venerdì 17 luglio 2020

Salvini citofona, nessuno apre. Blitz con flop all’impianto Ama di Roma. L’ultima smargiassata del Capitano è una figuraccia. Porte chiuse a Matteo: il sito opera ma è sotto sequestro. - Giuseppe Vatinno

MATTEO SALVINI

La storia che stiamo per raccontare non solo è imbarazzante, ma è la cartina di tornasole della faciloneria di come Matteo Salvini affronti i problemi. A Roma c’erano una volta due Tmb, cioè impianti per il Trattamento meccanico biologico. Una era al Salario è andò misteriosamente a fuoco, l’altro a Rocca Cencia, periferia est della capitale, e di proprietà dell’Ama. Quest’ultimo impianto è stato parzialmente sequestrato dalla magistratura per inadempienze alle richiese dell’Aia, l’Autorizzazione Integrata Ambientale. Tuttavia, il sequestro riguarda il bacino di stabilizzazione aerobica e l’Ama ha dichiarato che la struttura è operativa e regolarmente funzionante. Invece che ti fa il padano? Piomba ieri mattina allo stabilimento e cerca di entrare, venendone giustamente respinto. Ed allora lui dice che denuncerà “questo signore”, cioè l’Ad di Ama, alla magistratura.
E poi parte di retorica: “Ci è stato impedito l’accesso (hanno qualcosa da nascondere?). Roma rischia il caos rifiuti: in molti quartieri c’è l’immondizia in mezzo alla strada, non c’è un piano per il futuro, la raccolta differenziata torna indietro anziché andare avanti, gli impianti sono vecchi e ogni tanto vengono sequestrati”. Peccato che si tratti anche di falsa retorica perché l’impianto funziona regolarmente come del resto fatto notare giorni fa anche da alcuni esponenti del M5S. Ma Salvini si applica alla recita che gli riesce meglio, e cioè le famose orecchie da mercante, perché delle due l’una: o sa che l’impianto funziona e quindi non incide sui rifiuti della Capitale ed allora è ignorante nel senso che ignora come stanno le cose, o lo sa ed è ancora peggio fa finta di niente.
E la cosa paradossale è che già nove mesi fa aveva fatto un blitz allo stesso impianto col medesimo risultato ed esilarante poi quel “hanno qualcosa da nascondere”, visto che c’è un sequestro in atto e che quindi non si può, anche volendolo, nascondere un bel niente. Il fatto è che Salvini si è specializzato da tempo in queste incursioni romane che gli permetteranno anche, dalla celebre floridezza del suo aspetto, una bella scorpacciata di pasta e vino dei castelli. Quando non c’ha niente da fare piomba su Roma e si inventa cose assurde, come questa, pur di fare campagna elettorale a spese della verità. Poi, il senatore leghista, continua a non capire cosa sia un Tmb e pensa che sia qualche ordigno termo-nucleare di cui nessuno capisce il funzionamento. Un Tmb permette di separare la frazione umida e quella secca dei rifiuti tramite procedimenti biologici e meccanici. Ma lui pensa che sia sostitutivo dei termovalorizzatori e quindi si lancia in una intemerata sul fatto che ci vogliono perché l’ha letto su qualche rivista di enigmistica per il mare.
Questo è un modo di fare politica che ripropone i peggiori cliché del passato. Ignoranza del procedimento, confusione e tanta retorica con un livello di superficialità sbalorditivo. E poi il solito affondo: “Grillo ha capito che a Roma non tocca più palla ed è stato offensivo con i romani. Non mi interessa cosa farà la Raggi, se si ricandiderà al massimo farà la consigliera di opposizione”. Grillo non toccherà più palla, ma lui non l’ha mai toccata nonostante ci provi da ormai cinque lunghissimi anni. Ma come un torello impazzito passa da un tema all’altro andando sempre in bianco. Non sa più che inventarsi per fare campagna elettorale, ma perché non si rassegna? Il centro e il sud non lo vogliono perché si ricordano benissimo i suoi slogan: “Roma ladrona” e “Vesuvio lavali col fuoco”. Per lui vincere a Roma è come scalare un Everest di specchi saponati e farebbe meglio a rinunciare una volta per tutte.

