lunedì 28 gennaio 2013

SCANDALO MPS/ Tutti gli interessi di Caltagirone, suocero d’oro di Casini, e di Letta (Goldman Sachs). - Carmine Gazzanni



Da Francesco Gaetano Caltagirone a Gianni Letta. In questo periodo in cui emergono i pesanti rapporti tra partiti e Mps, ci si dimentica di due nomi importanti della finanza e della politica italiana. Il primo è stato fino all’anno scorso vicepresidente e azionista della banca, godendo – come vedremo – di numerosi benefici e, con un trucco aziendalegodendone tuttora (sebbene sia uscito da Mps probabilmente proprio perché aveva annusato il marcio). Per il secondo, invece, si scopre che ha avuto un ruolo di prim’ordine proprio nell’acquisizione di Antonveneta (con la Goldman Sachs), la stessa acquisizione su cui, in questi giorni, si sta concentrando la magistratura. Cosa c’è dietro? 
Forse pochi lo sanno, anche perché nessuno, in questo periodo di facili (e legittime) accuse a questo o quel partito, l’ha ricordato. Eppure fino al 26 gennaio 2012 (precisamente un anno fa, dunque) vicepresidente e azionista (per il 4 per cento) del Monte dei Paschi di Siena era nientepopodimenoche Francesco Gaetano Caltagirone, il suocero d’oro di Pierferdinando Casini, uno dei principali finanziatori dell’Udc e sostenitori dell’operazione Monti-bis. 
IL LEGAME, GLI INTERESSI, LE LEGGI AD HOC - Sui legami del trio Caltagirone-Casini-Monti ci siamo già occupati: l’ex premier, nel corso dei suoi tredici mesi di mandato, ha lavorato (e tanto) per dare nuova linfa al campo dell’edilizia dove – lo sappiamo bene – gli interessi dell’imprenditore romano sono più che forti. Leggi ad aziendam? Sarebbe troppo affrettato dirlo. Certo è che la politica economica infrastrutturale messa in piedi dall’esecutivo tecnico potrebbe avvantaggiare appunto i grandi costruttori italiani: dall’importo massimo portato fino a 40 mila euro per l’affidamento fiduciario (senza gara dunque) dei servizi di progettazione, all’obbligo di utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa nelle gare di ingegneria e architettura solo oltre i 100 mila euro; dai 224 milioni di euro già stanziati (ma si parla di un totale di 2 miliardi) per le aree degradate di alcune grandi città, al rilancio delle grandi opere pubbliche senza alcun rischio per le imprese (a rimetterci potrebbero essere invece le casse pubbliche); fino alla defiscalizzazione per le opere infrastrutturali.
Ma anche se prescindessimo da quanto detto, il legame rimarrebbe intatto dato che Caltagirone è il maggior finanziatore dell’Udc, il partito del genero Pierferdinando Casini, uno dei promotori più decisi del Monti-bis. Ecco allora che sorge qualche dubbio: perché nessuno dall’Udc ha alzato la voce sul caso Mps? E perchè Mario Monti è stato così prodigo nell’attaccare il Pd, dimentico però del ruolo che fino all’altro ieri rivestiva chi oggi lo sostiene?
CALTAGIRONE: IL SOCIO-VICEPRESIDENTE. E CLIENTE DI RIGUARDO DI MPS - Una possibile risposta potremmo averla se guardassimo a quelli che sono stati gli affari di papà Caltagirone nel periodo della sua vicepresidenza a Siena. Va precisato immediatamente un particolare: il rapporto col dimissionario Giuseppe Mussari, ex presidente di Mps, è stato più che redditizio. E dove ha inciso soprattutto? In campo edile, ovviamente. Un caso su tutti. Nel 2009 il Monte dei Paschi, attraverso Antonveneta (successivamente incorporata in Mps Immobiliare) ha venduto alcuni immobili. Indovinate a chi? Alla Immo 2006 srl, società controllata indirettamente da Francesco Gaetano Caltagirone. Costo dell’operazione: 37,58 milioni di euro.
Finita qui? Certo che no. Per il socio-vicepresidente-imprenditore-cliente gli affari sono stati d’oro durante questo periodo. E allora ecco un altro finanziamento notevole: sempre nel 2009 alla Cementir Holding (direttamente controllata dalla Caltagirone spa) sono stati erogati dalla banca di Rocca Salimbeni 49,5 milioni. Ma, probabilmente, non sono bastati. E allora, dopo solo un anno, da Siena sono arrivati altri finanziamenti per Caltagirone per oltre 200 milioni di euro, concessi ovviamente in varia forma tecnica, più mutui fondiari per 30 milioni alla Immobiliare Caltagirone, altra società di punta dell’imprenditore romano. La Immobiliare, però, nel corso degli anni, ha goduto anche di altri corposi finanziamenti provenienti proprio dalla banca diretta da Mussari. Come quello del 2008120 milioni di euro.
C’è da dire, però, che Mussari non ha mai fatto nulla per nulla. E allora, se la banca è stata decisamente prodiga negli anni, Caltagirone imprenditore non è stato da meno nei confonti di Caltagirone socio e vicepresidente di banca: a fine 2010 erano circa 296 i milioni depositati presso Montepaschi, per lo più appartenenti alla controllata (e quotata) Caltagirone Editore.
