giovedì 18 agosto 2011

Ecco chi sono i delinquenti della politica italiana (Dossier)


Non so a voi, ma a me prudono le mani, e pure tantissimo. Certa gente, eletta in Parlamento o nei consigli regionali, ha pendenze passate e presenti con la Giustizia davvero scandalose. Repubblica ha preparato un dossier per farci conoscere bene questa gentaglia che vive nell'oro grazie alle nostre tasse.

Ecco a voi
IL PARLAMENTO DEGLI INQUISITI
Sono 84 i rappresentanti del popolo che hanno questioni aperte con la giustizia. Tra i reati ci sono quelli tipici della politica (corruzione, concussione ecc.), ma crescono quelli da legami con organizzazioni mafiose. Alcuni, invece, si portano dietro condanne legate agli anni di piombo, Il record in Sicilia

Tra condanne, prescrizioni e processi nei palazzi quanti guai giudiziari
di ENRICO DEL MERCATO, ANTONIO FRASCHILLA, EMANUELE LAURIA
Sembra di vivere nei primi anni Novanta quando, durante tangentopoli, fioccavano le richieste d'arresto sul tavolo della giunta per le autorizzazioni a procedere. Dall'inizio del 2011 sono state nove, compresa quella del Pdl Alfonso Papa (nella foto). Tra il 1992 e il 1994 furono 28. Ma l'elenco va oltre: 84 parlamentari oggi hanno pendenze con la giustizia

ROMA - Se non sono i numeri del parlamento di tangentopoli, poco ci manca. Quella che ha spedito in carcere il deputato del Pdl Alfonso Papa è stata la nona richiesta di arresto sul tavolo della giunta per le autorizzazioni a procedere dall'inizio della legislatura. Tra il 1992 e il 1994, gli anni in cui le inchieste dei pm terremotarono la Prima Repubblica, furono 28. Se però si scorre l'elenco di deputati e senatori attualmente in carica che hanno pendenze con la giustizia, allora si scopre che i numeri di oggi non sono poi così lontani da quelli della stagione di Mani Pulite. Tra Montecitorio e Palazzo Madama siedono, in questo momento, 84 parlamentari sotto inchiesta, già con sentenze di condanna sulle spalle, in attesa di processo oppure rinviati a giudizio. E tra questi, ben 34 risultano condannati per reati che vanno dalla diffamazione fino all'associazione mafiosa o per una cattiva gestione di fondi pubblici di cui ora devono rispondere di tasca propria. Altri nove legislatori sono stati beneficiati dalla prescrizione dei reati.

La lista. E' una lunga teoria che racconta un pezzetto di storia d'Italia. Un elenco nel quale si può trovare la radicale eletta nelle liste del Pd, Rita Bernardini, condannata per aver distribuito marijuana durante una manifestazione per la liberalizzazione delle droghe leggere (pena estinta con l'indulto), ma soprattutto un nutrito drappello di rappresentanti del popolo con ben più gravi condanne di primo e secondo grado sul groppone: c'è, per esempio, il ministro delle Riforme e leader della Lega Umberto Bossi (condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per finanziamento illecito nell'ambito dell'inchiesta sulla maxi-tangente Enimont) e c'è il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri che i giudici di Palermo hanno condannato in primo grado a nove anni, e in appello a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Del resto, è proprio il Pdl - quello che il neo segretario Angelino Alfano ha dichiarato di voler trasformare nel "partito degli onesti" - il gruppo parlamentare con il maggior numero di eletti alle prese con vicende giudiziarie. E poi? Da chi è composta la poco lusinghiera classifica delle fedine penali sporche?

