sotto un costante bombardamento mediatico semi-dittatoriale, non ha la minima idea di ciò che accade nel resto del mondo, ma (quel che più conta) pensa ancora come nel 1812, ovvero: “se crolla l’Europa crolla il mondo intero; se crolla l’euro e l’Europa si disintegra scompare la civiltà nel mondo” e ragiona ancora in termini coloniali. Ma il mondo non funziona più così. In Italia, ad esempio, nessuno è informato sulla zuffa (che sta già diventando rissa) tra il Brasile e l’Onu, malamente gestita da Christine Lagarde, la persona che presiede il Fondo Monetario Internazionale, e che ruota intorno all’applicazione base di un concetto formale, banale, quasi sciocco, ma che potrebbe avere ripercussioni psico-simboliche immense: l’Italia è stata ufficialmente retrocessa. Non è più l’ottava potenza al mondo, bensì la nona. E’ stata superata dal Brasile. Quindi al prossimo G8 l’Italia non verrà invitata, ma ci andrà il Brasile. Da cui la scelta di abolire il G8 trasformandolo in G10 standard. Si stanno scannando.
La prima notizia Vera (per chi vuole ricavare informazioni reali dal mondo reale) è questa: “L’Europa, con l’Inghilterra e Germania in testa, non possono (non vogliono) accettare il trionfo keynesiano del Sudamerica e la loro irruzione nel teatro della Storia come soggetti politici autonomi. Per loro vale il principio per cui “che se ne stiano a casa loro, non rompano, e ringrazino il cielo che li facciamo anche sopravvivere, come facciamo con gli africani. Altrimenti, da quelle parti, uno per uno faranno la fine di Gheddafi”. Il messaggio in sintesi è questo.
Dal Sudamerica negli ultimi quaranta giorni sono arrivati tre potentissimi messaggi in risposta: niente è stato pubblicizzato in Europa. Tanto meno l’ultimo (il più importante) in data 3 agosto, se non altro per il fatto che era in diretta televisiva dalla sede di New York del Fondo Monetario Internazionale. Nessuno lo ha trasmesso in Europa, ad esclusione del Regno di Danimarca. E così, preso atto che esiste una compattezza mediatica planetaria di censura, e avendo preso atto che se non se ne parla la televisione, non c’è in rete e non si trovano notizie su wikipedia, allora vuol dire che non esiste, il Sudamerica ha scelto il palcoscenico mediatico globale più intelligente in assoluto: il cuore della finanza oligarchica planetaria, la city di Londra.
E adesso veniamo ai fatti.
Jules Assange, il 15 giugno del 2012 capisce che per lui è finita. Si trova a Londra. Gli agenti inglesi l’arresteranno la settimana dopo, lo porteranno a Stoccolma, dove all’aereoporto non verrà prelevato dalle forze di polizia di Sua Maestà la regina di Svezia, bensì da due ufficiali della Cia, e un diplomatico statunitense, i quali avvalendosi di specifici accordi formali sanciti tra le due nazioni farà prevalere il “diritto di opzione militare in caso di conflitto bellico dichiarato” sostenendo che Jules Assange è “intervenuto attivamente” all’interno del conflitto Nato-Iraq mentre la guerra era in corso. Lo porteranno direttamente in Usa, nello Stato del Texas, dove verrà sottoposto a processo penale per attività terroristiche, chiedendo per lui l’applicazione della pena di morte sulla base dell’applicazione del Patriot Act Law. Si consulta con il suo gruppo, fanno la scelta giusta dopo tre giorni di vorticosi scambi di informazioni in tutto il pianeta. “vai all’ambasciata dell’Ecuador a piedi, con la metropolitana, stai lì”. Alle 9 del mattino del 19 giugno entra nell’ambasciata dell’Ecuador. Nessuna notizia, non lo sa nessuno. Il suo gruppo apre una trattativa con gli agenti inglesi a Londra, con gli svedesi a Stoccolma e con i diplomatici americani a Rio de Janeiro. Raggiungono un accordo: “evitiamo rischio di attentati e facciamo passare le olimpiadi, il 13 agosto se ne può andare in Sudamerica, facciamo tutto in silenzio, basta che non se ne parli”. I suoi accettano, ma allo stesso tempo non si fidano (giustamente) degli anglo-americani. Si danno da fare e mettono a segno due favolosi colpi. Il primo avviene il 3 agosto, il secondo il 4.
