martedì 19 maggio 2015

Sismi: parlano i dossierati da Pompa e Pollari. Tutti contro il segreto di Stato. Stefano Iannaccone e Lea Vendramel

Sismi: parlano i dossierati da Pompa e Pollari. Tutti contro il segreto di Stato

C'è chi ha preferito non costituirsi parte civile. C'è chi parla di danni subiti. E Chi tira in ballo la Cia. Da Caselli a Giulietto Chiesa, da Di Pietro a Furio Colombo, da Salvi a Veltri, grande malcontento per la decisione del governo Renzi.

C’è chi parla di danni subiti, come l’ex procuratore Antonio Ingroia che denuncia «una massiccia campagna di discredito nei suoi confronti». C’è chi ha preferito non costituirsi parte civile  al processo perché convinto che «la questione dovesse essere spogliata di qualunque profilo personale soggettivo», come l’altro magistrato Gian Carlo Caselli. C’è ancora chi, come il giornalista e scrittore, Giulietto Chiesa, vede la mano dei servizi segreti americani. E ancora chi, come Andrea Cinquegrani, direttore della”Voce della Campania”, denuncia una serie di gravi ripercussioni sulla propria attività professionale. Tutti però concordano su un punto: «E’ assurdo mettere il segreto di Stato sulla vicenda»Ilfattoquotidiano.it ha contattato alcuni dei magistrati, politici e giornalisti finiti nel mirino della struttura organizzata a Roma, in via Nazionale 230, tra il 2001 e il 2006, dall’ex capo del Sismi Niccolò Pollari e dall’agente Pio Pompa.Personaggi oggetto di “attenzioni” e dossieraggio perché più o meno considerati avversari dell’allora premier Silvio Berlusconi. Una vicenda su cui pesa come un macigno la posizione assunta dai governi che si sono succeduti in questi anni, accomunati dalla scelta di apporre il segreto di Stato. Dal governo Prodi a quello attuale di Matteo Renzi, che lo ha riproposto manifestando l’intenzione di sollevare nuovamente di fronte alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzione, come ha scritto il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza di Palazzo Chigi, Giampiero Massolo, allo stesso Pollari chiamato a deporre sull’affaire dai magistrati di Perugia. Ebbene, cosa dicono i dossierati su quello che sta succedendo? Come giudicano la riproposizione del segreto di Stato? Come hanno vissuto l’intrusione nella loro vita professionale e privata? Che danni ne hanno ricevuto?
MARIO ALMERIGHI, ex magistrato: «Credo che l’ampiezza del segreto di Stato sia inversamente proporzionale ai livelli di democrazia di un Paese. Quando venni a conoscenza della vicenda, tenuto conto dei processi che in quel periodo stavo trattando e di quelli che avevo trattato in passato, la cosa non mi sorprese affatto. Mi sorprese l’esiguo numero dei magistrati romani inseriti nell’elenco. L’unica cosa che mi preoccupò alquanto fu che nel documento di Pompa si diceva anche che nei confronti delle persone “attenzionate” potevano essere poste in essere anche “azioni violente”. La mia preoccupazione aumentò quando, in seguito al mio trasferimento a Civitavecchia come presidente di quel tribunale, mi venne tolta la scorta. Ma, visto che oggi posso tranquillamente rispondere a queste domande, devo dedurre che quella decisione fu giusta».
GIANCARLO CASELLI, ex magistrato: «Io non riesco a capire che razza di segreto di Stato possa esserci quando si tratta di un’attività di spionaggio nei confronti di servitori dello Stato che facevano soltanto il loro mestiere e il loro dovere, a volte, come nel mio caso e di tanti altri magistrati “spiati”, anche rischiando la pelle. Il segreto di Stato su questi argomenti è un ossimoro. Premesso che non discuto le decisioni diverse dalla mia, di non costituirmi parte civile, credo che la questione dovesse essere spogliata di qualunque profilo personale soggettivo. Secondo me, infatti, era ed è una grave questione di carattere pubblico-istituzionale, quindi ho ritenuto opportuno lasciare soltanto alle sedi istituzionalmente competenti il compito di affrontare questo problema che riguarda soprattutto il funzionamento di strutture pubbliche».
GIULIETTO CHIESA, giornalista e politico: «Il segreto di Stato è giustificabile quando riguarda gli interessi nazionali dell’Italia. Ma non è questo il caso. Ci sono dei sacrari che sono al di fuori di ogni controllo democratico e legale. Questi sacrari riguardano il comportamento dei servizi segreti italiani, che sono una dépendance dei servizi segreti americani. Il potere di interdizione degli Stati Uniti è più forte di qualsiasi legge italiana».
ANDREA CINQUEGRANI, giornalista: «Il segreto di Stato si pone quando ci sono delle emergenze nazionali e internazionali. Invocarlo per un’attività di dossieraggio che cosa ha a che vedere con la sicurezza nazionale? Questa follia si è perpetuata in modo bipartisan in tutti i governi. Tra l’altro il governo Renzi ha parlato di desecretare tutti i documenti e di trasparenza, allora perché inciampare su questa vicenda? Siamo stati spiati dal 2001 al 2006. In quegli anni ero già direttore de “La Voce della Campania”, facevamo un giornale autofinanziato, è plausibile pensare che essere stati attenzionati in quel modo dai servizi segreti, essere stati definiti una sorta di “al Qaeda dell’informazione”, una cupola di controinformazione anti-Berlusconi, possa aver delegittimato la nostra testata, creando effetti negativi sugli introiti pubblicitari, ledendo la nostra immagine e provocandoci danni morali ed esistenziali».
FURIO COLOMBO, giornalista e politico: «Il segreto di Stato su questa vicenda è una decisione grave e sbagliata. I fatti risalgono a quando ero direttore de “l’Unità”. Anche se in quel momento non potevano esserci per me delle ripercussioni professionali, un dossieraggio di questo genere determina comunque un alone infido intorno a una persona. Non ho avuto modo di verificare se ci sono stati degli effetti negativi, perché non cercavo lavoro, non avevo bisogno di referenze e dopo quel dossieraggio sono stato eletto anche senatore. Ipotizzo comunque di aver subito un danno anche grave. Ognuno di noi può dire quante porte gli si sono aperte nella vita, ma nessuno può sapere quante siano quelle rimaste chiuse».
ANTONIO DI PIETRO, politico: «Roba da pazzi, questo non è segreto di Stato. Ho il cuore pieno di amarezza».
ANTONIO INGROIA, ex magistrato: «È grave che oggi lo Stato preferisca ancora la copertura, appellandosi al segreto di Stato e parlando di possibile conflitto di attribuzioni. Mentirei se dicessi che sono sorpreso. L’Italia, infatti, è un Paese in cui non c’è alcuna voglia di scoperchiare certe pentole. Fa poi riflettere che questo comportamento sia tenuto da una figura come Matteo Renzi che si presenta come il nuovo e il rottamatore.  Io sono stato spiato durante la mia attività di pubblico ministero. È una vicenda per la quale sono indignato come persona e amareggiato come uomo dello Stato. Mi ha creato più danni di quanto sembri, visto che c’è stata una campagna massiccia di discredito nei miei confronti».
LIBERO MANCUSO, ex magistrato: «Trovo assurdo che il premier Renzi, dopo essersi impegnato a togliere il segreto di Stato da tutti gli atti secretati, non sembra intenzionato a farlo per questa vicenda paradossale, intimidatoria e molto oscura che vede coinvolti un organo di controspionaggio e una serie di magistrati che non hanno fatto altro che il loro dovere. Io ho avuto circa dieci inchieste disciplinari, da cui comunque sono sempre uscito indenne».
PAOLO MANCUSO, magistrato: «Il permanere del segreto di Stato è disarmante, una situazione che non riesco a comprendere. Mi sono sentito molto turbato da questa vicenda che non è rimasta isolata. Ho presentato, infatti, denunce per questa situazione e per altre avvenute successivamente sempre ad opera, secondo me, di personaggi appartenenti all’area dei servizi segreti, da cui sono stato attenzionato e monitorato».
CESARE SALVI, politico: «È strano e inquietante che su questa vicenda ci sia il segreto di Stato. Non si capisce il motivo, è evidente che c’è qualcosa che non sappiamo. Quando sono venuto a sapere di essere tra le persone oggetto di queste attività, mi sono molto infastidito. Anche se non ho niente da nascondere, ho sentito lesi molti miei diritti».
ELIO VELTRI, giornalista e politico: «Il segreto di Stato su una vicenda che ha coinvolto persone spiate solo per le loro idee politiche è inspiegabile e inaccettabile. Un fatto di una gravità inaudita, come gravissima è la minaccia di sollevare il conflitto di attribuzioni».
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/18/sismi-parlano-dossierati-da-pompa-e-pollari-tutti-contro-il-segreto-di-stato/1693371/