Il partito degli onesti. Un anno fa chi aveva provato a mettere in colonna i numeri degli inquisiti non era riuscito a contarne più di 24: oggi i parlamentari del Pdl nei guai con la giustizia sono 49. Più che raddoppiati. Ventinove alla Camera e 20 al Senato. Il drappello lo guida ovviamente Silvio Berlusconi, con sei processi in corso. Ma oltre al leader, a ministri in carica e non, a ex presidenti di Regione e coordinatori regionali, ci sono anche i peones dell'avviso di garanzia o del rinvio a giudizio. Giulio Camber è un senatore che nel 1994 ottenne 100 milioni di lire dalla banca Kreditna dicendo che poteva comprare i favori di pubblici ufficiali e evitare il commissariamento dell'istituto: condannato a otto mesi per millantato credito. Fabrizio Di Stefano, invece, è stato eletto in Abruzzo e proprio ad aprile scorso i magistrati hanno chiesto il suo rinvio a giudizio per corruzione nel processo che riguarda la realizzazione di un impianto di bioessicazione di rifiuti a Teramo. Claudio Fazzone, che siede anche lui a Palazzo Madama, ex presidente del consiglio regionale del Lazio è stato rinviato a giudizio per abuso d'ufficio: gli contestano di aver raccomandato, via lettera, alcuni suoi amici a un manager della Asl. A Montecitorio, invece, tra i banchi Pdl c'è Giorgio Simeoni rinviato a giudizio per truffa all'Ue nell'inchiesta sui corsi di formazione fantasma nella Regione Lazio. Per tacere, infine, del deputato Giancarlo Pittelli che, oltre a essere coinvolto nell'inchiesta sugli ostacoli posti alle indagini dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris, deve rispondere in tribunale di lesioni e minacce dopo avere aggredito un suo collega avvocato. Spiccano, poi, l'ex comandante della Guardia di Finanza Roberto Speciale condannato in appello a 18 mesi per peculato (è accusato di essersi fatto arrivare un carico di spigole nel paesino trentino in cui era in vacanza) e Luigi Grillo condannato a un anno e 8 mesi per reati bancari.

E gli altri. Dal gruppo del Pd è appena uscito Alberto Tedesco, il senatore pugliese indagato per corruzione e salvato dagli arresti domiciliari grazie al voto di Palazzo Madama, ma l'elenco dei democratici sotto inchiesta o con condanne comprende comunque quattro senatori e sette deputati. Numeri che però raccontano di reati più lievi: l'accusa di diffamazione che pende sul capo del senatore Giuseppe Lumia, querelato dal suo ex addetto stampa, per esempio. Però fra i democratici c'è anche chi deve fare i conti con contestazioni più gravi: Antonio Luongo è stato rinviato a giudizio per corruzione nell'inchiesta su affari e politica a Potenza, mentre Maria Grazia Laganà - la vedova di Fortugno - è a processo per falso e abuso d'ufficio ai danni della Asl di Locri. Nino Papania, senatore siciliano, patteggiò nel 2002 una condanna a due mesi per aver scambiato regali con assunzioni. Ma anche la Lega che in questi giorni si lacera sulla questione morale annovera quattro deputati e due senatori inquisiti. L'Udc ne ha cinque. Per carità: il calcolo delle probabilità penalizza i gruppi parlamentari più numerosi. Sorprende invece l'alta incidenza di deputati e senatori con problemi giudiziari in formazioni più piccole: i "responsabili", per esempio, su 29 esponenti alla Camera contano un condannato (Lehner, diffamazione nei confronti del pool di Mani Pulite), un rinviato a giudizio per truffa (il piemontese Maurizio Grassano che venne arresto nel 2009 per una truffa al comune di Alessandria e che oggi è sotto processo) e due sui quali pende una richiesta di processo per mafia e camorra (il ministro Romano e il deputato campano Porfidia).


Tangenti, mafia e "peccati di gioventù" quei verdetti figli di un passato lontano
di ENRICO DEL MERCATO, ANTONIO FRASCHILLA, EMANUELE LAURIA
Nel background dei parlamentari italiani non c'è solo la stagione delle mazzette. Ma anche le collusioni con le organizzazioni criminali e la militanza durante la stagione delle lotte giovanili

ROMA - Vite onorevoli con il fiato degli inquirenti sul collo. E, per molti, con l'onta di una condanna già pronunciata. Chi sono? Alcuni verdetti sono figli della stagione di tangentopoli: al Senato, per esempio, nel gruppo misto siede ancora Antonio Del Pennino che ha patteggiato per la tangente Enimont. Del resto, la madre di tutte le tangenti ha lasciato in eredità condanne anche a Umberto Bossi, a Giorgio La Malfa, all'ex segretario del Psdi (oggi senatore del Pdl) Carlo Vizzini, che si è poi salvato con la prescrizione. Ma la scia di Tangentopoli è ben più lunga: Giampiero Cantoni, ex presidente della Bnl e altro senatore del Pdl, ha patteggiato nel '95 una condanna a due anni per concorso in corruzione e bancarotta fraudolenta.