Bce: le misure di emergenza funzionano ma l’exit strategy sia molto graduale. - Riccardo Sorrentino

(AFP)

La presidente Christine Lagarde ha di fatto chiuso la prima fase della politica monetaria di emergenza: i rischi di frammentazione e l’instabilità dei mercati si sono fortemente ridotti. Le banche però temono una brusca eliminazione delle garanzie statali sui prestiti che potrebbe interrompere il flusso di credito all’economia.

«Siamo a buon punto». La Banca centrale europea ha colto gli obiettivi che si era posta in questa prima fase di contrasto degli effetti della pandemia e del lockdown. Non tutto è tornato alla situazione precedente la diffusione del coronavirus, ha spiegato in conferenza stampa la presidente Christine Lagarde, ma «il sentiment dei mercati finanziari è migliorato», in seguito alla loro stabilizzazione e si è ridotto il rischio di «frammentazione finanziaria dell’eurozona».
Le misure adottate dalla Bce, insomma, sono «efficaci e adeguate; e funzionano». Non solo: sono state usate solo in parte, e per questo motivo la Banca centrale europea non ha ritenuto dover modificare né l’orientamento di politica monetaria, né le dimensioni dei provvedimenti adottati. Al momento, il piano di acquisti pandemico - che è stato anche rallentato - spinge verso l’alto, nell’orizzonte temporale che va fino al 2022, il pil di 1,3 punti percentuali e l’inflazione di 0,8 punti.
Soprattutto, è stato usato solo una parte del pacchetto: 360 miliardi dei 1.350 previsti per il solo Pepp, al quale si aggiungono gli acquisti del secondo quantitative easing e i prestiti alle banche delle Tltro, le aste di liquidità finalizzate alla concessione dei crediti bancari.
Il Pepp, ha ricordato la Lagarde, ha avuto fin dall’inizio due obiettivi: quello di evitare la frammentazione dell’eurozona e insieme il blocco del meccanismo di trasmissione della politica monetaria; e quello di sostenere la ripresa dopo la recessione “imposta” dalle misure di contenimento. Anche le sue dimensioni era quindi già adeguate allo scopo (e non è oggi previsto, come pure qualche analista ha ipotizzato, un uso solo parziale del programma).
Le banche, del resto, hanno ben risposto aumentando la quantità di credito fornito alle imprese non finanziarie. Al momento si tratta però di prestiti destinati a fornire la liquidità necessaria durante l’ibernazione e nelle prime fasi di risveglio dell’economia: non finanziano ancora gli investimenti.
Molte aziende di credito - ha ricordato Lagarde facendo riferimento all’ultimo sondaggio sulla situazione del mercato bancario - temono anche che ci sarà un irrigidimento degli standard di concessione del credito nel prossimo futuro.
È esattamente quello che occorre evitare, un cliff effect, un passaggio discontinuo da una fase all’altra. Le aziende di credito, ha notato Lagarde, temono soprattutto che vengano meno, e bruscamente, le garanzie statali sui prestiti alle imprese, mentre - come ha invitato a fare anche la Commissione Ue - occorre un phasing out, una lenta e graduale eliminazione.
Va evitato, insomma, il paventato rischio di una lunga serie di fallimenti aziendali e bancari. Le aziende di credito, ha ricordato Lagarde, sono del più solide patrimonialmente rispetto alla precedente - e diversa - crisi del 2008 e, in assenza di errori di politica economica, sono meglio equipaggiate per affrontare la difficile crisi.
Ancora una volta, quindi, la politica monetaria deve essere sostenuta da un’adeguata politica fiscale. Le condizioni monetarie saranno sempre più adeguate a sostenere la ripresa e la Bce può permettersi di “guardare e aspettare”, anche perché la politica monetaria «richiede tempo perché si trasmetta» all’economia.
Tocca invece ai Governi e all’Unione europea dare segnali rassicuranti perché il credito continui a fluire senza interruzioni verso le imprese. La Bce ha anche ribadito il suo pieno sostegno al Recovery fund (sia pure accompagnato da riforme strutturali concepite e applicate a livello nazionale), ricordando più volte a Bruxelles, «la grande quantità di speranze e di aspettative» per le trattative in corso.
Per la politica monetaria un cliff effect sul credito sarebbe in effetti un problema. La stessa Bce, ha spiegato Lagarde, eviterà di suscitare simili fenomeni nel momento in cui occorrerà ricalibrare gli acquisti di titoli del programma Pepp. Per queste operazioni è stata usata grande flessibilità, un «aspetto cruciale» questo, del programma pandemi rispetto ai precedenti: gli spread tra i titoli di Stato, per alcune nazioni, sono ancora relativamente elevati e richiedono interventi asimmetrici. Il punto di riferimento, il benchmark, resta però il capital key: alla fine del programma il portafoglio acquistato in ciascun paese dovrà riflettere la quota di capitale nella Banca centrale.
Oggi la Bce ha acquistato più titoli del dovuto in Germania, Italia, Portogallo; meno in Francia. È una situazione che dovrà essere, per così dire, “corretta”. «Non permetteremo mai - ha però detto Lagarde - che la convergenza verso il capital key, che a un certo punto dovrà essere realizzata, possa danneggiare i nostri obiettivi di politica monetaria».
Per l’Unione monetaria il rischio di fondo, anche perché già evidente prima dello scoppio dell’epidemia, è quello di una crescita a due velocità tra i diversi Paesi. «C’era già un certo grado di divergenza», ha spiegato Lagarde, che ha aggiunto: «Dovrà essere evitata, con ogni mezzo».