Il 3 agosto 2012, con un anticipo rispetto alla scadenza di 16 mesi, la presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, si presenta alla sede di Manhattan del Fondo Monetario Internazionale accompagnata dal suo ministro dell’economia e dal ministro degli esteri ecuadoregno, Patino, in rappresentanza di “Alba” (acronimo che sta per Alianza Laburista Bolivariana America”) l’unione economica tra Ecuador, Colombia e Venezuela. In tale occasione, la Kirchner si fa fotografare e riprendere dalle televisioni con un gigantesco cartellone che mostra un assegno di 12 miliardi di euro intestato al Fondo Monetario Internazionale con scadenza 31 dicembre 2013, che il governo argentino ha versato poche ore prima. “Con questa tranche, la Repubblica Argentina ha dimostrato di essere solvibile, di essere una nazione responsabile, attendibile e affidabile per chiunque voglia investire i propri soldi. Nel 2003 andammo in default per 112 miliardi di dollari, ma ci rifiutammo di chiedere la cancellazione del debito: scegliemmo semplicemente la dichiarazione ufficiale di bancarotta e chiedemmo dieci anni di tempo per restituire i soldi a tutti, compresi gli interessi. Per dieci, lunghi anni, abbiamo vissuto nel limbo. Per dieci, lunghi anni, abbiamo protestato, contestato e combattuto contro le decisioni del Fondo Monetario Internazionale che voleva imporci misure restrittive di rigore economico sostenendo che fosse l’unica strada. Noi abbiamo seguito una strada diversa, opposta: quella del keynesismo basato sul bilancio sociale, sul benessere equo sostenibile e sugli investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, investendo invece di tagliare. Abbiamo risolto i nostri problemi. Ci siamo ripresi. Non solo. Siamo oggi in grado di saldare l’ultima tranche con 16 mesi di anticipo. Le idee del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale in materia economica sono idee errate, sbagliate. Lo erano allora lo sono ancor di più oggi: Chi vuole operare, imprendere, creare lavoro e ricchezza, è benvenuto in Argentina: siamo una nazione che ha dimostrato di essere solvibile, quindi pretendiamo rispetto e fedeltà alle norme e alle regole, da parte di tutti, dato che abbiamo dimostrato, noi per primi, di rispettare i dispositivi del diritto internazionale……” ecc. Subito dopo (cioè 15 minuti dopo) la Kirchner ha presentato una denuncia formale contro la Gran Bretagna e gli Usa al WTO (World Trade Organization) la più importante associazione planetaria di scambi commerciali coinvolgendo il Fondo Monetario Internazionale grazie ai files messi a disposizione da Wikileaks, cioè Assange. L’Argentina ha saldato i debiti, ma adesso vuole i danni. Con gli interessi composti. “Volevano questo, bene, l’hanno ottenuto. Adesso che paghino”. E’ una lotta tra la Kirchner e la Lagarde. Le due Cristine duellano da un anno impietosamente. Grazie (o per colpa) di Assange, dato che il suo gruppo ha tutte le trascrizioni di diverse conversazioni in diverse cancellerie del globo, che coinvolgono gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, la Germania, il Vaticano, dove l’economia la fa da padrone: Osama Bin Laden è stato mandato in soffitta e sostituito da John Maynard Keynes, lui è diventato il nemico pubblico numero uno delle grandi potenze; in queste lunghe conversazioni si parla di come mettere in ginocchio le economie sudamericane, come portar via le loro risorse energetiche, come impedir loro di riprendersi e crescere, come fare per impedire ai loro governi di far passare i piani economici keynesiani applicando invece i dettami del Fondo Monetario Internazionale il cui unico scopo consiste nel praticare una politica neo-colonialista a vantaggio soprattutto di Spagna, Italia e Germania, con capitali inglesi. Gran parte dei file già resi pubblici su internet. Gran parte dei file, gentilmente offerti da Assange all’ambasciatore in Gran Bretagna dell’Ecuador, il quale -siamo sempre il 3 agosto a New York- ricorda chi rappresenta e che cosa ha fatto l’Ecuador, ovvero la prima nazione del continente americano, e unica nazione nel mondo occidentale dal 1948, ad aver applicato il concetto di “debito immorale” ovvero “il rifiuto politico e tecnico di saldare alla comunità internazionale i debiti consolidati dello Stato perché ottenuti dai precedenti governi attraverso la corruzione, la violazione dello Stato di Dirirtto, la violazione di norme costituzionali”. Il 12 dicembre del 