Un rapporto proficuo per tutti, insomma. E allora perché non allargarlo ulteriormente?Ci si pensa a maggio 2010: il cda di Mps delibera un “incremento delle linee di credito ordinarie con utilizzo secondo varie forme tecniche per 175 milioni di euro a favore di Acea S.p.A”, poi seguite da altri 15 milioni. Anche la multiutility romana, leader – come si legge sul sito – “nel settore idrico e dell’energia”, è ovviamente una partecipata da Caltagirone (allora al 13 per cento, oggi al 15). 
CALTAGIRONE SI DIMETTE: PUZZA DI BRUCIATO? - Il 26 gennaio dell’anno scorso però, come detto Caltagirone dà le sue dimissioni dal consiglio di amministrazione della banca e dal suo incarico di vicepresidente. Esce dalla banca, di cui peraltro era anche socio detenendo il 4 per cento delle azioni. L’imprenditore, d’altronde, si era già autosospeso dall’incarico il dieci novembre in seguito alla condanna a tre anni e sei mesi di reclusione nell’ambito del processo per la tentata scalata dell’Unipol alla Bnl. Una scelta morale, sembrerebbe. Di onestà intellettuale. In realtà le cose non stanno così. Per due motivi. Innanzitutto perché, da quanto sta emergendo in questo periodo, Caltagirone sapeva molto di più di quanto non si pensi, soprattutto sull’operazione Antonveneta, oggi tornata di così stretta attualità. E secondo perché, come vedremo nel prossimo paragrafo, gli affari con Mps continuano ancora oggi. Nonostante tutto.
Ma cominciamo dal primo dei due punti sollevati. Proprio ieri il CorSera è andato a spulciare i verbali del consiglio di amministrazione da settembre a dicembre 2011. In quel periodo la banca appariva decisamente in affanno. Già a settembre, infatti, i consiglieri di amministrazione prendono coscienza della necessità di intervenire. Ma prima bisogna farsi i conti in tasca: capire cosa realmente ci sia nei portafogli della banca. Sebbene, almeno formalmente, non ci sia traccia nei verbali dei derivati oggi sotto la lente di ingrandimento della Procura di Siena (Alexandria, Nota Italia e Santorini), la preoccupazione è alta. “Quanti Btp abbiamo in portafoglio?”, chiede proprio lui, il vicepresidente di allora Francesco Gaetano Caltagirone.
Il capo del risk management Giovanni Conti ammette la difficoltà e risponde a Caltagirone:28 miliardi di titoli governativi, 21,6 dei quali dello Stato italiano, il 40% dei quali “si concentra su scadenza lunghe”. Caltagirone contesta: Il portafoglio è “marcatamente sbilanciato” sia per Paese sia per le scadenze “prolungate”. Sebbene il direttore finanza Giovanni Baldassari cerchi di difendersi, non riesce a convincere il vicepresidente: “la situazione non è ulteriormente sostenibile, sia come rischiosità che come conseguenze di conto economico, si devono prendere opportuni provvedimenti per alleggerire queste posizioni”.
Insomma, nella ricostruzione di Fabrizio Massaro sul Corriere appare chiaro che Caltagirone avesse avuto sentore del rischio di restare in banca, soprattutto come socio e come dirigente di punta. Dopo pochi mesi, infatti, rassegna le sue dimissioni e cede tutte le sue azioni. Ecco perché, dunque, non è credibile la tesi secondo cui ci sia dietro un gesto nobile dopo la condanna per la scalata Unipol. Caltagirone non avrebbe voluto dimettersi. Tanto che ben presto passa ad un’altra banca: acquista l’1 per cento delle azioni di Unicredit e riesce a inserire il figlio Alessandro nel cda. Pronto, dunque,  per nuovi e proficui affari. 
caltagirone_letta_scandalo_mpsCALTAGIRONE – MPS: GLI AFFARI CONTINUANO. OCCHIO AL “TRUCCO” - Affari che, tuttavia, non sono certo stati interrotti tra Caltagirone e Mps. Prova ne è la joint venture Fabrica Immobiliare sgr, che gestisce diversi fondi che, come si evince dal sito, sono tutti intestati a grandi filosofi dell’antichità: Aristotele, Seneca, Socrate, Pitagora, Cartesio. Dietro gli impegnativi richiami al pensiero del passato, però, ci sono interessi e giochi economici di prim’ordine. Stando al bilancio 2010 della banca senese, infatti, “tra nuovo credito, mutui e affidamenti ordinari alla sgr e alla galassia di fondi chiusi gestiti da quest’ultima, Fabrica Immobiliare lo scorso anno ha ricevuto da Banca Monte dei Paschi risorse per oltre 107 milioni”. Nel corso degli anni ognuno di questi fondi  è stato finanziatoGiugno 2009: per il fondo Forma Urbis mutuo da 14 milioniLuglio 200939,4 milioni per i fondi Pitagora, Etrusca Distribuzione e SocrateNovembre 2009: “affidamenti a carattere ordinario” per 35,1 milioni di euro per il fondo Socrate.