"Una villa in cambio di fondi Ue": indagato l'ex presidente dell'Ars Cascio.

"Una villa in cambio di fondi Ue": indagato l'ex presidente dell'Ars Cascio

Autori dell'omaggio sarebbero stati gli imprenditori Giuseppe e Gianluigi Lapis, padre e figlio, titolari della ditta che costruì il Golf Club Le Madonie. Indagati anche gli ex dirigenti Agostino Porretto e Aldo Greco

L'ex vicepresidente della Regione Sicilia, Francesco Cascio, che fu anche presidente dell'Assemblea regionale siciliana, è indagato per corruzione dalla Procura di Palermo: avrebbe consentito a una società titolare di un resort e di un impianto sportivo adibito a campi da golf di ottenere fondi europei; in cambio l'esponente politico oggi Ncd avrebbe ricevuto in regalo una villetta a Collesano (Palermo). Autori dell'"omaggio" sarebbero stati gli imprenditori Giuseppe e Gianluigi Lapis, padre e figlio, titolari della Ecotecna srl (oggi fallita), che costruì il Golf Club Le Madonie, con sede nello stesso paese a cinquanta chilometri dal capoluogo di regione, e che ottennero un finanziamento di oltre 6 milioni. Assieme ai Lapis e a Cascio, indagato nella qualità di ex assessore regionale al Turismo del governo Cuffaro, in carica dal 2001 al 2004, sono coinvolti nell'indagine anche due dirigenti regionali, Agostino Porretto e Aldo Greco.

Immediata la replica dell'attuale deputato del partito di Angelino Alfano: "La villetta - spiega - sorge nel territorio di Collesano, ma da tutt'altra parte rispetto agli impianti da golf. E' di appena ottanta metri quadrati, l'ho pagata fino all'ultimo millesimo e ho pure ritrovato le fatture della ditta e le matrici degli assegni". Ai cinque indagati sono stati notificati gli avvisi di garanzia: saranno sentiti nei prossimi giorni. Nel mirino della Guardia di Finanza ci sono la delibera 149 del 20-21 marzo 2001, con cui la giunta Cuffaro approvò il documento di attuazione del Programma operativo regionale 2000-2006, consentendo alla Ecotecna di ampliarsi, e la circolare 4 del 26 settembre 2001, che integrò e modificò la disciplina dei finanziamenti dei programmi.

Giuseppe Lapis, amministratore di fatto, e il figlio Gianluigi, rappresentante legale dell'azienda, avrebbero ingannato la Regione, dimostrando falsamente di avere le carte in regola per ottenere un finanziamento di 6.152.419,93 euro per ampliare il "Borgo delle vacanze e del tempo libero", nell'ambito di un programma da 22 milioni 621 mila euro. Il finanziamento reale fu di 6.112.479,13. Per questo i due imprenditori rispondono pure di truffa aggravata ai danni della Regione. I Lapis ora rischiano di essere anche indagati per la bancarotta della Ecotecna.


http://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/05/19/news/_una_villa_in_cambio_di_fondi_ue_indagato_l_ex_presidente_dell_ars_cascio-114726335/