2008, infatti, il neo presidente del governo dell’Ecuador Rafael Correa (pil intorno ai 50 miliardi di euro, pari a 30 volte di meno dell’Italia) dichiara ufficialmente in diretta televisiva in tutto il continente americano (l’Europa non ha mai trasmesso neppure un fotogramma e difficilmente si trova nella rete europea materiale visivo) di “aver deciso di cancellare il debito nazionale considerandolo immondo, perché immorale; hanno alterato la costituzione per opprimere il popolo raccontando il falso. Hanno fatto credere che ciò chè è Legge, cioè legittimo, è giusto. Non è così: da oggi in terra d’Ecuador vale il nuovo principio costituzionale per cui ciò che è giusto per la collettività allora diventa legittimo”. Cifra del debito: 11 miliardi di euro. Il Fondo Monetario Internazionale fa cancellare l’Ecuador dal nòvero delle nazioni civili: non avrà mai più aiuti di nessun genere da nessuno “Il paese va isolato” dichiara Dominique Strauss Kahn, allora segretario del Fondo Monetario.. Il paese è in ginocchio. Il giorno dopo, Hugo Chavez annuncia ufficialmente che darà il proprio contributo dando petrolio e gas gratis all’Ecuador per dieci anni. Quattro ore più tardi, il presidente Lula annuncia in televisione che darà gratis 100 tonnellate al giorno di grano, riso, soya e frutta per nutrire la popolazione, finchè la nazione non si sarà ripresa. La sera, l’Argentina annuncia che darà il 3% della propria produzione di carne bovina di prima scelta gratis all’Ecuador per garantire la quantità di proteine per la popolazione. Il mattino dopo, in Bolivia, Evo Morales annuncia di aver legalizzato la cocaina considerandola produzione nazionale e bene collettivo. Tassa i produttori di foglie di coca e offre all’Ecuador un prestito di 5 miliardi di euro a tasso zero restituibile in dieci anni in 120 rate. Due giorni dopo, l’Ecuador denuncia la United Fruit Company e la Del Monte & Associates per “schiavismo e crimini contro l’umanità”, nazionalizza l’industria agricola delle banane (l’Ecuador è il primo produttore al mondi di banane) e lancia un piano nazionale di investimento di agricoltura biologica ecologica pura. Dieci giorni dopo, i verdi bavaresi, i verdi dello Schleswig Holstein, in Italia la Conad, e in Danimarca la Haagen Daaz, si dichiarano disponibili a firmare subito dei contratti decennali di acquisto della produzione di banane attraverso regolari tratte finanziarie pagate in euro che possono essere scontate subito alla borsa delle merci di Chicago. Il 20 dicembre del 2008, facendosi carico della protesta della United Fruit Company, il presidente George Bush (già deposto ma in carica formale fino al 17 gennaio 2009) dichiara “nulla e criminale la decisione dell’Ecuador” annunciando la richiesta di espulsione del paese dall’Onu: “siamo pronti anche a una opzione militare per salvaguardare gli interessi statunitensi”. Il mattino dopo, il potente studio legale di New York Goldberg & Goldberg presenta una memoria difensiva sostenendo che c’è un precedente legale. Sei ore dopo, gli Usa si arrendono e impongono alla comunità internazionale l’accettazione e la legittimità del concetto di “debito immorale”. La United Fruit company viene provata come “multinazionale che pratica sistematicamente la corruzione politica” e condannata a pagare danni per 6 miliardi di euro. Da notare che il “precedente legale” (tuttora ignoto a gran parte degli europei) è datato 4 gennaio 2003 a firma George Bush. Eh già. E’ accaduto in Iraq, che in quel momento risultava “tecnicamente” possedimento americano in quanto occupato dai marines con governo provvisorio non ancora riconosciuto dall’Onu. Saddam Hussein aveva lasciato debiti per 250 miliardi di euro (di cui 40 miliardi di euro nei confronti dell’Italia grazie alle manovre di Taraq Aziz, vice di Hussein e uomo dell’opus dei fedele al vaticano) che gli Usa cancellano applicando il concetto di “debito immorale” e quindi aprendo la strada a un precedente storico recente. Gli avvocati newyorchesi dell’Ecuador offrono al governo americano una scelta: o accettano e stanno zitti oppure se si annulla la decisione dell’Ecuador allora si annulla anche quella dell’Iraq e quindi il tesoro Usa deve pagare subito i 250 miliardi di euro a tutti compresi gli interessi composti per quattro anni. Obama, non ancora insediato ma già eletto, impone a Bush di gettare la spugna. La solida parcella degli avvocati newyorchesi viene pagata dal governo brasiliano.