Ma, come detto, gli affari continuano ancora oggi. Basta andare a vedere chi sono gli azionisti della Fabrica Immobiliare: per il 49,9 per cento la Fincal spa (direttamente controllata da Caltagirone spa), per lo 0,02 per cento da Alessandro Caltagirone e per l’altro 49,9 per cento proprio dal Monte dei Paschi. Cosa vuol dire questo? Che, in teoria, la società non ha un socio di controllo. Un gioco sottile, dunque, quello di affidare lo 0,02 per cento delle azioni ad Alessandro che, nonostante sia figlio di Francesco Gaetano, non ha alcun ruolo in Fincal. Ergo: grazie a questo assetto proprietario,nessuno è tenuto a consolidare la sgr sui propri bilanci. In altre parole, i relativi e possibili debiti non vengono consolidati nei conti del gruppo, ma iscritte in bilancio per la quota parte di patrimonio netto. Dunque, anche su quelli del Mps. Gli affari continuano. Anche se sottotraccia. 
TUTTI COINVOLTI – Caltagirone, però, non è l’unico ad aver avuto (e ad avere tuttora) rapporti con il Monte dei Paschi. Tutta la politica, nessuno escluso, pare legata agli interessi della banca senese. A giusta ragione – ma forse troppo semplicisticamente – si dice che il Monte dei Paschi sia la banca del Pd. Vero: Mussari è uomo in orbita democratici, tanti sono stati i finanziamenti della banca arrivati al partito e, di contro, tanti sono gli amici del Pd che occupano posti dirigenziali nella banca. Dire, però, che Mps sia solo legata al partito di Pier Luigi Bersani – come fatto da Grillo, Monti e Berlusconi – è fuorviante. Significa, in altre parole, nascondere una grossa fetta di verità. Per quanto riguarda Monti esemplificativo è il caso, appena illustrato, di Caltagirone,finanziatore numero uno del partito del genero Pierferdinando Casini e uno dei più fervidi promotori del Monti-bis. Non se la scampa, però, nemmeno Silvio Berlusconi. Tutt’altro. in questi giorni, infatti, sono spuntati tutti i rapporti che, nel corso degli anni, hanno tenuto in affari Mps da una parte e il Cav dall’altra. È lo stesso Berlusconi d’altronde ad aver ammesso che “grazie a Mps potei costruire Milano 2 e Milano 3, era l’unica banca che concedeva mutui premiando la puntualità dei pagamenti”. Come ricostruito da Marco Lillo su Il Fatto, l’atteggiamento di allora della banca fu del tutto particolare. Il 9 ottobre 1981 il sindacato ispettivo del Monte dei Paschi scrive: “La posizione di rischio verso il gruppo Berlusconi ha dimensioni e caratteristiche del tutto eccezionali e dimostrano l’esistenza di un comportamento preferenziale accentuato”. Da allora, dunque, un connubio ininterrotto quello tra B. e la banca senese, come testimoniato anche dai bonifici con causale prestito infruttifero alle Olgettine del ragionier Spinelli. 
L’INTRECCIO MPS, GOLDMAN SACHS E GIANNI LETTA – Un nome che finora non è uscito, però, è quello di Gianni Letta. Anche il sodale da sempre di Silvio Berlusconi è legato a doppio filo col Monte dei Paschi. E il tramite è di tutto rispetto: la Goldman Sachs.
Cerchiamo di capire. La questione, ricostruita dalla giornalista Debora Billi sul suo blog, è decisamente interessante. Anche perché riguarda proprio quello su cui sta indagando in queste ore la magistratura: l’acquisizione di Antonveneta dagli spagnoli del Santander. Per gestire l’operazione Mussari decide di affidarsi proprio alla banca americana che, insieme, a Citigroup, Merrill Lynch, Credit Suisse, Mediobanca e Jp Morgan copre anche economicamente l’operazione. Si legge sul CorSera del 21 dicembre 2007: “Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Credit Suisse e Mediobanca si sono impegnati a sottoscrivere fino a 2,5 miliardi di euro. Jp Morgan, Goldman Sachs e Mediobanca cureranno il convertibile. Merrill, Citigroup, Goldman Sachs e Credit Suisse garantiranno poi la sottoscrizione degli strumenti di debito subordinati. Per il finanziamento ponte, infine, che verrà utilizzato da Mps nel caso di ritardi e problemi sugli altri due fronti, Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch e anche Credit Suisse e Mediobanca per la loro parte ne assicureranno la sottoscrizione”. Insomma, l’acquisizione – proprio quella su cui si è soffermata la lente della magistratura – è stata seguita in tutte le sue parti dalle banche.
Ma ecco il punto. Soltanto pochi mesi prima –giugno 2007 – la Goldman Sachs aveva affidato all’ex sottosegretario alla presidenza Gianni Letta l’incarico di consulente per l’Italia e componente del proprio international advisory board. Ruolo decisivo dato che, a conti fatti, Letta ha seguito tutte le operazioni della banca in Italia in quel periodo. A cominciare proprio dall’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi.
Insomma, tutti sono legati alla banca senese. Il fango che in questi giorni ci si getta a vicenda non ha alcuna credibilità. È come quando un bambino, dopo aver commesso la marachella, getta le responsabilità sul compagno che gli sta affianco. In fondo, lo fa solo perchè teme di essere scoperto.