Niente fiori, ma opere di bene. - Marco Travaglio

Ponte Morandi, Conte chiama il Comitato delle vittime: Benetton ...
Slittando e sbandando su un fiume di saliva mista a lacrime, il corteo funebre dei Benetton esce da Autostrade allo svincolo di Ponzano Veneto. Il feretro, seguito da vedove inconsolabili, orfani in gramaglie e pecore piangenti, fende due ali di giornalisti che agitano fazzoletti e lanciano petali di rose. Quelli che per due anni, dopo il crollo del Morandi e i 43 morti, si domandavano pensosi chi fosse mai il colpevole: forse il maggiordomo. 
Dunque, guai a revocare la concessione o cacciare i Benetton. Poi accusavano il governo di non decidere: ora lo accusano di aver deciso. Accusavano Conte di non osare sloggiare i Benetton o revocare la concessione: ora che li ha sloggiati, lo accusano di non aver revocato la concessione (e a chi, visto che i Benetton escono?). Ma, se l’avesse revocata, lo accuserebbero di non averli sloggiati. Lunedì accusavano Conte di aver fatto perdere ad Atlantia il 15% in Borsa: ora lo accusano di averla fatta risalire del 20%. Dicevano che, cacciando Benetton, Conte era succube del M5S: ora il Messaggero titola “Autostrade, Conte piega M5S” e “i grillini sono scontenti” per l’ennesimo “dietrofront dopo Tav e Tap”. Anche per Repubblica “Di Maio raggela Conte” perché è molto deluso. Dev’essere lo stesso Di Maio che esulta sul Corriere per il “risultato molto positivo”.
Intanto proseguono le ricerche di Stefano Folli, con l’ausilio dei sanbernardo. L’ultima volta che l’hanno sentito, a Repubblica, è stato martedì, prima del Cdm, quando vaticinò la caduta del governo: “una stagione al tramonto”, “il caso Autostrade può essere l’incidente su cui il governo inciampa”, “l’esaurimento del Conte2 è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere”, “l’agonia”. Poi più nulla. Ma non si esclude che si sia unito al corteo funebre sullo svincolo, mescolato tra la folla col volto coperto dal riportino sghembo. Lo sostituisce Claudio Tito, che il 4 luglio dava per certo che “Il governo spera nella Consulta per lasciare la concessione ad Aspi” e, ora che è andata esattamente all’opposto, vede “intorno alla soluzione trovata per Aspi un illusorio alone di ottimismo”. Gli siamo vicini. Molti deplorano l’orario notturno del Cdm: si sa che, dopo una cert’ora, gli accordi valgono meno. I giornali di destra sono come i leader di destra: non sanno che dire. Libero spara l’“Autogol di Conte” e Benetton “sempre più ricco” che “vince ancora alla lotteria” perché il governo “coi soldi nostri compra a caro prezzo la società” (il prezzo non è ancora fissato, i Benetton non prendono un euro dallo Stato, anzi gli danno 3,4 miliardi, Cdp in Aspi fa un ottimo investimento, visto che le autostrade hanno utili altissimi e rischi bassissimi).
Poi giri pagina e scopri che il governo è “come una Cupola” e fa “la guerra agli imprenditori” come “nei film su Cosa Nostra”: cioè Benetton, più che salvato, è stato assassinato. Anche il Giornale di Sallusti riesce a sostenere contemporaneamente che, senza revoca, “altro che punizione per i Benetton”, quelli ci guadagnano; però “questo è un esproprio di Stato”, dunque ci rimettono. La Verità non ha dubbi: “Conte fa un regalo ai Benetton”, che “hanno vinto”, mentre gli italiani sono “cornuti e mazziati”; poi volti pagina e scopri che ha vinto Conte, “la scena è sua”. Uno spera sempre che certa gente si faccia pagare, ma c’è pure un sospetto peggiore: che lo faccia gratis. Su La Stampa il sempre acuto Marcello Sorgi spiega che ha perso Conte, “smentito dai fatti” (quali?). E indovinate chi ha vinto? “Mattarella” che non c’entra una mazza. Paolo Griseri torchia da par suo la De Micheli: “Senza che un magistrato abbia deciso chi sono i colpevoli, vi sostituite nel giudizio e accusate i Benetton?” (è stato il maggiordomo); “Si sente come Maduro?” (semmai Mamolle).
Chiude il corteo, straziato dal lutto, Giampaolo Visetti, inviato da Repubblica a Treviso per auscultare le confidenze di Luciano Benetton “a chi gli è vicino”, cioè a lui e agli altri congiunti. E lo trova sorprendentemente “rimasto alla sua scrivania”, anziché su una cassa dell’ortofrutta. Piange per la “demonizzazione” e l’“accanimento istituzionale”: “mai mi sarei aspettato certi termini e certi toni dal premier Conte”. Un complimentone agli altri premier che, per non usare certi termini e toni, non fiatavano neppure quando gli regalavano le autostrade in ginocchio sui maglioni. Il regalo di Conte non l’ha notato, anzi strilla all’“esproprio” che “devasta la famiglia”, “demolisce il marchio” e “fa a pezzi il gruppo”. Tutta colpa di un premier che “intima di cedere i nostri beni entro una settimana a noi che abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia e distribuito tanta ricchezza e cultura” (tipo Briatore) e “ci tratta come ladri”, “peggio di una cameriera” senza dargli “i 15 giorni di preavviso” (gli ha dato solo 23 mesi: la prima lettera di contestazione di Conte e Toninelli è del 18.8.2018). E tutto per qualche “errore” dei “manager scelti da Gilberto” (tanto è morto). Così parlò “a chi gli è vicino”, cioè a Visetti, “l’imprenditore che al tramonto della sua esistenza è ‘costretto ad assistere al disfacimento di ciò che ha costruito’, partendo dal bagagliaio di un’utilitaria pieno di maglioni colorati venduti per strada”. E qui ci si stringe il cuore. Urge una gara di solidarietà, con raccolta fondi per i poveri espropriati senzatetto di Ponzano. Noi, con il nostro obolo, non ci tireremo indietro.