domenica 17 maggio 2015

STIGLITZ: ANCHE CON OBAMA AUMENTA LA DISUGUAGLIANZA. - Jonathan Fisher

Il premio Nobel Joseph Stiglitz, intervistato da Business Insider, parla del grave problema della disuguaglianza sociale negli Stati Uniti. La crescita della disuguaglianza è progredita fino a livelli esorbitanti durante gli ultimi tre decenni, e nemmeno Obama è servito a contrastarla, anzi: la sua gestione della crisi ha fatto sì che i vantaggi della ripresa andassero quasi tutti ai più ricchi. La crescita della disuguaglianza non è l’effetto di un presunto “normale funzionamento del mercato”, ma di scelte politiche ben precise, volte allo sfruttamento di una classe sociale a vantaggio di un’altra. 
Intervista a Joseph Stiglitz, di Jonathan Fisher, 6 maggio 2015.
Il premio Nobel, economista e professore Joseph Stiglitz la scorsa settimana si è seduto con noi a parlare dell’allarmante condizione della disuguaglianza dei redditi negli USA, poco prima di un discorso che aveva in programma presso il Commonwealth Club a Palo Alto.
Nel corso degli ultimi tre decenni la percentuale di ricchezza posseduta dall’uno percento più ricco della popolazione è cresciuto dal 7 fino a un esorbitante 22 percento.
Dal 1980 ad oggi la percentuale di reddito complessivo ricevuto dal 99 percento dei lavoratori americano è diminuito del 15 percento. Per di più, il compenso dati agli alti dirigenti delle maggiori compagnie è nell’ordine di 300 volte superiore a quello del lavoratore medio. Quaranta anni fa, gli stessi dirigenti ricevevano uno stipendio che era solo 40 volte superiore a quello del lavoratore americano medio.
Stiglitz ha parlato del preoccupante andamento della disuguaglianza dei redditi negli USA e ci ha riferito ciò che pensa riguardo i temi fondamentali dell’economia:
- Sul momento in cui le crepe della disuguaglianza hanno iniziato a farsi evidenti: “Riconduco la disuguaglianza a un ben preciso insieme di decisioni che furono prese quando si decise di abbassare la pressione fiscale dal 91 percento ad un livello molto basso sui redditi più elevati, abbiamo tolto delle regolamentazioni. Il risultato non è stata un’economia più dinamica, ma una società con più disuguaglianze. Abbiamo provato l’esperimento del ‘trickle-down’ [la teoria secondo la quale i benefici economici dati ai più ricchi aiuterebbero indirettamente gli strati inferiori della società, tramite un metaforico ‘gocciolamento’, NdT]. Dopo un terzo di secolo, possiamo dire in via abbastanza definitiva che è stato un fallimento.
- Sulla disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti di oggi: “La disuguaglianza che vediamo non è solo il risultato del naturale funzionamento del mercato. C’è anche il potere monopolistico, l’indebolimento dei sindacati, c’è un amalgama del modo in cui strutturiamo la società, strutturiamo l’economia, paghiamo i massimi dirigenti. C’è anche lo sfruttamento, che abbiamo visto così chiaramente negli anni prima della crisi — il prestito predatorio — un gruppo se ne approfitta di un altro. Purtroppo, ci sono le persone al vertice che sfruttano le persone in posizione inferiore.
- Sulla crescita della robotica e dell’automazione, e dell’effetto che può avere sulla disuguaglianza: “Negli ultimi 40 anni la produttività è raddoppiata, mentre i salari sono stagnati e poi caduti. Perciò la preoccupazione è che queste cose possano aumentare ancora la produttività ma anche portare a più disuguaglianze e bassi salari.
- Sulla questione dell’istruzione via internet e se sostituirà il lavoro di insegnanti e professori: “Penso che il modello che vedremo in futuro prevederà senz’altro che le migliori lezioni del mondo siano disponibili in rete, e sarà poi supportato da molte persone che in classe offriranno interazioni più intensive, e la motivazione. Per quel che mi riguarda, spero che ciò migliori complessivamente la qualità, e non sono preoccupato che possa implicare meno posti per gli insegnanti.
- Sul blocco delle rette per l’istruzione superiore: “Penso sia un punto assolutamente essenziale. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale eravamo un paese molto più povero di adesso e avevamo un rapporto debito pubblico/PIL al 130 percento. Allora ci dicevamo ‘Chiunque abbia combattuto la guerra deve poter avere un’istruzione superiore gratuita’. Ce lo siamo potuto permettere allora. Ce lo possiamo permettere anche adesso.
- Sul presidente Barack Obama: “Penso ci siano stati momenti in cui ha detto la cosa giusta, come quando ha detto che avrebbe dedicato gli ultimi tre anni del suo mandato per creare una società più equa… Ciò che mi preoccupa è che — non per dire che lui ne sia l’architetto — ma di fatto sta portando avanti delle politiche che, secondo me, sono a favore della disuguaglianza. ”
Quanto segue è una trascrizione della nostra conversazione con il premio Nobel e professore Joseph Stiglitz. Ci sono delle modifiche per ragioni di chiarezza e brevità.