Bimbi schiavi nelle fabbriche dell’iPad.



La Apple passa al setaccio i fornitori «In Cina una fabbrica di minorenni».


Lavoro minorile negli impianti dei fornitori di Apple: nel 2012 Cupertino ha rivenuto 106 casi di bambini con meno di 16 anni di età impiegati nelle fabbriche. Si tratta di 11 stabilimenti in tutto: il caso più estremo in un impianto cinese, dove 74 dei 106 ragazzi lavoravano. Apple ha troncato il rapporto di lavoro con l’azienda e l’ha denunciata alle autorità locali, che l’hanno multata e le hanno revocato la licenza. A scattare la fotografia delle condizioni di lavoro nelle fabbriche di fornitori Apple è Cupertino stessa, nel rapporto annuale sulla `Responsabilità dei fornitori´. 

«Il nostro approccio nei confronti del lavoro minorile è chiaro: non lo tolleriamo e stiamo lavorando per sradicarlo dalla nostra industria. Quando scopriamo fornitori che impiegano lavoro minorile chiediamo azioni correttive immediate» afferma nel rapporto Apple, una delle poche società fra i colossi dell’hi-tech a pubblicare i dettagli sui propri fornitori. Nel rapporto Apple precisa che nessuno dei ragazzi lavora più nelle catene dei fornitori Apple, dopo che la società ha lavorato con i propri partner per aiutarli a identificare casi di documenti falsi. Il lavoro minorile e le tutele del lavoro giovanile sono le uniche due aree sulle otto esaminate da Apple nel rapporto dove si è assistito nel 2012 a un aumento delle violazioni. Le altre categorie, quali la non discriminazione, la libertà di associazione e i salari, sono migliorate. 

Apple ha constatato che meno di un quarto dei suoi fornitori ha contravvenuto agli standard fissati per il rispetto del lavoro e dei diritti umani. Secondo i dati di Cupertino, nel 92% delle settimane lavorate da un milione di dipendenti sparsi nella catena di fornitori è stato rispettato il criterio di un massimo di 60 ore di lavoro a settimana e di un giorno di riposo. Si tratta di un importante progresso rispetto all’anno precedente, quando solo nel 38% dei casi i requisiti minimi erano stati rispettati. «Non consentiamo ai fornitori di agire in modo non etico o di minacciare i diritti dei lavoratori, anche se le leggi locali consentono tali pratiche - afferma Apple -. Stiamo lavorando per mettere fine alle eccessive ore di lavoro, per proibire pratiche di assunzione non etiche e prevenire l’assunzione di lavoro minorile».  


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Ustica, Stato condannato a risarcire vittime. "Congruamente motivata la tesi del missile".



Nessuna esplosione interna al Dc-9 Itavia con 81 persone a bordo: la Cassazione conferma che il controllo dei radar sui cieli italiani non era adeguato e conferma quanto stabilito anche dalla Corte di Appello di Palermo a fondamento delle prime richieste risarcitorie presentate dai familiari di tre vittime.

ROMA - La strage di Ustica avvenne a causa di un missile e non di una esplosione interna al Dc-9 Itavia con 81 persone a bordo, e lo Stato deve risarcire i familiari delle vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. Lo sottolinea la Cassazione in sede civile nella prima sentenza definitiva di condanna al risarcimento. E' la prima verità su Ustica dopo il niente di fatto dei processi penali.