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma. - Valeria Pacelli

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma

La denuncia di Esposito - Il giudice querela Piero Sansonetti, ma la Procura farà approfondimenti sul nastro di Amedeo Franco.
La vicenda dell’audio di Amedeo Franco , il giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset, arriva in Procura a Roma. I pm capitolini faranno approfondimenti sulla registrazione in cui si sente il giudice parlare di “plotone d’esecuzione”, di “porcheria” e “condanna a priori”. Le indagini verranno disposte nell’ambito di un fascicolo che sarà aperto dopo la denuncia, depositata ieri mattina, da Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale che ha emesso quel verdetto. Il fascicolo quindi parte da altro. Il giudice ora in pensione infatti ha denunciato per diffamazione il direttore del quotidiano Il Riformista, Piero Sansonetti, per alcune affermazioni fatte durante una puntata di “Quarta Repubblica”, la trasmissione in onda su Rete 4 diretta da Nicola Porro.
Era il 6 luglio scorso. “Noi sappiamo oggi che la magistratura italiana è marcia. – ha detto Sansonetti – (…) I pubblici ministeri e i giudici spesso si mettono d’accordo. Gli imputati sono travolti. Le garanzie non ci sono. Moltissimi processi sono truccati. Tutta la magistratura italiana è sotto accusa. E purtroppo (…) i grandi giornali italiani ne parlano poco, ma è una tragedia perché lo stato di diritto è stato travolto dalle trame della magistratura italiana”. Poi aggiunge: “E quella del giudice Esposito fa parte, sta dentro questa storia”, frase questa finita nella denuncia di Esposito. Come pure quando il giornalista dice: “Il giudice Esposito è uno scandalo vivente, così come uno scandalo vivente sono decine di altri giudici”.
Per questo il magistrato ha denunciato per diffamazione Sansonetti chiedendo ai pm anche se vi siano gli estremi per contestare il reato di vilipendio dell’ordine giudiziario. E questa è la denuncia di Esposito. Per verificare però la diffamazione, si ragiona in Procura, bisogna capire anche l’antefatto, la circostanza alla quale si riferiscono le parole di Sansonetti. E quindi quell’audio che da giorni una certa stampa innalza a “prova” per riabilitare Berlusconi e che è stato depositato dalla difesa del leader di Forza Italia a sostegno del ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Come noto, in quella registrazione del 6 febbraio 2014, il giudice Amedeo Franco, deceduto un anno fa, rinnega la sentenza che lui stesso aveva firmato. “I pregiudizi per forza che ci stavano (…) Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”, dice Amedeo Franco portato al cospetto dell’ex premier da Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, in passato sottosegretario alla Giustizia del governo di Enrico Letta e ora in Italia Viva.
Perché Franco si presentò dall’ex premier? Chi avviò la registrazione? Perché le dichiarazioni del giudice sono state rese pubbliche integralmente solo un anno dopo la sua morte? C’è qualcosa ancora di ignoto dietro quelle registrazioni?
L’inchiesta penale, in futuro, potrà trovare le risposte.