Nasce allora il Sudamerica moderno.
E cresce e si diffonde il mito di Rafael Correa, presidente eletto dell’Ecuador. Non un contadino indio come Morales, un sindacalista come Lula, un operaio degli altiforni come Chavez. Tutt’altra pasta. Proveniente da una famiglia dell’alta borghesia caraibica, è un intellettuale cattolico. Laureato in economia e pianificazione economica a Harvard, cattolico credente e molto osservante, si auto-definisce “cristiano-socialista come Gesù Cristo, sempre schierato dalla parte di chi ha bisogno e soffre”. Il suo primo atto ufficiale consiste nel congelare tutti i conti correnti dello Ior nella banche cattoliche di Quito e tale cifra viene dirottata in un programma di welfare sociale per i ceti più disagiati. Fa arrestare l’intera classe politica del precedente governo che viene sottoposta a regolare processo. Finiscono tutti in carcere, media di dieci anni a testa con il massimo rigore. Beni confiscati, proprietà nazionalizzate e ridistribuite in cooperative agricole ecologiche. Invia una lettera a papa Ratzinger dove si dichiara “sempre umile servo di Sua Illuminata Santità” dove chiede ufficialmente che il vaticano invii in Ecuador soltanto “religiosi dotati di profonda spiritualità e desiderosi di confortare i bisognosi evitando gli affaristi che finirebbero sotto il rigore della Legge degli uomini”.
Tutto ciò lo si può raccontare oggi, grazie alla bella pensata del Foreign Office, andati nel pallone. In tutto il pianeta Terra, oggi, si parla di Rafael Correa, dell’Ecuador, del debito immorale, del nuovo Sudamerica che ha detto no al colonialismo e alla servitù alle multinazionali europee e statunitensi.
In Italia lo faccio io sperando di essere soltanto uno dei tanti.
Questo, per spiegare “perché l’Ecuador”.
E’ un chiaro segnale che il gruppo di Assange sta dando a chi vuol capire e comprendere che TINA è un Falso. Non è vero che non esiste alternativa. Per 400 anni, da quando gli europei scoprirono le banane ricche di potassio, gli ecuadoregni hanno vissuto nella povertà, nello sfruttamento, nell’indigenza, mentre per centinaia di anni un gruppo di efferati oligarchi si arricchiva alle loro spalle. Non è più così. E non lo sarà mai più. A meno che non finiscano per vincere Mitt Romney, Mario Draghi, Mario Monti, David Cameron e l’oligarchia finanziaria. L’esempio dell’Ecuador è vivo, può essere replicato in ogni nazione africana o asiatica del mondo.
Anche in Europa.
Per questo Jules Assange ha scelto l’Ecuador.
Ma non basta.
Il colpo decisivo al sistema viene dato da una notizia esplosiva resa pubblica (non a caso) il 4 agosto del 2012. “Jules Assange ha firmato il contratto di delega con il magistrato spagnolo Garzòn che ne rappresenta i diritti legali a tutti gli effetti e in ogni nazione del globo”.
Ma chi è Garzòn?
E’ il nemico pubblico numero uno della criminalità organizzata.
E’ il nemico pubblico numero uno dell’opus dei.
E’ il più feroce nemico di Silvio Berlusconi.
E’ in assoluto il nemico più pericoloso per il sistema bancario mondiale.