E' "abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile" accolta dalla Corte di Appello di Palermo a fondamento delle prime richieste risarcitorie contro lo Stato presentate dai familiari di tre vittime della strage di Ustica, scrive la Cassazione civile confermando che il controllo dei radar sui cieli italiani non era adeguato.

Il Dc-9 I-Tigi Itavia, in volo da Bologna a Palermo con il nominativo radio IH870, scomparve dagli schermi del radar del centro di controllo aereo di Roma alle 20,59 e 45 secondi del 27 giugno 1980. L'aereo era precipitato nel mar Tirreno, in acque internazionali, tra le isole di Ponza e Ustica. All'alba del 28 giugno vennero trovati i primi corpi delle 81 vittime (77 passeggeri, tra cui 11 bambini, e quattro membri dell'equipaggio).

Il volo IH870 era partito dall' aeroporto 'Guglielmo Marconi' di Borgo Panigale in ritardo, alle 20,08 anziché alle previste 18,30 di quel venerdì sera, ed era atteso allo scalo siciliano di Punta Raisi alle 21,13. Alle 20,56 il comandante Domenico Gatti aveva comunicato il suo prossimo arrivo parlando con "Roma Controllo". Il volo procedeva regolarmente a una quota di circa 7.500 metri senza irregolarità segnalate dal pilota. L'aereo, oltre che di Ciampino (Roma), era nel raggio d'azione di due radar della difesa aerea: Licola (vicino Napoli) e Marsala.

Alle 21,21 il centro di Marsala avvertì del mancato arrivo a Palermo dell'aereo il centro operazioni della Difesa aerea di Martinafranca. Un minuto dopo il Rescue Coordination Centre di Martinafranca diede avvio alle operazioni di soccorso, allertando i vari centri dell'aeronautica, della marina militare e delle forze Usa.
Alle 21,55 decollarono i primi elicotteri per le ricerche. Furono anche dirottati, nella probabile zona di caduta, navi passeggeri e pescherecci. Alle 7,05 del 28 giugno vennero avvistati i resti del DC-9. Le operazioni di ricerca proseguirono fino al 30 giugno, vennero recuperati i corpi di 39 degli 81 passeggeri, il cono di coda dell'aereo, vari relitti e alcuni bagagli delle vittime.

"Non si può che essere soddisfatti per la decisione della Cassazione di confermare l'obbligo dello Stato a risarcire i parenti delle vittime di Ustica, ma adesso lo Stato deve trovare un po' di dignità e avere il coraggio di trarre le conseguenze da tutto questo: chiedere anche ad altri paesi, coinvolti nella strage, di dire la verità. È qualcosa che ci è dovuto, molto prima dei risarcimenti", ha detto Daria Bonfietti, presidente dell'Associazione parenti delle vittime strage di Ustica.

La stessa richiesta è anche del giornalista Giampiero Marrazzo, direttore dell'Avanti!: "La sentenza definitiva della Cassazione coincide perfettamente con la tesi affermata dal Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, nell'inchiesta da me condotta e nel procedimento portato avanti dall'avvocato Daniele Osnato, legale dei familiari delle vittime di Ustica", ha detto Marrazzo, autore insieme al collega Gianluca Cerasola del film inchiesta dal titolo "Sopra e sotto il tavolo", con le interviste esclusive ai presidenti Cossiga e Andreotti. "Nel nostro lavoro giornalistico - ha continuato - abbiamo sempre sostenuto che, secondo quanto ci riferì Cossiga, solo un missile potesse aver colpito l'aereo nei cieli di Ustica, e che nessuna altra ipotesi potesse essere reale. Pertanto - ha concluso il direttore dell'Avanti! - sono felice che vi sia, una volta per tutte, una sentenza che affermi le responsabilità di chi allora doveva controllare la sicurezza dei cieli italiani. Un ultimo passo sarà comprendere da chi sia stato sparato il missile". 
 

http://www.repubblica.it/cronaca/2013/01/28/news/ustica_stato_condannato_a_risarcire_vittime-51464446/

Pignorata la Missione Speranza e Carità di Biagio Conte.