Massimo Maria Berruti, ex consulente Fininvest, è stato condannato in appello a 2 anni e dieci nell'ambito del processo sui fondi neri del gruppo. Enzo Carra (nella foto), l'ex portavoce di Forlani che ai tempi di Tangentopoli finì in manette davanti alle telecamere, è stato condannato in via definitiva a 16 mesi per false dichiarazioni ai pm. Altre vicende si sono definite di recente: Aldo Brancher, per esempio, il 3 marzo è stato condannato in appello a 2 anni per appropriazione indebita e ricettazione, nell'ambito di un'inchiesta sulla scalata Bpi-Antonveneta che l'anno scorso lo costrinse a dimettersi da ministro. Il recordman, fra i condannati, è Giuseppe Ciarrapico, ex democristiano oggi nel Pdl, che conta quattro pronunce definitive a proprio carico: è stato sanzionato per aver violato la legge che "tutela il lavoro dei fanciulli e degli adolescenti" ma anche per il crac della casina Valadier. Sono le procure del Sud le più impegnate nelle indagini sui politici.

Mafia, camorra & c. C'è Marcello Dell'Utri che è stato condannato anche in appello per concorso esterno, ma l'elenco dei parlamentari sotto inchiesta per collusioni con le organizzazioni criminali è lungi dall'essersi esaurito. A Saverio Romano, leader del Pid e responsabile dell'Agricoltura, potrebbe toccare in sorte il poco onorevole record di essere il primo ministro della Repubblica a finire sotto processo per mafia. Un suo collega di schieramento, il deputato del Pdl e leader del partito in Campania, Nicola Cosentino, invece, sotto processo c'è già. È indagato per concorso esterno in associazione mafiosa anche il senatore Antonio D'Alì, tessera numero uno di Forza Italia a Trapani. Mentre la procura di Palermo ha da qualche mese messo sotto inchiesta il senatore Pdl Carlo Vizzini che, nell'indagine sul tesoro di Ciancimino, è chiamato in causa per corruzione aggravata dall'aver favorito Cosa nostra.

Peccati di gioventù. Nel background dei parlamentari non c'è solo la stagione delle mazzette. Il certificato penale di alcuni di loro è rimasto sporco dagli anni delle lotte giovanili. Marcello De Angelis, oggi deputato del Pdl e in passato militante dell'organizzazione di destra Terza posizione, è stato condannato a 5 anni e mezzo per sovversione e banda armata, tre dei quali scontati in carcere. L'ex missino Domenico Nania, che oggi è vicepresidente del Senato in quota Pdl, si porta appresso una condanna per lesioni volontarie emessa nel 1969 in seguito ad alcuni scontri con giovani comunisti. Nel gruppo parlamentare della Lega alla Camera siede invece Matteo Bragantini, condannato in appello nel 2008 per "propaganda di idee razziste".

Le mani in tasca ai condannati. Poi ci sono i reati portati in eredità dai parlamentari che in passato sono stati amministratori locali. Francesco Rutelli, ad esempio, è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire il Comune di Roma per circa 60 mila euro per alcune consulenze da lui assegnate quando era sindaco. Il senatore dell'Mpa Giovanni Pistorio è stato chiamato dalla magistratura contabile a rispondere di un danno erariale di 50 mila euro per la propaganda anti-aviaria fatta quando ricopriva il ruolo di assessore alla Sanità in Sicilia. Ben più salato il conto presentato all'ex presidente della Croce Rossa Maurizio Scelli: 900 mila euro per irregolarità nell'acquisizione di servizi informatici. Può costare cara, nel senso proprio del termine, anche l'attività di ministro: la magistratura contabile ha condannato al pagamento di circa 100mila euro l'ex Guardasigilli Roberto Castelli (ora sottosegretario alle infrastrutture) per il danno procurato attraverso la stipula di due contratti di consulenza alla società Global Brain. Castelli, per lo meno, è stato chiamato a dividere la spesa con due suoi ex collaboratori. Fra i quali c'è un nome ricorrente, nelle cronache di questi giorni: quello di Alfonso Papa, che del ministro leghista fu vice capo di gabinetto.