Ior: scandali, soldi, misteri e la guerra di Francesco. - Pino Corrias

Ior: scandali, soldi, misteri e la guerra di Francesco

Chiudere le porte dello Ior e riaprire quelle del Paradiso. Sarà vero? Riuscirà papa Francesco a rimediare ai molti peccati commessi dalla banca vaticana, disfacendone le trame, i cristalli, il salone di marmo che si specchia dentro al cerchio magico del Torrione Niccolò V, dove i santissimi soldi transitano da ottant’anni in un rumoroso silenzio, sgocciolando delitti, tradimenti e sangue?
Tanti gironi capovolti ne hanno segnato la storia, il più profondo inciso da Paul Marcinkus, atletico di spalle e di sguardo, che regnò vent’anni – dal 1969 all’89, anno di molti portenti – dentro la sua nuvola di sigari Avana, trafficando in miliardi di dollari, conti sempre cifrati di correntisti anonimi, poteri oscuri, massoneria italiana e americana, dittatori sudamericani, banche tropicali, amabili signore del jet set, campi da golf.
Nato a Cicero, quartiere di Chicago, due isolati dal villone di Al Capone, figlio di un lavavetri lituano, Paul Casimir Marcinkus, detto Chink, detto Il Gorilla, scalò la vita in clergyman, Rolex al polso e scarpe fatte a mano. Fu guerriero di due papi, l’esangue Paolo VI che se ne invaghì nominandolo vescovo e principe della santa cassaforte dove non sono ammessi assegni, solo oro, contante e bugie. E poi Karol Woytila, che lo arruolò nella sua guerra planetaria contro il comunismo, mandandolo a finanziare Solidarnosc, la piccola leva scovata nei cantieri di Danzica, con cui avrebbe sollevato l’intero mondo d’Oltrecortina.
Tra i due papi – già diventati santi grazie alle impazienze del marketing vaticano – la sottile interferenza di papa Luciani, quello del “Dio è più mamma che padre”, che il trentaduesimo giorno del suo papato stabilì l’urgenza di rimuovere Marcinkus dal suo vascello pirata, ma che purtroppo fu rimosso per sempre nella notte del suo trentatreesimo giorno, sepolto senza autopsia, con coda infinita di sospetti e cattive leggende sui veleni che assomigliano a infarti, e infarti che assecondano la cattiva provvidenza.
Nei suoi vent’anni di presidenza Ior, non c’è scandalo italiano, o mistero, come la scomparsa di Emanuela Orlandi, dove prima o poi non compaia la sua fuoriserie nera, con l’autista al volante e la sacca delle mazze da golf nel portabagagli. Sta parcheggiata al centro della bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi che a forza di finanziare i generali argentini, tramite la P2 di Licio Gelli, sbrigare il traffico di tangenti socialiste e democristiane – compresa la maxi tangente Enimont, 108 miliardi in certificati del tesoro portati dal giovane Luigi Bisignani, figlioccio di Andreotti, pupillo di Gianni Letta – e infine riciclare i soldi dei diavoli di Cosa nostra, chiude la sua parabola a Londra, appeso al Ponte dei Frati neri. E la coda della sua Mercedes 500 Sl, transita dentro l’avventura dell’altro campione della finanzia andreottiana, Michele Sindona, patron della Banca Privata, oltre che titolare dei flussi del denaro mafioso che navigavano attraverso lo Ior fino alle isole Cayman, Barbados, Antigua per ritornare indietro immacolati.