BUSINESS INSIDER: Per iniziare, quanto è grave la disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti di oggi?
JOSEPH STIGLITZ: Beh, è piuttosto grave. Il fatto che sia ampiamente maggiore che in altri grandi paesi ci dice qualcosa. E ha alcune caratteristiche che sono tipiche degli Stati Uniti, e che sono ben esemplificate dalle proteste a Ferguson e a Baltimora. C’è un elemento razziale. E questo elemento razziale mostra come la disuguaglianza non possa essere semplicemente descritta in termini di forze di mercato. L’oppressione che stiamo vedendo e abbiamo visto tante volte sugli afroamericani è il riflesso di una forza bruta di un tipo ben preciso. In un senso più sottile, quel tipo di forza — il potere — è esemplificata dal mercato. La disuguaglianza che vediamo non è solo il risultato del naturale funzionamento del mercato. C’è anche il potere monopolistico, l’indebolimento dei sindacati, c’è un amalgama del modo in cui strutturiamo la società, strutturiamo l’economia, paghiamo i massimi dirigenti. C’è anche lo sfruttamento, che abbiamo visto così chiaramente negli anni prima della crisi — il prestito predatorio — un gruppo se ne approfitta di un altro. Purtroppo, ci sono le persone al vertice che sfruttano le persone in posizione inferiore.
BI: Nel suo nuovo libro [“The Great Divide: Unequal Societies and What We Can Do About Them“], Lei dice che l’aumento della disuguaglianza è dovuto a una scelta. Quando a iniziato a vedere le crepe che si aprivano?
JS: Ogni società ha conosciuto la disuguaglianza, e anche noi abbiamo avuto degli episodi in passato in cui c’erano alti livelli di disuguaglianza — nell’Epoca d’Oro alla fine del 19esimo secolo, o nei Ruggenti Anni Venti — l’episodio attuale inizia nel 1980. Nei decenni che hanno seguito la fine della Seconda Guerra Mondiale il paese è cresciuto tutto insieme. Avevamo un livello di disuguaglianza molto più basso, comunque tu lo voglia misurare. E il paese cresceva unito. Riconduco la disuguaglianza a un ben preciso insieme di decisioni che furono prese quando si decise di abbassare la pressione fiscale dal 91 percento ad un livello molto basso sui redditi più elevati, abbiamo tolto delle regolamentazioni. Il risultato non è stata un’economia più dinamica, ma una società con più disuguaglianze. Abbiamo provato l’esperimento del ‘trickle-down’. Dopo un terzo di secolo, possiamo dire in via abbastanza definitiva che è stato un fallimento.
BI: Come possiamo contrastare un aumento così drastico della disuguaglianza dei redditi?
JS: Beh, non c’è la bacchetta magica. E non puoi nemmeno disfare un terzo di secolo o più di politiche sbagliate in una notte. Ma per prima cosa devi riconoscere che il problema esiste. In secondo luogo, devi provare a risolvere alcuni errori. Modificare il livello di dirigenza delle grandi società in un modo che lo limiti, frenare il settore finanziario, ridurre gli abusi del potere di mercato — queste sono alcune cose da fare. Un secondo aspetto importante è che deve esserci una decisa riduzione dei sintomi. Non risolveremo i problemi sottostanti in una notte, ma dobbiamo iniziare ad affrontare le manifestazioni più gravi di un sistema economico sbagliato. Pertanto vanno aumentati i salari minimi, ci dobbiamo assicurare di avere un mercato dei mutui che funzioni per tutti, un sistema di finanziamento dell’istruzione che vada bene per tutti, accesso al lavoro tramite mezzi pubblici, politiche sul congedo familiare e la cura dei figli — c’è un gran numero di cose che possiamo fare da subito e che allevierebbero il problema. E poi, certo, nel lungo termine dobbiamo fare qualcosa sulla trasmissione intergenerazionale dei benefici, specialmente riguardo il sistema dell’istruzione.
BI: Il sistema dell’istruzione, che è sempre più basato sulla trasmissione dei benefici, ha visto i livelli delle rette per l’istruzione superiore esplodere durante gli ultimi anni. Perché non abbiamo messo un freno?
JS: Penso sia un punto assolutamente essenziale. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale eravamo un paese molto più povero di adesso e avevamo un rapporto debito pubblico/PIL al 130 percento. Allora ci dicevamo ‘Chiunque abbia combattuto la guerra deve poter avere un’istruzione superiore gratuita’. Ce lo siamo potuto permettere allora. Ce lo possiamo permettere anche adesso. Tu potrai dire ‘proprio gratuito no’, ma se non tutti sono adatti per studiare a Stanford, tutti dovrebbero però avere accesso alle migliori qualifiche per le quali hanno i requisiti.
BI: Quale candidato (o potenziale candidato) pensi che sia il migliore per l’economia, alle elezioni del 2016?
JS: Per quanto ne so tutti e tre i candidati annunciati dai democratici — Bernie Sanders, Hilary Clinton — e… O’Malley è stato annunciato? Tutti e tre hanno dichiarato che sono molto attenti al problema. E hanno cominciato a scrivere i loro programmi. Bernie Sanders è il più progressista e da tempo si è espresso nel modo più articolato, stabilendo un programma per una maggiore equità. Penso che tutti sperino che ora ci sia più pressione su Hillary perché lo eguagli.
BI: Cosa dice dell’attuale presidente? Come pensa che se la sia cavata con l’economia?
JS: Penso ci siano stati momenti in cui ha detto la cosa giusta, come quando ha detto che avrebbe dedicato gli ultimi tre anni del suo mandato per creare una società più equa. Purtroppo però non ha dato seguito a questo. Se guardo all’intero periodo di otto anni della sua presidenza, una cosa l’ha fatta, e importante: attraverso l’ObamaCare ha esteso l’accesso al sistema sanitario. Non è tanto quanto avrebbe voluto e non è tanto quanto la maggior parte dei progressisti speravano, ma l’ha fatto. Però penso che il modo in cui ha gestito la ripresa — i programmi di salvataggio, per esempio — abbia portato ad una ripresa dove il 91 percento dei guadagni sono andati all’uno percento più ricco. Questo è un fallimento. L’accordo di libero commercio che ora sta portando avanti produrrà maggiore disuguaglianza. Ciò che mi preoccupa è che — non per dire che lui ne sia l’architetto — ma di fatto sta portando avanti delle politiche che, secondo me, sono a favore della disuguaglianza.
BI: Ci sono molti fattori che sembrano contribuire ad un rapido aumento della disuguaglianza in questo paese. Cosa pensa della robotica e dell’automazione?
JS: La cosa sorprendente dell’America è che — è straordinariamente insolito dal punto di vista storico, non ho altri esempi — è che la produttività dei lavoratori e i loro salari non si muovono all’unisono. Negli ultimi 40 anni la produttività è raddoppiata, mentre i salari sono stagnati e poi caduti. Perciò la preoccupazione è che queste cose possano aumentare ancora la produttività ma anche portare a più disuguaglianze e bassi salari.
BI: Molto si è detto sull’aumento degli orari di lavoro degli americani rispetto al calo dei loro salari. Lei è d’accordo ad aumentare i giorni di ferie e di congedo per i lavoratori americani?
JS: Sì, per molti motivi. Proprio ora siamo un un momento di transizione critica riguardo il problema della produttività. Non sappiamo se l’economia riuscirà a creare abbastanza posti di lavoro per tutti. Sembra quasi un’eresia, perché l’idea degli economisti è che l’economia possa sempre creare posti di lavoro, e anche ottimi posti di lavoro. Ma la nostra economia non ci sta riuscendo. E c’è la preoccupazione che le nostre innovazioni tecnologiche non vadano di pari passo con la nostra capacità di gestire l’economia in modo da creare posti di lavoro. Abbiamo già avuto un episodio in cui abbiamo abbassato le ore settimanali da 60 a 40 ore. A questo punto la migliore risposta potrebbe essere, invece che abbassare le ore settimanali, aumentare i giorni di ferie. Dare più tempo ai congedi familiari. Penso che potrebbe essere una parte importante della risposta da dare al problema.
BI: Lei è professore alla Columbia University, e così l’ultima domanda riguarda in un certo senso anche lei. La proporzione tra produttori e consumatori sta calando, e questo è vero specialmente per l’istruzione online. Pensa che l’istruzione online possa sostituire il lavoro tradizionale di insegnanti e professori?
JS: Non sono molto preoccupato per questo, perché l’istruzione formale è data da due parti fondamentali. Una parte è ciò che potresti dire la trasmissione — cioè le lezioni. Ma l’apprendimento attivo prevede sempre anche l’interazione tra insegnanti e studenti, il metodo socratico, e così via. Penso che il modello che vedremo in futuro prevederà senz’altro che le migliori lezioni del mondo siano disponibili in rete, e sarà poi supportato da molte persone che in classe offriranno interazioni più intensive, e la motivazione. Per quel che mi riguarda, spero che ciò migliori complessivamente la qualità, e non sono preoccupato che possa implicare meno posti per gli insegnanti. Aumenterà invece l’accessibilità e la qualità.