La Sicilia dei record: uno su tre è indagato
di ENRICO DEL MERCATO, ANTONIO FRASCHILLA, EMANUELE LAURIA
Nell'Assemblea regionale 28 deputati su 90 hanno avuto o hanno ancora a che fare con la giustizia. L'ultimo della lista è Cateno De Luca. Arrestato dai Pm per "tentata concussione". Non mancano i condannati con sentenza definitiva

PALERMO - Uno su tre è indagato, sotto processo oppure è già stato condannato per reati che vanno dal peculato alla truffa, passando per associazione mafiosa e abusi d'ufficio vari. Un record, quello dell'Assemblea regionale siciliana, che vede 28 deputati su 90 nella poco onorevole lista di persone che hanno avuto o hanno ancora a che fare con la giustizia.

L'ultimo in ordine di tempo a essere finito agli arresti domiciliari è stato il deputato autonomista di Sicilia Vera, Cateno De Luca: i pm lo hanno arrestato per "tentata concussione" nella compravendita di un terreno nel suo Comune, Fiumedinisi, del quale è anche sindaco. A precedere De Luca, il Pid Fausto Fagone, finito in carcere per concorso in associazione mafiosa nell'ambito dell'inchiesta Iblis: la stessa inchiesta che vede indagato il presidente della Regione Raffaele Lombardo e il deputato Giovanni Cristaudo.

Ma le cronache siciliane ormai settimanalmente raccontano di politici regionali coinvolti in inchieste giudiziarie: agli arresti domiciliari è finito pure Riccardo Minardo, esponente dell'Mpa accusato di truffa ai danni dello Stato e dell'Unione europea. In manette anche Gaspare Vitrano, parlamentare del Partito democratico arrestato mentre intascava una presunta tangente per il fotovoltaico. Tra gli scranni dell'Assemblea regionale non mancano poi i condannati con sentenza definitiva e quelli che per evitare lunghi processi hanno patteggiato la pena. In questo secondo elenco c'è a esempio il deputato e sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca, che nel suo palmares vanta una non onorevole condanna definitiva per peculato: utilizzò l'autoblu fino in Puglia per partire in crociera con la moglie. Mentre Salvino Caputo, collega del Pdl che presiede la commissione Attività produttive, è stato condannato a due anni (pena sospesa) per abuso d'ufficio e falso ideologico in atto pubblico: secondo il Tribunale di Palermo, l'ex sindaco di Monreale nel 2004 avrebbe dispensato dal pagamento di multe automobilistiche un assessore e l'autista del vescovo.

Il Campione

La Galleria dei Pezzenti


.

P3, un testimone: “Negli anni ’90 maxi investimento di Carboni con la garanzia di B.” - di Rita Di Giovacchino.


Nelle carte della P3 il racconto dell'avvocato Stefano Gullo, classe 1923, autore di un "affidavit" pro Sindona e amico di Giulio Andreotti: "In cambio di un miliardo ricevetti soldi mai incassati, uno era firmato 'B.'"

Flavio Carboni

Dalle carte della P3 emerge un pezzo del passato che riporta agli investimenti in Sardegna di Silvio Berlusconi, ancora rampante imprenditore, e all’aiuto offerto dall’amico Flavio Carboni, procacciatore di affari già coinvolto nel crack dell’Ambrosiano. Anche lui più giovane, non ancora indagato per l’omicidio Calvi, da cui sarà assolto, ma già protagonista della fuga a Londra dove lo accompagnò vivo e tornò con una borsa vuota. Una pagina che più di altre racconta quanto siano profondi e antichi i legami tra i “soci fondatori” della P3, in particolare Dell’Utri e Carboni, con il presidente del Consiglio. Al centro della vicenda un prestito da un miliardo di lire che un incauto (o forse no) avvocato agrigentino, Stefano Gullo, consegnò a Carboni per contribuire alla costruzione di un residence in Sardegna. In cambio avrebbe ricevuto alcuni assegni mai incassati. Uno di questi, da 250 milioni, avrebbe recato la firma illeggibile di Berlusconi. Vedremo a chi appartenevano gli altri.