Pignorata la Missione Speranza e Carità di Biagio Conte. Insomma, anche i poveri debbono pagare. E mentre l’amministrazione comunale di Leoluca Orlando se la tocca con il ‘mignolo’ (colpa della precedente amministrazione comunale di Diego Cammarata, fa sapere l’assessore al Bilancio del Comune di Palermo, Luciano Abbonato), non sfugge agli occhi degli osservatori che lo spirito dei tempi arrivato in Italia con il Governo Monti, alias, “Tasse per tutti”, ha ormai travolto Palermo.
Pignorare i quattro beni di una Missione che si occupa dei poveri e dei diseredati, al di là di chi oggi gioca a scarica barile
 (è noto già da qualche mese a tutti, al Governo regionale, al Comune di Palermo e a tutte le altre ‘autorità’ che la Missione è in difficoltà con le bollette), è solo la dimostrazione della follia in cui è piombato il nostro Paese da quando Palazzo Chigi è finito nelle mani della Massoneria finanziaria europea.
La verità è che per pagare la permanenza dell’Italia nel sistema truffaldino e demenziale dell’euro – dove si ‘costruisce’ la ‘Grande Europa’ giocando a fotti-compagno: Germania docet – i soldi non bastano più. Infatti, oltre alle nuove tasse inventate dal Governo Monti, dall’Imu in poi, non c’è famiglia italiana che non abbia ricevuto cartelle esattoriali.
Così quando un disgraziato non ha i soldi per pagare – o perché non fa parte della Massoneria finanziaria europea come Monti, o perché non è genero dell’onorevole Casini e quindi non può essere eletto in Parlamento grazie al Porcellum e mettersi in tasca 15 mila euro al mese – ecco che subisce il pignoramento dei propri beni.
Proprio quello che è successo in questi giorni alla Missione di Biagio Conte. Con l’attuale amministrazione comunale di Palermo che si dichiara “del tutto estranea” al pignoramento. “Poiché il pignoramento – leggiamo nella nota del Comune – è stato richiesto dalla Serit per una cartella esattoriale di molti anni fa.
“Quella cartella esattoriale – dice l’assessore comunale al Bilancio, Luciano Abbonato – è stata emessa dalla Serit molti anni fa, in base al regolamento sulla Tarsu voluto dall’amministrazione Cammarata ed è già diventata esecutiva prima del nostro insediamento. Il Sindaco Orlando, anche durante l’ultima relazione al Consiglio Comunale, ha ricordato che è nostra intenzione modificare il Regolamento sulla fiscalità comunale in modo da introdurre forme premiali a sostegno di chi svolge attività sociali e di chi sostiene lo sviluppo economico e occupazionale”.
“In questi mesi – ha detto il Sindaco Leoluca Orlando – abbiamo avviato un ottimo dialogo con la Missione di Biagio Conte con cui abbiamo iniziato una collaborazione e la cui attività è sostenuta anche economicamente”.

La “Cupola” parlamentare antimafia 2013. - Giorgio Bongiovanni


carboni pisanu
“L’eventuale terza Repubblica che dovesse derivare dal nuovo appuntamento elettorale avrà un vizio genetico se la classe dirigente, come purtroppo avvenuto fino ai più alti vertici istituzionali, continuerà a dimostrarsi incapace o, peggio ancora, dolosamente omissiva nell’accertare ogni piega della stagione più sanguinosa della vita repubblicana”. Il passaggio finale dell’intervento del senatore Giuseppe Lumia nelle repliche alla relazione del presidente della Commissione parlamentare antimafia, Giuseppe Pisanu, relativa all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia è alquanto esplicativo.
Da quando è nata la prima Commissione parlamentare antimafia nel 1962 la metodologia della stessa ha costantemente ruotato attorno a vere e proprie assoluzioni di quei politici presuntamente o dichiaratamente collusi con la mafia di cui si è occupata. 
Le “eccezioni” di uomini come Pio La Torre, Gerardo Chiaramonte, Cesare Terranova e pochissimi altri hanno rappresentato “l’anomalia” all’interno di questa istituzione. 
Così come la Commissione diretta da Luciano Violante il quale, prima di convertirsi al più becero “garantismo” (dopo aver “recuperato” la memoria in merito alla sua conoscenza relativa ai contatti tra Ciancimino e il Ros nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa), ha il merito di aver intrapreso un lavoro importante sul versante mafia-politica. Stesso discorso per la breve reggenza di Giuseppe Lumia che stava puntando ai livelli più alti delle collusioni mafiose prima di essere interrotto dal cambio di governo. 
Così come per Francesco Forgione sul quale però pesa ancora la scelta di essersi opposto alla proposta di Orazio Licandro (Pdci) e Angela Napoli (An) di vietare l’accesso alla Commissione per i condannati e gli imputati di reati di mafia e contro la Pubblica Amministrazione. Col risultato che per la prima volta nella storia erano entrati a far parte della Commissione parlamentare antimafia due condannati per corruzione (Paolo Cirino Pomicino e Alfredo Vito). 