DORNBUSCH, LE EURO-FANTASIE: LA MONETA COMUNE COME PANACEA. - Rudiger Dornbusch



Foreign Affairs riporta questo celebre articolo del 1996 di Rudiger Dornbusch, economista della scuola di Chicago, allievo di Mundell. Dornbusch ricostruisce il contraddittorio percorso che stava guidando l’Europa verso l’unione monetaria (percorso in cui tutti falsarono le carte per l’adesione) e con notevole lungimiranza previde molti aspetti di quello che sarebbe successo: dalla BCE che diverrà prolungamento della Bundesbank all’abdicazione di sovranità dei paesi membri, allo scaricarsi delle tensioni macroeconomiche sul mercato del lavoro una volta abolito il meccanismo del cambio nominale .
Sebbene il trattato di Maastricht sia basato su molta dell’ideologia che Dornbusch condivide (si vedano l’elogio della banca centrale indipendente e delle riforme strutturali supply-side), le sue parole conclusive “se mai ci fosse una cattiva idea, l’euro lo è” sono il suggello della causa della crisi che stiamo vivendo.
di Rudiger Dornbusch, 1996
Per quasi 50 anni, l’Europa è stata su un percorso di sempre più ampia e profonda integrazione. Per tutto questo tempo, la Germania si è costruita una reputazione come campione mondiale della moneta forte rispetto alla quale il marco tedesco si erge come suo monumento. La proposta di unione monetaria per creare una moneta comune in Europa unisce questi due filoni: l’Europa ottiene l’integrità monetaria tedesca, e la Germania si fonde con l’Europa.
Il Trattato di Maastricht, concluso nel dicembre 1991, è l’accordo pre-nuziale per questo matrimonio. Tuttavia, sulla strada verso l’unione incombono di gran lunga più dubbi che gioia. Sono ancora in questione i benefici che ne derivano, l’idoneità dei partner, e le relazioni con soggetti esterni. Queste domande sono particolarmente acrimoniose perché le strette scadenze (vedi pag. 112) per la conversione in una valuta comune distruggono le illusioni, così come fa la scarsa prestazione economica dell’Europa. L’Europa ha 18 milioni di disoccupati, e nessuno sa cosa fare con loro. Il Cancelliere tedesco Helmut Kohl, l’industria tedesca, e le banche tedesche concordano tutti che la moneta comune, prevista dall’Unione Monetaria Europea (UEM), è un dovere. I promotori dell'”unione sociale” sono ugualmente ansiosi; vedono l’integrazione come un modo per migliorare un sistema economico che essi considerano avere troppa concorrenza e troppo poca giustizia sociale.
Coloro che mettono in dubbio la spinta verso una moneta comune europea includono i falchi monetari, cioè la maggior parte della popolazione della Germania e la sua banca centrale, la Bundesbank; sono esclusi gli spettatori, come i paesi dell’Europa centrale; e gli spettatori benevoli negli Stati Uniti. I potenziali partner che nella UEM vivono finanziariamente alla giornata – Francia, Italia, Spagna – fanno il tifo per l’unione monetaria. Essi credono ancora che sia una cura miracolosa per la finanza pubblica marcia e generazioni di moneta svalutata, ma stanno anche trasalendo poiché sono pesati per la corsa verso la meta di Maastricht. Nel frattempo, la Gran Bretagna sta cercando la sua anima. Il partito laburista è saggiamente ben disposto verso l’unione monetaria – una strategia sicura e pragmatica con cui fare a pezzi i conservatori.
La realizzazione di una moneta comune viene propagandata come l’evento europeo del secolo anche se la sua reale incidenza è in dubbio. La UEM potrebbe creare un’Europa potente e vigorosa, politicamente ed economicamente coesa e finanziariamente abbastanza forte da far impallidire gli Stati Uniti e il dollaro. O potrebbe rivelarsi un non-evento. Poi di nuovo, i mercati finanziari potrebbero spazzarla via prima ancora che inizi, o i burocrati conta-fagioli potrebbero strangolarla con la rigida applicazione dei test di Maastricht (vedi pag. 112), escludendo così i partner inadatti a consumare l’unione. Lo scenario più probabile è che l’UEM si farà, ma non metterà fine ai problemi valutari europei né risolverà il suo problema di prosperità. Le euro-fantasie immaginano la UEM come una panacea, o almeno un passo fondamentale verso la realizzazione di un’Europa meraviglioso – politicamente, culturalmente, economicamente, socialmente, economicamente. Non trattenete il respiro.
L’Unione Monetaria Europea in prospettiva
Negli ultimi mesi, la probabilità a favore di Unione monetaria europea sono aumentate. Il punto di svolta è stato senza dubbio il successo del governo francese nel respingere l’opposizione dei lavoratori e nel far accettare la maggior parte dei tagli del bilancio pubblico. La Francia ha anche spinto i tassi di interesse al di sotto dei livelli tedeschi, dimostrando che, nel contesto della UEM la Francia potrebbe essere un paese a valuta forte. Le prestazioni hanno impressionato Kohl e lo hanno reso confidente che la Germania e la Francia potrebbero perseguire insieme l’unione monetaria.
Così la UEM è passata dall’essere una cattiva e improbabile idea all’essere una cattiva idea che sta per diventare realtà. L’alta disoccupazione, la bassa crescita, il disagio verso uno stato sociale che non è più conveniente – tutti questi problemi hanno trovato una nuova speranza di risoluzione in un disperato tentativo di moneta comune, come se questa potesse affrontare i problemi reali dell’Europa. Al contrario, il duro lavoro per raggiungere una moneta comune, soddisfacendo gli esigenti criteri di Maastricht per l’ammissione nella UEM, si sta aggiungendo all’onere di una già mal gestita Europa. La lotta per raggiungere l’unione monetaria con la formula di Maastricht può essere ricordata come una delle battaglie più inutili della storia europea. I costi per arrivarci sono grandi, i vantaggi economici minimi, e le prospettive di delusione maggiori.
All’inizio, l’integrazione europea è stata una mossa storica per mettere insieme Germania e Francia e quindi evitare le guerre ricorrenti che hanno afflitto questo secolo. Poi gli integrazionisti europei hanno sviluppato ambizioni più grandi – la creazione di un mercato comune senza ostacoli agli scambi di beni e servizi o alla circolazione delle persone. L’Unione monetaria è stato vista come il passo successivo sulla strada verso l’unione piena. Proprio mentre quel programma viene attuato, il cerchio dei candidati per l’inclusione nell’Unione europea (UE) si allarga, il disincanto pubblico cresce, e le contraddizioni tra allargare il cerchio e rendere più stretta l’integrazione dei membri diventano più evidenti. Kohl ha riconosciuto che a meno che non spinga con forza verso l’UEM, il concetto si perderà per strada, e non è il solo. Anche i francesi vogliono la UEM. La loro ragione sicuramente non è costruire ponti che evitino conflitti futuri – la Germania e la Francia ormai sono legate quanto gli Stati Uniti e il Canada. La ragione è che nessun ministro delle finanze francese osa andare a letto senza sapere dove finirà il franco la mattina successiva. L’Unione monetaria consentirà loro un buon sonno, il primo in un decennio. E poi ci sono tutti gli altri candidati che stanno cercando di ottenere un po ‘di credibilità per le politiche di bilancio e i tassi di cambio e che non ci riusciranno senza l’adesione: Irlanda, Belgio, Paesi Scandinavi, Italia e Spagna.
Entro aprile 1998 saranno prese le decisioni sui membri chiave; a partire dal 1999 le monete saranno ancorate tra loro; entro il 2002 ci sarà solo la nuova moneta, l’Euro. Ma questa non sarà la fine della storia. I rapporti frustranti tra i paesi inclusi ed quelli esclusi comprometteranno la maggior parte del vantaggio dell’adottare una moneta comune.
Cancellare gli ostacoli