Magistrato spagnolo con 35 anni di attività ed esperienza alle spalle, responsabile della procura reale di Madrid, ha avuto tra le mani i più importanti processi spagnoli degli ultimi 25 anni. Esperto in “media & finanza” e soprattutto grande esperto in incroci azionari e finanziari, salì alla ribalta internazionale nel 1993 perché presentò all’interpol una denuncia contro Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri (chiedendone l’arresto) relativa a Telecinco, Pentafilm, Fininvest, reteitalia e Le cinq da cui veniva fuori che la Pentafilm (Berlusconi e Cecchi Gori soci, cioè Pd e PDL insieme) acquistava a 100 $ i diritti di un film alla Columbia Pictures che rivendeva a 500$ alla telecinco che li rivendeva a 1000$ a rete Italia che poi in ultima istanza vendeva a 2000$ alla Rai, in ben 142 casi tre volte: li ha venduti sia a Rai1 che a Ra2 che a Rai3. Lo stesso film. Cioè la Rai (ovvero noi) ha pagato i diritti di un film 20 volte il valore di mercato e l’ha acquistato tre volte, così tutti i partiti erano presenti alla pari. Quando si arrivò al nocciolo definitivo della faccenda, Berlusconi era presidente del consiglio, quindi Garzòn venne fermato dall’Unione Europea. Ottenne una mezza vittoria. Chiuse la telecinco e finirono in galera i manager spagnoli. Ma Berlusconi rientrò dalla finestra nel 2003 come Mediaset. Si riaprì la battaglia, Garzòn stava sempre lì. Nel 2006 pensava di avercela fatta ma il governo italiano di allora (Prodi & co.) aiutò Berlusconi a uscirne. Nel 2004 aprì un incartamento contro papa Woytila e contro il managament dello Ior in Spagna e in Argentina, in relazione al finanziamento e sostegno da parte del vaticano delle giunte militari di Pinochet e Videla in Sudamerica. Nel 2010 Garzòn si dimise andando in pensione ma aprì uno studio di diritto internazionale dedicato esclusivamente a “media & finanza” con sede all’Aja in Olanda. E’ il magistrato che è andato a mettere il naso negli affari più scottanti, in campo mediatico, dell’Europa, degli ultimi venti anni. In quanto legale ufficiale di Assange, il giudice Garzòn ha l’accesso ai 145.000 file ancora in possesso di Jules Assange che non sono stati resi pubblici. Ha già fatto sapere che il suo studio è pronto a denunciare diversi capi di stato occidentali al tribunale dei diritti civili con sede all’Aja. L’accusa sarà “crimini contro l’umanità, crimini contro la dignità della persona”.
La battaglia è dunque aperta.
E sarà decisiva soprattutto per il futuro della libertà in rete.
In Usa non fanno mistero del fatto che lo vogliono morto. Anche gli inglesi.
Ma hanno non pochi guai perché, nel frattempo, nonostante sia abbastanza paranoico (e ne ha ben donde) Assange ha provveduto a tirar su un gruppo planetario che si occupa di contro-informazione (vera non quella italiana). I suoi esponenti sono anonimi. Nessuno sa chi siano. Non hanno un sito identificato. Semplicemente immettono in rete dati, notizie, informazioni, eventi. Poi, chi vuole sapere sa dove cercare e chi vuole capire capisce.
Quando la temperatura si alza, va da sé, il tutto viene in superficie.
E allora si balla tutti.
In Sudamerica, oggi, la chiamano “British dance”.
Speriamo soltanto che non abbia seguiti dolorosi o sanguinosi.
Per questo Assange sta dentro l’ambasciata dell’Ecuador.
Per questo Garzòn lo difende.
Per questo, questa storia relativa al Sudamerica, va raccontata.
Per questo l’Impero Britannico ha perso la testa e lo vuole far fuori.
Perché Assange ha accesso a materiale di fonte diretta.
E il solo fatto di dirlo, e divulgarlo, scopre le carte a chi governa, e ricorda alla gente che siamo dentro una Guerra Invisibile Mediatica.
Non sanno come fare a fermare la diffusione di informazioni su ciò che accade nel mondo.
Finora gli è andata bene, rimbecillendo e addormentando l’umanità.
Ma nel caso ci si risvegliasse, per il potere sarebbero dolori davvero imbarazzanti.
Wikileaks non va letto come gossip.
Non lo è.
C’è gente che per immettere una informazione da un anonimo internet point a Canberra, Bogotà o Saint Tropez, rischia anche la pelle.
Questi anonimi meritano il nostro rispetto.