Avventura che costò la vita a Giorgio Ambrosoli che per conto del tribunale di Milano ricostruiva la segreta contabilità di quel gigantesco scandalo, ucciso da un killer venuto apposta dall’America, ingaggiato da Sindona. A sua volta liquidato nel carcere di Voghera, da un caffè avvelenato, altro dettaglio offerto dell’identica cattiva provvidenza.
E pensare che lo Ior era nato a fin di bene. Voluto da Pio XII nel cupo anno 1942, mentre il tallone di ferro del Terzo Reich ancora si estendeva fino a Stalingrado. Diventa operativo a fine guerra, quando il primo presidente, il laico Bernardino Nogara, trasforma le piccole monete della fede raccolte dalle migliaia di cattedrali e parrocchie d’ogni latitudine, in grandi investimenti immobiliari del Vaticano, un migliaio di palazzi a Roma, un milione nel mondo.
La minuscola Città del Vaticano, 0,44 chilometri quadrati, 900 abitanti, moltiplica il suo potere, protetta dai riverberi millenari della croce, più prosaicamente dalla politica al di qua del Tevere che in base ai Patti lateranensi le concede tutti gli onori dello Stato estero: 180 ambasciate accreditate, una poltrona in tutte le principali istituzioni transnazionali, a cominciare dall’Onu. Nessun onere. Lo Ior viaggia dentro il medesimo privilegio. E sa come sfruttarlo, rendendosi impermeabile a tutte indagini, a tutte le rogatorie.
Quando Giovani Paolo II decide di rimuovere il suo amico Marcinkus dal suo stremato vascello, alla vigilia degli Anni Novanta, gli scandali non finiscono. Tocca ai nuovi rampanti affacciarsi nel suo unico salone, protetto da nove metri di mura esterne, con un unico sportello e un unico bancomat che offre i suoi servizi anche in latino. Entrano in scena i rinnovati eroi dell’era berlusconiana, la cricca dei costruttori romani ingaggiati dal re della Protezione civile Guido Bertolaso ai tempi del G8 alla Maddalena, bruciati 400 milioni di euro, e poi a L’Aquila, passerella planetaria sulle macerie e i morti. Imprenditori come Diego Anemone, quello del Salaria Sport Village, e Angelo Balducci, gentiluomo di sua santità, tutti titolari di conti allo Ior, proprio come Andreotti ai tempi suoi, o l’incredibile Luciano Moggi, estimatore ricambiato del cardinal Ruini.
Poi tocca ai Giampiero Fiorani, presidente della Popolare di Lodi che confesserà i versamenti in nero nelle casse vaticane. Siamo ai tempi dei “furbetti del quartierino”, a cui seguono quelli dei Vatileaks, rivelazoni sulla gestione e il riciclaggio dei soldi, coinvolto nelle indagini il cardinale Tarcisio Bertone, quello dell’attico da 750 metri, con traffico di documenti segreti, e un colpevole scovato a tempo di record, un tale Paolo Gabriele, niente meno che il maggiordomo, come nei gialli da due lire. Il quale non chiude il danno, ma lo spalanca, fino alle impensabili dimissioni di Benedetto XVI: “Gli eventi hanno portato tristezza nel mio cuore”.
Così che quando papa Francesco si affaccia per la prima volta dai sacri palazzi, 17 marzo 2013, augurando “buon pranzo!”, sta parlando a tutti, tranne che agli gnomi dello Ior. Da allora vara una riforma all’anno dell’Istituto, liquida i presidenti, cambia i consigli di amministrazione, ma neanche l’elogio della povertà, né la santa Amazzonia fanno il miracolo. Probabile che fino a quando non verranno smantellate le mura, il sacro Torrione resterà la prigione che era nel Quattrocento, ma con un unico prigioniero, il Vaticano.