Se per i magistrati di Palermo dietro la trattativa c’è stato un mandante politico, per Pisanu non è assolutamente così. Il presidente della Commissione che ha attraversato i governi Berlusconi-Monti – amico di Flavio Carboni (il faccendiere amico e socio di Pippo Calò) e frequentatore di membri della P2 – ha parlato esclusivamente di “una tacita e parziale intesa”. “Possiamo dire – ha specificato il presidente dell’Antimafia nella sua bozza di relazione finale – che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro, quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano”. 
Di fronte alla totale incongruenza di simili affermazioni è proprio uno dei più importanti protagonisti di quelle vicende a rispondergli: Mario Mori. “Pazzo se avessi trattato senza appoggi politici” è stata la laconica replica dell’ex comandante del Ros che a cavallo delle stragi di Capaci e Via D’Amelio aveva incontrato Vito Ciancimino per stabilire un contatto con Cosa Nostra.  
La mancata audizione del generale Mori è solo la punta dell’iceberg di tutto quello che non ha fatto la Commissione per fare chiarezza sulla trattativa Stato-mafia. Per non parlare di un mancato confronto tra Nicola Mancino e Claudio Martelli. La Commissione parlamentare antimafia avrebbe ugualmente potuto sentire Gaspare Spatuzza per approfondire la questione del depistaggio sulla strage di via D’Amelio messo in atto dal falso pentito Vincenzo Scarantino “gestito” da apparati istituzionali. Allo stesso modo Pisanu avrebbe potuto chiamare i 3 poliziotti agli ordini di Arnaldo La Barbera (per un periodo soldo dei Servizi con il nome in codice di “Rutilius) per fare luce sulla “collaborazione” del picciotto della Guadagna. 
Niente di tutto ciò è stato fatto. Nemmeno Bruno Contrada è stato chiamato. All’ex numero 3 del Sisde la Commissione avrebbe potuto chiedere di raccontare la sua verità così da comprendere meglio quale “Stato” aveva servito e in virtù di quale “ragione di Stato” aveva eseguito determinati ordini. Pisanu ha preferito acquisire documenti dei Servizi Segreti che per altro ha definito “disomogenei”. Ma perché allora non ha voluto ascoltare i vertici dei Servizi Segreti dell’epoca? Solo così avrebbe potuto contestare quelle che ha ritenuto essere disomogeneità. Le tesi negazioniste ed autoassolutorie riportate nella relazione Pisanu sono lo specchio di una politica collusa che non intende minimamente fare verità e giustizia sul patto scellerato tra mafia e Stato.

Siamo di fronte a mezze verità che sortiscono l’effetto devastante di depistare ulteriormente la ricerca su coloro che hanno trattato con la mafia all’interno di un criminale do-ut-des. Ancora una volta dagli alti palazzi viene calata una cappa sulla possibile individuazione di quegli esponenti dello Stato-mafia che insieme a Cosa Nostra - sul sangue di tutti i martiri che il nostro Paese annovera - hanno fondato le basi della seconda Repubblica. Sulla quale non potrà mai poggiarsi una terza se non si arriverà ad una piena e incondizionata verità.

domenica 27 gennaio 2013

Giovanni Palatucci.

Giovanni Palatucci

Giovanni Palatucci (Montella31 maggio 1909 – Dachau10 febbraio 1945) è stato un poliziotto italianocommissario di pubblica sicurezza. È ricordato per aver salvato dalla deportazione migliaia di ebrei durante la Seconda guerra mondiale; fu per questo deportato egli stesso in un campo di concentramento, dove morì, e per il suo sacrificio è Medaglia d'oro al merito civileGiusto tra le nazioniper lo Yad Vashem (12 settembre 1990) e Servo di Dio per la Chiesa cattolica.