E ci ricordano anche che non potremo più dire, domani “ma noi non sapevamo”.
Chi vuole sapere, oggi, è ben servito. Basta cercare.
Se poi, con questo Sapere un internauta non ne fa nulla, è una sua scelta.
Tradotto vuol dire: finchè non mandiamo a casa l’immonda classe politica che mal ci rappresenta, le chiacchiere rimarranno a zero. Perché ormai sappiamo tutti come stanno le cose.
Altrimenti, non ci si può lamentare o sorprendersi che in Italia nessuno abbia mai parlato prima dell’Ecuador, di Rafael Correa, di ciò che accade in Sudamerica, dello scontro furibondo in atto tra la presidente argentina e brasiliana da una parte e Christine Lagarde e la Merkel dall’altra.
Perché stupirsi, quindi, che gli inglesi vogliano invadere un’ambasciata straniera?
Non era mai accaduto neppure nei momenti più bollenti della cosiddetta Guerra Fredda.
Come dicono in Sudamerica quando si chiede “ma che fanno in Europa, che succede lì?”
Ormai si risponde dovunque “In Europa dormono. Non sanno che la vita esiste”.

‘Addio mondo’. E’ morto Tony Nicklinson, l'uomo che lottava per l'eutanasia.



Londra - (Adnkronos/Ign) - La scorsa settimana era arrivato il no dell’Alta corte britannica alle richieste dell’uomo, 58 anni, rimasto paralizzato sette anni fa dopo un ictus. Scrivendo attraverso il battito delle ciglia era diventato una star di Twitter.

Londra, 21 ago. (Adnkronos/Ign) - ‘’Addio mondo è arrivato il momento, mi sono anche divertito".Arriva via twitter l’ultimo saluto di Tony Nicklinson, il cittadino britannico affetto da sindrome "locked-in", morto per cause naturali, dopo aver perso la scorsa settimana la sua battaglia legale per il diritto all'eutanasia.
Il 58enne Nicklinson si è spento nella sua abitazione dopo un "rapido deterioramento" delle sue condizioni di salute a seguito di una polmonite, hanno annunciato gli avvocati della sua famiglia. L'uomo aveva rifiutato di ingerire cibo nel corso della sua ultima settimana di vita. Ultimamente, Nicklinson era divenuto una star di Twitter, grazie a un sofisticato meccanismo che gli consentiva di scrivere sul social network attraverso il battito di ciglia, l'unico movimento che gli era concesso dalla malattia. Il suo "Ciao mondo", lanciato il 13 giugno scorso su Twitter, era stato celebrato come il primo messaggio postato su un social network da un paziente affetto da sindrome 'locked-in'. Il suo primo 'cinguettio' ("Ciao mondo, sono Tony Nicklinson, soffro di sindrome locked-in e questo e' il mio primo tweet di sempre") aveva fatto registrare più di 8 mila follower in 48 ore, saliti a oltre 10 mila dopo appena 8 tweet compreso il primo.
L'uomo, originario di Melksham, nella contea del Wiltshire, nel sudovest dell'Inghilterra, nel 2005 era rimasto rimasto completamente paralizzato dopo un ictus che lo colpì durante un viaggio ad Atene. La cosiddetta sindrome "locked-in", che gli impediva di muoversi e parlare. La scorsa settimana, l'Alta corte di Londra aveva respinto l'istanza nella quale Nicklinson chiedeva di poter morire con l'assistenza di un medico in quello che veniva definito "suicidio dignitoso".
"Sono rattristato dal fatto che la legge vuole condannarmi a una vita di crescente miseria e mancanza di dignità", aveva affermato Nicklinson in un comunicato diramato dopo la decisione. I giudici, pur esprimendo "profonda comprensione" per il suo caso, hanno ritenuto di non poter abbandonare il principio che considera "l'eutanasia volontaria un omicidio, per quanto comprensibili possano esserne i motivi".
La moglie di Nicklinson, Jane, dopo la decisione dei giudici aveva descritto suo marito "assolutamente col cuore spezzato" e aveva annunciato la sua volontà di presentare appello. Alla domanda di cosa serebbe successo a seguito di un'altra decisione avversa, la donna aveva risposto: "Tony dovrà andare avanti così finché non morirà per cause naturali, oppure si lascerà morire di fame".

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