Non c’è praticamente nessun paese, incluse Germania e Francia, il cui bilancio oggi soddisfi i criteri di Maastricht. Di conseguenza, tutta l’Europa si sta tuffando contemporaneamente nei tagli di bilancio e probabilmente subirà un rallentamento economico. Tali riduzioni sono appropriate anche senza UEM, ma la loro tempistica e dimensione verranno aggiunte al suo costo finale, l’arresto della crescita, ed aumenterà la disoccupazione. Le autorità monetarie di questi paesi non hanno dimostrato alcuna volontà di adattarsi a queste conseguenze. Hanno il loro proprio fine di tenersi aderenti ai criteri fino all’ultimo momento previsto dal programma, in tal modo modellando l’atteggiamento “giusto” per la nuova banca centrale europea. La combinazione di politica monetaria eccessivamente restrittiva e tagli di bilancio determinati suggeriscono tempi dure a venire per l’Europa.
Un problema ancora più importante è ciò che accade a coloro che non possono o non vogliono far parte dell’unione monetaria. La Gran Bretagna ha mostrato una certa avversione per la piena inclusione. Il pragmatismo britannico si ferma alla proposta di inflation targeting come  legame comune. Unirsi al culto monetario è troppo.
L’Italia, con la sua moneta sottovalutata, pone un altro problema. La Francia vuole l’Italia dentro in modo che un ulteriore deprezzamento competitivo diventi impossibile. Ma una volta che l’Italia è dentro, con una moneta apprezzata, il paese sarà presto di nuovo alle corde, proprio come nel 1992, quando la sua valuta è stata attaccata. La questione di chi rimane “fuori” si riduce ad una semplice domanda: cosa può essere offerto a Gran Bretagna e Italia per indurle a entrare nel club UEM? La difesa illimitata e incondizionata delle loro valute da parte della Germania è una ricompensa sufficiente per l’Italia. Com’era prevedibile, la Germania è assolutamente riluttante a prendere questa offerta, lasciando la Francia con il broncio dietro le quinte. Tutti stanno aspettando e sperando che l’Italia e la Gran Bretagna, le valute deboli quando il Trattato di Maastricht è stata varato nel 1992, si faranno un punto d’onore nel dimostrare che sono europei, vogliono essere paesi a moneta forte, e faranno le flessioni necessarie per aderire. Non aspettate la Gran Bretagna; il governo laburista ha così tanti problemi a casa propria con la proposta di Carta Sociale quanti ne ha con la Banca Centrale Europea.
Assumendo che la UEM sia una conclusione scontata, rimangono questioni vitali sul fatto che l’inclusione sia la scelta giusta per le varie parti, sulla capacità di produrre benefici economici, sul ruolo che ci si attende dalla Banca centrale europea, e sulla quantità di membri sovrani della UEM che abbandoneranno.
Tagliare
Senza la Germania e la Francia, naturalmente, non ci sarà alcuna UEM. Per la Germania, la UEM è un passo politico che riflette la convinzione profondamente radicata che la stabilità interna richiede un legame indissolubile con la Francia; nient’altro conta in questo contesto. Pochi nord-europei sostenitori della UEM perdono il sonno per l’esclusione della Grecia, del Portogallo, anche dell’Italia o della Spagna. Supponendo che Francia e Germania siano i fondatori, come faranno a strutturare il dibattito sul soddisfare i criteri di Maastricht? Dove tracceranno la linea di demarcazione tra i paesi “in” e “out”?
La condizione finanziaria attuale della maggior parte dei paesi europei suggerisce che una lettura restrittiva dei criteri di Maastricht definisce rapporti di debito-PIL e deficit-PIL troppo alti. Inoltre, l’eccessivo ottimismo sulla forza della ripresa economica nel 1997 è dilagante. Senza una solida ripresa, i numeri del disavanzo di tutti sembreranno molto peggiori, e le prospettive di soddisfare il requisito di Maastricht di un disavanzo inferiore al tre per cento del PIL saranno fioche. I politici possono non essere in grado di permettersi di lasciare che il mercato si agiti su queste domande per i prossimi due anni. Uno scenario più probabile e pratico è che sarà fatta l’assunzione che Francia, Germania, e un piccolo gruppo di nazioni stiano procedendo verso l’unione monetaria. Questi stenderanno un impegnativo programma triennale di aggiustamento di bilancio che li metterà dentro gli obiettivi di Maastricht entro il 1998. Ciò servirà come giustificazione perché questi paesi possano truccare un po’ i conti sui rigidi criteri per l’ingresso nella UEM.
Quali altri paesi avranno il permesso di falsificare i conti? Il Belgio non può passare neanche un test truccato a meno che il suo debito non sia cancellato; al momento ha due volte l’indebitamento massimo consentito dal trattato di Maastricht. C’è un interessante precedente nel sovra-indebitamento e nella crisi di finanziamento del paese nel 1926. In un consolidamento forzato, il Belgio ha ceduto le ferrovie nazionali agli obbligazionisti, un approccio che l’abbondanza di imprese pubbliche belghe consentirebbe oggi. Il Belgio è un partner nord-europeo prediletto e dalla moneta forte, che dovrebbe richiedere alcune concessioni speciali.
L’Italia è sicuramente fuori dalla lista dei primi candidati, anche se l’industria tedesca e francese vogliono mettere la concorrenza italiana al guinzaglio impedendo il deprezzamento competitivo della moneta. Il fatto è che non possono; l’Italia ha un debito e livelli di deficit così alti che non potrebbero essere ripuliti abbastanza da passare il controllo tedesco per l’ingresso nella UEM alla prima ondata.
Vi è una questione di primaria importanza nel dibattito tra chi sta dentro e chi sta fuori. L’Unione monetaria è come il matrimonio tra partner con patrimoni molto disuguali. Gli accordi prematrimoniali sono naturalmente la regola e devono essere seguiti attentamente. Ma quando la passione è scomparsa, gli accordi valgono ancora. Nel plasmare l’accordo, gli obbligazionisti tedeschi, che hanno più da perdere, vengono per primi. Mentre la Francia ha oscillato tra moneta forte e debole, la Germania ha costruito una forte e coerente coalizione tra obbligazionisti e la Bundesbank. Kohl farebbe un grosso errore se minacciasse gli obbligazionisti, che sono risparmiatori e che temono, quando non ricordano, una valuta deprezzata. Per questo motivo, l’Italia non sarà uno dei partecipanti alla prima ondata, dal momento che gli obbligazionisti tedeschi la vedono (a torto o a ragione) come l’incarnazione della delinquenza monetaria. Un caso credibile per truccare il programma di Maastricht può essere fatto per la Germania e la Francia, ma non per i paesi con reputazioni fiscali negative.
Se ci sono quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, cosa è meglio essere? Per l’Italia, essere fuori è chiaramente migliore all’inizio. Poiché i francesi sono angosciati dalla competitività italiana e temono un altro giro di svalutazioni competitive, sono disposti a fare offerte per aiutare l’Italia salire a bordo. Per l’Italia, la chiave per prendere impegni sul cambio sarà un’offerta dalla Germania di “incondizionato e illimitato intervento” a sostegno della lira. L’inferno si congelerà prima che ciò avvenga. Eppure l’Italia potrebbe guadagnare dal manifestare interesse nel diventare membro della UEM; facendolo otterrebbe un aiuto nella inevitabile lotta del paese col proprio bilancio. Più importante, una richiesta pubblica per l’adesione è un segnale agli investitori sulle intenzioni economiche dell’Italia, che aiuta a ridurre i tassi di interesse e a migliorare il bilancio.