Nato a Montella, nella provincia di Avellino, da Felice e Angelina Molinari, era nipote di Giuseppe Maria PalatucciVescovo di Campagna. Compì gli studi ginnasiali presso il "Ginnasio Pascucci" di Pietradefusi ed il Liceo nella non lontana Benevento. Dopo la maturità, svolge nel 1930 il servizio militare a Moncalieri come allievo ufficiale di complemento, iscritto al Partito Nazionale Fascista, nel1932 consegue la laurea in giurisprudenza a Torino. Nel 1936 giura come volontario vice commissario di pubblica sicurezza. Nel 1937 viene trasferito alla questura di Fiume come responsabile dell'ufficio stranieri e poi come commissario e questore reggente.
Nella sua posizione ha modo di conoscere l'impatto che le leggi razziali hanno avuto sulla popolazione ebraica. In quel contesto, cerca di fare quello che la sua posizione gli permette e in una lettera ai genitori scrive: «Ho la possibilità di fare un po' di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare».
Potendo aiutare gli ebrei a salvarsi dalle persecuzioni, si rifiutò di lasciare il proprio posto anche di fronte a quella che sarebbe stata una promozione a Caserta. Nel marzo del 1939 un primo contingente di 800 ebrei, che sarebbe dovuto essere consegnato alla Gestapo, venne fatto rifugiare nel vescovado di Abbazia grazie alla tempestività con cui Palatucci avvisò il gruppo del pericolo che lo minacciava.
Un calcolo approssimativo ha stimato in circa 5.000 il numero di persone che Giovanni Palatucci aiutò a salvarsi durante tutta la sua permanenza a Fiume.
Nel novembre 1943 Fiume, pur facente parte della Repubblica Sociale Italiana, di fatto entrò a far parte della cosiddetta Adriatisches Küstenland, ossia il "Territorio d'operazioni del litorale Adriatico", controllato direttamente dai nazisti per ragioni d'importanza strategica ed il comando militare della città passò al capitano delle SS Hoepener. Pur avvisato del pericolo che correva personalmente, decise di rimanere al suo posto, far scomparire gli archivi contenenti informazioni sugli ebrei fiumani e salvare più persone possibili.
Il Console Svizzero di Trieste, un suo caro amico, gli offrì un passaggio sicuro verso la Svizzera, offerta che Palatucci accettò ma inviò al suo posto la sua giovane compagna ebrea.[1]
Contattati i partigiani italiani, cercò di coordinare una soluzione politica post-bellica per il territorio di confine fiumano, proponendo l'istituzione di uno "Stato Libero di Fiume", per far sì che questo territorio, che correva il rischio di dover venir ceduto dall'Italia alla Jugoslavia, mantenesse una sua indipendenza. Le spie tedesche però diedero informazioni sulla sua attività. Per contrastare ulteriormente l'azione dell'amministrazione nazista, vietò il rilascio di certificati alle autorità naziste se non su esplicita autorizzazione, così da poter aver notizia anticipata dei rastrellamenti e poterne dar avviso. Inoltre inviava relazioni ufficiali al governo della Repubblica Sociale Italiana, dalla quale formalmente Fiume dipendeva, pur essendo di fatto occupata e controllata direttamente dalle truppe naziste, per segnalare le continue vessazioni, le limitazioni nello svolgere le proprie attività ed il disarmo a cui i poliziotti italiani della questura di Fiume erano stati assoggettati dai tedeschi.
Il 13 settembre 1944 Palatucci viene arrestato da Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, e tradotto nel carcere di Trieste. Il 22 ottobre viene trasferito nel campo di lavoro forzato di Dachau dove morì pochi giorni prima della Liberazione, a soli 36 anni.


Calogero Marrone.



Calogero Marrone (Favara12 maggio 1889 – Dachau15 febbraio 1945) è stato un funzionario italiano.
Fu Capo dell'Ufficio Anagrafe del Comune di Varese, durante il periodo fascista e l'occupazione nazista, rilasciò centinaia di documenti di identità falsi a ebrei e anti-fascisti permettendo loro di salvarsi dalle persecuzioni. Scoperto a causa di una segnalazione anonima venne imprigionato e morì nel campo di concentramento di Dachau. Per quanto ha fatto è stato insignito del titolo di "Giusto tra le Nazioni".
Dopo aver combattuto nella Prima Guerra Mondiale con il grado si sergente trovò posto, in quanto reduce, presso il suo comune di nascita come segretario della Sezione Combattenti e Reduci. All'avvento del fascismo rifiutò di iscriversi al Partito Nazionale Fascista e per questo scontò alcuni mesi di prigione e si attirò le ire dei notabili del paese.
Nel 1931 vinse un concorso come applicato comunale presso il comune di Varese, quindi, accompagnato dalla moglie Giuseppina e dai quattro figli, Filippina, Salvatore, Dina e Domenico, abbandonò il proprio paese. A Varese, anche grazie alle sue doti umane e professionali fece rapidamente carriera e divenne Capo dell'Ufficio Anagrafe che contava, allora, 12 impiegati. Da questa posizione di rilievo, durante l'occupazione nazifascista, poté rilasciare centinaia di documenti falsi ad ebrei e anti-fascisti che, in questo modo, sfuggirono alla caccia che veniva loro data.
Nel 1944, tuttavia, un delatore segnalò la sua attività alle autorità che lo fecero arrestare il 7 gennaio 1944 con l'accusa di collaborazionismo con laResistenza, favoreggiamento nella fuga di ebrei, violazione dei doveri d'ufficio, intelligenza con il Comitato di Liberazione Nazionale. Tutte accuse la cui pena era la fucilazione. Calogero Marrone era già stato sospeso cautelativamente dal servizio il 1º gennaio 1944 e il 4 gennaio dello stesso anno era stato avvisato da don Luigi Locatelli, canonico della Basilica di San Vittore, e in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale, che le SS erano oramai prossime a procedere al suo arresto.
Nonostante questo Calogero Marrone non cercò di fuggire sia perché aveva dato la sua parola al Podestà Domenico Castelletti che avrebbe collaborato alle indagini che lo riguardavano sia, soprattutto, per proteggere da ritorsioni la sua famiglia. Detenuto nel carcere giudiziario di Miogni venne trasferito nelCampo di concentramento di Dachau dove morì il 15 febbraio 1945.