Napoli, azienda sotto inchiesta vince maxi-gara in Lombardia. - Vincenzo Iurillo

Napoli, azienda sotto inchiesta vince maxi-gara in Lombardia

Tamponi - 72 milioni all’Ames. Ma i pm indagano su un’intesa con la Regione Campania.
Il filo che collega e accomuna la Lombardia del leghista Attilio Fontana e la Campania del democrat Vincenzo De Luca nella gestione dell’emergenza Covid-19 passa attraverso un ben avviato centro diagnostico privato di Casalnuovo di Napoli, l’Ames diretto dal dottore Antonio Fico. È il laboratorio che poche settimane fa ha trionfato nella gara-accordo quadro con procedura d’urgenza per analizzare 20mila tamponi rinofaringei al giorno, per sei mesi, per le aziende sanitarie della Lombardia. Un appaltone da 72 milioni di euro concepito a metà maggio, con il fuoco dell’emergenza ancora bollente. Ames è arrivata prima in graduatoria con un’offerta al ribasso di quasi il 51% – 29 euro e mezzo a tampone su una base d’asta unitaria di 60 euro – nonostante molte imprese concorrenti si fossero proposte a prezzi inferiori (una era disponibile a processarli a poco più di 10 euro). Merito di un elevatissimo punteggio tecnico, che ha certificato l’altissima qualità “del materiale tecnico prodotto” in sede di offerta, secondo l’analisi della commissione aggiudicatrice. Un punteggio che nella compilazione della graduatoria finale ha pesato di più di quello economico. Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, Ames ha i mezzi e le strutture che le consentirebbero, teoricamente, di evadere da sola tutti i quantitativi ordinati dalla Lombardia senza bisogno di scorrere la graduatoria dal secondo al sesto posto. Il 9 luglio l’Azienda socio-sanitaria territoriale di Bergamo ha iniziato a ordinare al centro forniture per poco più di mezzo milione di euro. Segno che la convenzione tra l’Aria (l’azienda regionale per gli acquisti della Lombardia) e il centro napoletano, protocollata il 23 giugno e messa sul sito a inizio luglio, è diventata operativa.
Ames, che processa tamponi che arrivano via treno fornendo i risultati entro 24 ore, è la stessa impresa che ad aprile, nella fase acuta della pandemia, “ha solo fornito i suoi spazi e un aiuto, un supporto scientifico per aiutare l’Istituto Zooprofilattico di Portici a processare tamponi per la Regione Campania”, come ribadisce al Fatto Quotidiano il dottore Fico. Una collaborazione che, secondo le ricostruzioni delle pagine napoletane de La Repubblica, è stata compiuta senza essere preceduta da un bando pubblico o una formalità scritta. O meglio, un contratto tra Ames e Istituto Zooprofilattico c’era: ma riguardava circa 10mila test di sangue e urina per un piano di monitoraggio sulla terra dei roghi, importo di circa 750mila euro, gara di dicembre, firma il 25 marzo. Vergata più o meno negli stessi giorni in cui iniziava la collaborazione per i tamponi “gratuita e disinteressata”, hanno sostenuto i manager coinvolti. Collaborazione che consentì all’Istituto di aumentare i tamponi giornalieri da circa 50 a quasi 700. Solo in giorni successivi la Soresa, la centrale acquisti della Regione Campania, ha riaperto una manifestazione d’interesse – precedentemente accesa solo per 22 ore – per ipotizzare di allargare anche ai privati l’analisi del tamponi. Prima quattro aziende, poi altre 21, hanno dimostrato il possesso dei requisiti richiesti, tra le quali l’Ames. Ma nessuna ha poi lavorato con la Regione Campania, che ha continuato a effettuare i tamponi attraverso la dozzina di laboratori ricavati in ospedali e strutture pubbliche.
Sulle spigolature di questa vicenda la procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo ha ordinato un’inchiesta e l’ha affidata al pm ‘reati pubblica amministrazione’ Mariella Di Mauro. Il fascicolo è tuttora aperto. Nel frattempo Ames è ‘emigrata’ al Nord. “Cosa c’è di strano? Non è la prima volta”, sorride Fico. “Siamo un’eccellenza di livello nazionale”.

