I “DPI” - La Lombardia non ha fatto scorta per tempo, poi ne ha ordinati 4 milioni a una società inesistente, ora non riesce a distribuire quelli che ha.
L’assessore lombardo Giulio Gallera ieri ha scoperto che “in questo momento le istituzioni devono lavorare insieme”. Alla Giunta a guida leghista non è piaciuta la lettera dei sette sindaci di capoluogo del Pd (da Sala in giù) che pongono domande sgradite sulla gestione dell’emergenza Covid-19. Una reazione che arriva dopo settimane in cui Attilio Fontana e soci ripetono come una litania “è tutta colpa di Roma”: ancora ieri il governatore, prima di ripensarci come spesso gli capita di questi tempi, sosteneva “da Roma stiamo ricevendo le briciole: se noi non ci fossimo dati da fare autonomamente, avremmo chiuso gli ospedali dopo due giorni”; per l’assessore al Bilancio Davide Caparini il governo è “sempre in ritardo di almeno tre settimane sui tempi dell’emergenza”.
Questo afflato di centralismo leghista è commovente, ma il punto è: stanno davvero così le cose? Non proprio. La reazione a livello centrale è stata di sicuro lenta e, soprattutto inizialmente, poco efficace, questo a non voler ricordare il mancato controllo sull’aggiornamento e l’applicazione dei piani pandemici regionali. Detto ciò, lentezza, confusione e inefficienza della Regione Lombardia, il territorio più colpito dal virus, sono state e sono di un livello superiore: ancora oggi, per dire, la distribuzione dei materiali sanitari arrivati da Roma non riesce a raggiungere ospedali, residenze per anziani e medici di base (che infatti protestano). Basti citare il virologo Giorgio Palù, che sta lavorando per il presidente veneto Luca Zaia, che ieri ha demolito le mosse della Lombardia con un’intervista sul Corriere della Sera: “Il Veneto ha ancora una cultura e una tradizione della sanità pubblica, con presidi diffusi sul territorio. La Lombardia molto meno”; questo ha fatto sì che tutti i malati lombardi finissero in pronto soccorso e trasformato il Covid-19 in un “virus nosocomiale”.
Prima di passare ai numeri, una premessa. La sanità in Italia è organizzata su base regionale: lo Stato finanzia, ma decidono le Regioni e anche la filiera degli acquisti si gestisce sui territori. Se non si comprende questo, non si comprende quanto paradossale sia la querelle di Fontana & C. contro “le briciole” di Roma.
I ritardi. Guardiamo le date: del 22 gennaio, ad esempio, è la prima circolare della Direzione generale della prevenzione sanitaria (il ministero della Salute) che invita le strutture sanitarie alla “stretta applicazione” dei protocolli stabiliti in casi di epidemia. Cose come “definire un percorso per i pazienti con sintomi respiratori” negli ospedali e negli studi medici in modo da non diffondere il contagio; definire le procedure per la presa in carico dei pazienti anche a casa; far “indossare DPI (dispositivi di protezione individuale) adeguati” al personale sanitario tipo “filtranti respiratori FFP2, protezione facciale, camice impermeabile a maniche lunghe, guanti” per evitare che si infettino. A questo proposito, la previsione era che sarebbero serviti dai 3 ai 6 set di DPI per caso sospetto, da 14-15 per ogni caso confermato lieve, dai 15 ai 24 per ogni caso grave.
Le circolari del ministero non fecero però effetto, come non lo fece la lettera che il 4 febbraio la FIMMG della Lombardia, un sindacato dei medici di famiglia, scrisse alla Regione per chiedere: avete fatto un inventario dei DPI esistenti come previsto dalle linee guida nazionali? Distribuirete le mascherine ai medici di base? Nessuna risposta e, soprattutto, nessun DPI.
Il caso mascherine. È l’argomento su cui la polemica tra la Giunta leghista e le strutture del governo (il commissario Domenico Arcuri su tutti) va avanti da settimane. La Regione, come detto, non ha fatto scorta quando doveva. E ora com’è la situazione? Il fabbisogno della Lombardia è calcolato in circa 300mila mascherine al giorno, 9 milioni al mese (è il 10% del fabbisogno italiano, calcolato in 90 milioni di pezzi mensili): sul sistema “Ada” – analisi distribuzione aiuti – della Protezione civile, i cui dati sono ufficialmente confermati dalla Regione tra 1 e 31 marzo a Fontana e soci sono state inviate da Roma circa 7,3 milioni di mascherine (quasi 5 milioni chirurgiche e 2,3 milioni Ffp2), l’80% dell’intero fabbisogno mensile oltre – tra le altre cose – a 470 ventilatori polmonari per terapia intensiva e sub-intensiva, cioè oltre il 60% dei nuovi posti letto vantati giusto ieri dal presidente Fontana, un centinaio di medici e due ospedali da campo. I DPI, però, continuano a non arrivare dove servono.
La commessa fantasma. E la Lombardia cosa ha fatto? La Regione non fornisce dati precisi, e già questo è un problema, ma le cose sono andate così. A metà febbraio la Giunta ha deciso di centralizzare tutti gli acquisti di DPI in Aria Spa, una società regionale. Risultato: primi ritardi e la scoperta, all’inizio di marzo, che un ordine da 4 milioni di mascherine era da annullare. Perché? “L’azienda si era rivelata inesistente”, ha raccontato il consigliere regionale M5S Dario Violi, circostanza ammessa poi anche dall’assessore Caparini. A quel punto, però, l’emergenza era scoppiata in tutto il mondo, trovare mascherine in giro era quasi impossibile e sono partite le accuse a Roma.
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