Se la Germania e la Francia come previsto daranno inizio alla UEM, seguirebbe un processo strutturato per integrare chi rimane fuori. Ma poiché la Germania non offrirà garanzie sul cambio, gran parte del peso cadrebbe su chi rimane fuori, che dovrà esporre i propri programmi di convergenza e fare il lavoro. L’Italia sarà esortata a consolidare la propria finanza pubblica. Londra si sentirà messa sotto pressione dalla prospettiva di perdere grandi quantità di attività finanziarie a favore di Francoforte. Come la UEM entrerà in corso, la pressione su chi rimane fuori aumenterà perché la loro inclusione è essenziale per il successo finale della UEM. Per sbandati come la Gran Bretagna, che sono indifferenti o schizzinosi, la strategia sarà quella di alzare la posta. Per i finanziariamente corrotti, aspiranti membri come l’Italia, sarà quella di spingere più forte.
La UEM è una questione particolarmente difficile per i paesi dell’Europa orientale. Essi sono su una rotta di lenta integrazione nell’Unione europea, ma rimangono finanziariamente deboli. Se la UEM fosse un meccanismo di integrazione, l’inclusione precoce potrebbe essere critica. Ma questo aspetto della UEM è esagerato. Un’opzione per i paesi che rimangono fuori come la Repubblica ceca e la Polonia sarebbe l’adozione dell’euro come moneta nazionale, proprio come l’Argentina ha effettivamente fatto con il dollaro. Una tale mossa potrebbe aiutare la stabilità finanziaria, ma sarebbe ottenuta a costo di perdere il tasso di cambio come strumento di regolazione.
Benefici e problemi
Qualunque cosa abbia convinto nel 1991 i leader europei ad individuare la moneta come veicolo chiave di integrazione politica, è una scelta sbagliata. La moneta nel migliore dei casi è apolitica, e la Banca centrale europea conseguirà questo. Lasciando da parte i vantaggi politici, se ce ne sono, dell’integrare le valute, possono essere ottenuti vantaggi economici? La UEM è diversa dall’importantissima unione doganale e dal brillante schema che mira al completamento del mercato interno. Queste iniziative sensazionali hanno portato incentivi per trasformare il mercato europeo, disperatamente non competitivo e segmentato come era, in una grande unità. L’immaginazione è stata catturata dal vasto e altamente competitivo mercato degli Stati Uniti, e l’iniziativa era sia coraggiosa che degna. La UEM ha poco di tutto questo.
L’integrazione monetaria porterà due vantaggi, in due modi. In primo luogo, l’eliminazione degli scomodi cambi di valuta renderà le transazioni più convenienti e ridurrà i costi dei pagamenti. In secondo luogo, la volatilità dei tassi di cambio sarà ridotta, a zero nei fatti, e le imprese potranno commerciare e investire meglio attraverso le frontiere intra-europee. Ma di per sé un mercato unico non significa integrazione dei mezzi di pagamento. Il valore di un euro a Barcellona non sarà necessariamente calcolato alla pari a Berlino fino a che e a meno che il sistema di trasferimento, simile alla rete interbancaria della Federal Reserve degli Stati Uniti, sia accompagnato dall’obbligo di cancellare tutti i controlli alla pari. Tale obbligo, che proteggerebbe dagli addebiti rigorosi e variabili delle banche oligopolistiche, è di vitale importanza per le imprese.
I guadagni minori derivanti dalla stabilità dei tassi di cambio tra marco tedesco e franco potrebbero essere più che compensati dalla maggiore volatilità dei tassi verso mercati e investitori esterni. Se così fosse, l’integrazione commerciale sarebbe catturata da chi è dentro a discapito di chi è fuori in Europa e del resto del mondo, dall’Europa orientale fino agli Stati Uniti. Tuttavia, non ci sono prove che la volatilità delle valute, bassa come è stata, sia un ostacolo al commercio. Di conseguenza, la ridotta volatilità tra chi è dentro non cambierà molto il panorama del commercio e degli investimenti in Europa. Nel frattempo, può essere usata per mettere pressione a paesi come la Gran Bretagna ad entrare o uscire davvero.
L’Europa, governata da una valuta, fare fondamentalmente meglio? Il punto di vista francese è decisamente positivo: se l’Italia non può svalutare più, non può rubare posti di lavoro francesi. Così, per la Francia, una moneta unica è ottima. Ma il suo entusiasmo si basa su un errore, perché ciò che è in questione è il tasso reale di cambio rettificato per i costi. Se il tasso di cambio nominale non può cambiare, per equilibrio il tasso reale deve cambiare. Aspettatevi che siano salari e prezzi a fare il lavoro. I francesi possono avere ragione di credere che è molto più difficile fare aggiustamenti grazie alla deflazione che grazie alla svalutazione. Ma questa è una magra consolazione.
Nei paesi con salari molto flessibili, il regime di cambio fa poca differenza. Nei paesi con mercati del lavoro rigidi, come la maggior parte di quelli europei, i tassi di cambio flessibili sono importantissimi. La critica più grave alla UEM è che abbandonando gli aggiustamenti dei tassi di cambio viene trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività e i prezzi relativi. Senza flessibilità salariale, il processo di aggiustamento è vanificato; predomineranno le perdite di produzione e di occupazione (e la pressione sulla Banca centrale europea per reflazionare). Il costo prevalente di un’area monetaria integrata è che i tassi di cambio nominali scompaiono come meccanismo di adeguamento. Se una regione va in declino, per esempio, perché le sue esportazioni diventano obsolete, la deflazione deve prendere il posto della svalutazione. Se una regione vive un boom, per esempio, perché ha ricerca, istruzione, e prestazioni commerciali superiori, l’inflazione prende il posto dell’apprezzamento della valuta.
I tassi di cambio come strumento di regolazione hanno una buona storia, malgrado Messico e America Latina. Forzando gli aggiustamenti sul mercato del lavoro, il mercato europeo con la peggiore prestazione, è destinato a fallire. Nelle regioni arretrate la disoccupazione aumenterà, così come i problemi sociali e le recriminazioni sull’integrazione. Se i tassi di cambio sono abbandonati come strumento economico, qualcos’altro deve prendere il loro posto. I promotori di Maastricht hanno soltanto accuratamente evitato di dire chiaramente ciò che potrebbe essere. La risposta è un mercato del lavoro competitivo, ma è una parolaccia nell’Europa dei welfare sociali.
La UEM e la sovranità
La creazione di una unione monetaria europea non è una parte naturale del processo di regolazione della sovranità a favore di un’Europa più integrata. Non è un primo passo, con la politica estera e di difesa che naturalmente seguono subito dopo. Al contrario, la moneta depoliticizzata è l’ambizione di tutto il mondo. La creazione di una banca centrale indipendente in Nuova Zelanda o in Cile è in gran parte equivalente alla creazione di una Banca Centrale Europea. L’intento è quello di trasferire la regolamentazione della moneta da legislatori miopi e politicamente vulnerabili a dirigenti cauti che hanno lunghi orizzonti temporali e sono responsabili solo per ciò che realizzano.
In una banca centrale europea, la gestione del denaro verrebbe tolta alle autorità nazionali. Anche se la gestione della moneta fosse già istituzionalizzato in modo adeguato, come in Germania, sarebbe semplicemente spostata di un livello ad un livello europeo. Per molti paesi europei, questo sarebbe l’unico modo per liberare le proprie banche centrali dall’influenza politica – trasferendole letteralmente in una singola casa fuori città. Per altri, sarebbe solo un movimento laterale, da un organismo indipendente che affianca la Germania ad un altro che la ingloba. Il punto è: banche centrali valide sono apolitiche, e più sono apolitiche meglio è. Questo è tutto ciò che è una Banca Centrale Europea. Ed è per questo che la UEM non è un trasferimento di sovranità verso la moneta, ma una abdicazione a livello europeo.