giovedì 16 luglio 2020

Una vittoria storica. - Tommaso Merlo



Le autostrade tornano pubbliche. 
I Benetton tornano a cucire golfini colorati. 
Una vittoria storica. 
È salvo l’onore dello Stato che per una volta non piega la testa davanti ai potentati. 
È salvo l’onore delle 43 vittime. 
È salva la speranza che le cose possano cambiare in questo paese. 
Opposizioni e giornalacci possono buttarla in caciara fin che vogliono. 
I fatti parlano chiaro. Il Movimento 5 Stelle raggiunge un traguardo ormai insperato. In pochi credevano nel cedimento dei Benetton dopo un anno d’ipocrita melina di Salvini e dopo un altro speso tra complicazioni gastrointestinali della fu sinistra. 
Ed invece Conte ha tirato fuori un altro coniglio dal cilindro. L’ennesimo anche se il merito va a tutto il Movimento che non ha mai mollato. 
Spronando il suo premier e portando tutta la coalizione sulla sua linea. Una linea considerata dura ma solo perché siamo in Italia. Il paese delle stragi impunite e di una politica storicamente stracciona. Sempre col cappello in mano e pronta a soddisfare le esigenze più perverse di Lorsignori. Compreso l’esigenza di farla franca e quella di riciclarsi all’infinito. 
Ma per una volta non è andata così. 
Per una volta l’interesse pubblico ha prevalso su quello privato. 
Per una volta la politica si è assunta le sue responsabilità schierandosi dalla parte dei cittadini senza rifugiarsi dietro a qualche azzeccagarbugli. Spetterà alla giustizia determinare i responsabili del crollo, ma per una volta la politica non attenderà interminabili processi coi parenti delle vittime fuori dai tribunali ad implorare giustizia con qualche cartello in mano. 
Non questa volta. 
Le autostrade tornano pubbliche. 
I Benetton tornano a cucire golfini colorati. Una vittoria storica. 
Opposizioni e giornalacci suonavano già le campane a morto. Erano sicuri che l’accordo sarebbe sfumato e che quelli del Movimento sarebbero stati costretti ad ingoiarsi un’altra sconfitta. 
Ed invece il Movimento ha ottenuto il massimo risultato in un governo di coalizione e coi soci che si ritrova. 
Un risultato addirittura migliore di una revoca traumatica che avrebbe comportato un verminaio di contenziosi con strascichi legali che alla lunga avrebbero fatto il gioco dei Benetton permettendogli di attendere un governo amico per tentare di non mollare l’osso. 
Magari un governo guidato dal loro caro Salvini. Quello che hanno sponsorizzato, quello che li ha sempre difesi e che al governo ha fatto melina per un anno intero. 
Se a Salvini riusciva il colpo di mano del Papeete ed oggi avesse gli agognati i pieni poteri, a quest’ora i Benetton starebbero scegliendo il frac per la cerimonia d’inaugurazione del Ponte di Genova e canticchierebbero felici pensando al loro roseo futuro autostradale. Ed invece hanno dovuto cedere dopo due anni di duro corpo a corpo con lo Stato. Le hanno provate tutte. Come se non riuscissero a credere che la festa fosse finita. Come se non riuscissero a credere di poter perdere. Come se non riuscissero a credere che il paese in cui hanno spadroneggiato per decenni fosse cambiato al punto da costringerli a fare davvero le valigie. Ed invece per una volta è andata così. Le autostrade tornano pubbliche e i Benetton tornano a cucire golfini colorati. Una vittoria storica. Un passo avanti per la nostra democrazia.

https://repubblicaeuropea.com/2020/07/15/una-vittoria-storica/