La gestione della moneta da parte di una banca centrale, naturalmente, è diversa dalle politiche di difesa ed estera, che sono intrinsecamente politiche. Nelle politiche di difesa ed estere, i cittadini generalmente vogliono la pace (la maggior parte del tempo), ma questo è il punto in cui la concordia finisce. Il compito è riconciliare obiettivi, punti di vista, tradizioni e culture nazionali che confliggono. Nella gestione della moneta, tutti vogliono la stessa cosa – la moneta stabile. Così nella difesa e in politica estera, il trasferimento della sovranità significa rinunciare a qualcosa di reale e prezioso. Cedere la gestione della moneta a livello nazionale è soltanto calciare via una cattiva abitudine! La differenza non potrebbe essere maggiore.
[Dornbusch, uno dei maggiori esponenti della scuola di Chicago, ha una visione della banca centrale indipendente di impostazione strettamente monetarista e si rifa all’ipotesi che esista un optimum economico determinabile tecnicamente e perseguibile da una struttura tecnocratica svincolata dalla politica; tale visione oggi è pesantemente messa in dubbio anche a livello accademico, poiché la “gestione della moneta” è fatto essenzialmente politico determinando la distribuzione delle risorse economiche all’interno della comunità nazionale, NdVdE]
La Banca Centrale e l’ortodossia
Gli italiani sognano che la banca centrale europea renderà loro la vita più facile di quanto faccia la Bundesbank oggi. Per i tedeschi la prospettiva è un incubo. Le loro paure sono ingiustificate. E’ certo che la nuova banca centrale si affermerà sin dall’inizio come una continuazione diretta della banca centrale tedesca, l’attuale colonna dell’ortodossia monetaria europea. Questo risultato è assicurato dalle strette regole del gioco ma ancor più da altri fattori. Quelli selezionati per il consiglio di amministrazione di una banca centrale, sotto i riflettori dell’attenzione pubblica, subito diventano conservatori, come è regolarmente avvenuto presso la Federal Reserve statunitense. Poiché i paesi membri vorranno inoltre che i loro rappresentanti siano influenti, la Banca centrale europea rischia di essere composta da prestigiosi conservatori. Di primaria importanza sarà il Presidente del consiglio direttivo, che traccerà la rotta della banca senza avere precedenti in atto. Se, come sembra ormai probabile, Willem Duisenberg della banca centrale olandese sarà a capo della Banca Centrale Europea, la garanzia della moneta forte è scolpita nella pietra. Dopo tutto, Duisenberg ha talvolta espresso il timore che la Germania potrebbe diventare monetariamente debole!
E’ evidente che la banca centrale europea avrà un buon punto di partenza, se si misura col mantenere i tassi di interesse elevati e l’inflazione bassa. Il guaio è che l’Europa per allora potrebbe essere nei guai: tagli di bilancio accelerati combinati con una banca centrale forte guidata dalla Bundesbank implicano problemi. Purtroppo, le banche centrali in Europa non accettano che i tagli del bilancio richiedano una politica monetaria accomodante. Ciò significa che l’Europa da qui al 2000 non può aspettarsi molta crescita. La nuova moneta europea, lungi dal creare prosperità, potrà alla fine essere accusata per un periodo di scarso rendimento. Se le banche centrali nazionali attuali si adattano con un allentamento della politica monetaria, la crescita può andare avanti in armonia e senza ostacoli. Se le banche centrali interpretano male il loro ruolo, il taglio del deficit terminerà con una debacle recessiva, e la UEM sarà accusata per questo.
Una UEM migliore
Nello stabilire i criteri di Maastricht, i politici si concentrarono sull’evitare l’inquinamento degli obiettivi della banca centrale da parte delle posizioni deboli di bilancio dei paesi membri. Alto debito e deficit, da questo punto di vista, sono un invito alla monetizzazione e a “reflazionare via” i problemi fiscali. All’estremo, i dipartimenti del Tesoro vanno direttamente alle banche centrali per avere spazio. La separazione delle due istituzioni è del tutto appropriata. Così come lo è l’attuale enfasi su deficit minori, se non altro per i vasti impegni pensionistici non finanziati all’orizzonte. Ma è anche vero che il ragionamento di escludere i paesi ad alto debito e ad alto deficit in quanto minacce per l’integrità di una Banca centrale europea possono essere utilizzati contro i paesi ad alta disoccupazione. In questi paesi, plausibilmente, i politici si rivolgono ad una banca centrale per chiedere aiuto – un po’ più di soldi, qualche posto di lavoro in più. L’incentivo a reflazionare è lo stesso nella creazione di posti di lavoro; reflazionare via il debito è altrettanto facile come reflazionare via la disoccupazione. Né può funzionare, ma il tentativo o l’attesa di un tentativo sarà controproducente.
L’implicazione è che la UEM dovrebbe includere un tetto di disoccupazione a titolo definitivo. I paesi con, ad esempio, più del sei per cento di disoccupazione strutturale non dovrebbero essere membri. Essi dovrebbero essere tenuti a intraprendere le politiche strutturali e macroeconomiche (compresi l’allentamento dei regolamenti economici, la riduzione delle indennità eccessive, ecc) che portano la disoccupazione a livelli che non sono una minaccia per la Banca centrale europea. Se i requisiti di Maastricht fossero stati strutturati in questo modo, avrebbero avviato una rivoluzione dal lato dell’offerta. I paesi metterebbero tutto se stessi per creare posti di lavoro con la deregolamentazione anziché nel distruggere posti di lavoro con la tassazione. Purtroppo, anche se la logica è impeccabile, la buona economia dell’Europa non ha ancora raggiunto il mercato del lavoro.
Sperimentare una nuova moneta è una cattiva idea in un momento in cui l’Europa deve affrontare la dura realtà della soppressione dello stato sociale, del reinserimento di milioni di disoccupati in una normale vita lavorativa, della deregolamentazione delle economie stataliste-corporative, coltivando il lato dell’offerta della sua economia, e integrando l’Europa centrale. La nuova moneta crea vantaggi insignificanti nella migliore delle ipotesi, mentre scoraggia gli aggiustamenti e limita la cooperazione pragmatica. Da fuori dell’Europa, una moneta comune e gli sforzi necessari per ottenerla sono visti come passi indirizzati profondamente male e fuori tempo che renderanno l’Europa un anello debole dell’economia mondiale.
Anche se approvano l’evoluzione di un mercato comune europeo, gli Stati Uniti sono impauriti dalla UEM. Il primo è stato visto come un contributo alla prosperità e in tal modo alla stabilità politica. La seconda è vista come portatrice di un alto rischio di contribuire alla recessione e quindi a guai politici, che sono sempre stati costosi per il mondo. Gli europei, con i loro Euro-occhiali rosa, non vedono questa prospettiva. Lo scetticismo degli Stati Uniti deriva dalla convinzione che legare le valute forza altrove l’aggiustamento, con conseguenti alti tassi di interesse e alti tassi di disoccupazione. Avendo vissuto questo quando il dollaro era sopravvalutato negli anni ’60, gli Stati Uniti non sono mai stati un fan del tasso fisso. Osservare le ricorrenti crisi valutarie in Europa negli anni ’80 ha rafforzato questo parere. Gli Stati Uniti hanno una notevole flessibilità nelle istituzioni sia dei salari che del mercato del lavoro. Con tali accordi, concettualmente, potrebbero entrare in un regime di cambi fissi. L’Europa non ha né salari flessibili né mercati del lavoro che funzionano, ma ha già la disoccupazione di massa. La UEM si aggiungerà a questo, sia nel percorso di ingresso che una volta che il sistema sia intrappolato in tassi fissi tra paesi notevolmente divergenti. Se mai ci fosse una cattiva idea, la UEM lo è.