A raccontarla è stato lo stesso avvocato Gullo, classe 1923, un personaggio che potrebbe ispirare Camilleri. Nato da genitori italo-americani, nei primi anni 50 fu sindaco comunista di Ribera, paese dove ancora risiede. Ruppe con il Pci dopo un dissidio sulla sua ricandidatura e da quel momento si proclamò fervente anticomunista. In seguito sembra abbia fondato ad Agrigento una loggia del Grande Oriente d’Italia. L’episodio di maggior rilievo fu l’affidavit a favore di Michele Sindonache, nel dicembre 1976, i legali del banchiere presentarono alla giustizia americana per contrastarne l’estradizione. Tra le dichiarazioni giurate , insieme a personaggi come CarmeloSpagnuolo, Edgardo Sogno, Licio Gelli, John Mc Caffery, Philip Guarino e Anna Bonomi, c’è anche quella di Stefano Gullo.

Dalla P2 alla P3 il passo è breve. Dal processo di Palermo emergerà che fu Andreotti a sollecitare la difesa di Sindona negli Usa e quel filo di riconoscenza tra il senatore e l’avvocato siciliano sembra non essersi mai spezzato. Nel 1993, quando il figlio Giovanni fu arrestato per detenzione di cocaina, assolto e poi condannato, la Cassazione rinvierà gli atti al Tribunale con motivazioni che consentirono di chiudere il processo con la piena assoluzione. Un episodio tra i tanti che porterà la procura di Palermo a indagare sull’ex presidente Corrado Carnevale, poi pienamente assolto.

Ma Gullo, il primo febbraio scorso, al procuratore Capaldo e all’aggiunto Sabelli, che lo avevano convocato per chiarire il significato di un fax inviato nel luglio 2010 a Carboni, subito dopo l’arresto, racconta i suoi rapporti con Sindona in tutt’altro modo: “Tra il 1982 e il 1985 ho vissuto negli Stati Uniti. Ricevetti da Max Corvo dei servizi segreti americani (Oss) l’incarico di verificare se Sindona fosse innocente o colpevole nella bancarotta della Franklin Bank. Preparai un rapporto nel quale concludevo per la colpevolezza di Sindona”. Non è stato però in grado di recuperare il documento. Il motivo per il quale era stato convocato dai pm era proprio quel fax in cui l’avvocato chiedeva a Carboni di onorare un debito del 1990, pregandolo di chiedere aMarcello Dell’Utri di saldare i 120 mila euro dovuti, in modo da alleggerire quel miliardo mai restituito: “Conobbi Carboni negli anni 90 – dichiara Gullo – mi disse che aveva degli affari in corso con Berlusconi, doveva comprare dei terreni per costruire villaggi turistici. Vendetti alcuni appartamenti di pregio a Palermo e gli consegnai un miliardo di lire. A garanzia mi diede cinque, sei assegni. Due erano a firma di un certo Nicolosi girati alla signora Vallone. Gli altri avevano firme illeggibili, in uno si distingueva una B, lui mi disse che era di Berlusconi, mi chiese di non metterli all’incasso”. Poi aggiunge: “Ho preferito mantenere con Carboni buoni rapporti per recuperare qualcosa, che Dell’Utri doveva a lui 120mila euro l’avevo letto sui giornali”.

Storia intrisa di messaggi. Ognuno dei personaggi citati riporta a scenari che hanno fatto da sfondo agli investimenti in Sardegna di Berlusconi, già oggetto di vari processi. Protagonista non soltanto Carboni, ma boss come Pippo Calò e Domenico Balducci, il primo capo della Banda della Magliana ucciso nel 1981. O intermediari come il commercialista siciliano Pietro Di Miceli.

La signora Alba Vallone è certamente moglie di Vittorio Pascucci, imprenditore in contatto con ambienti mafiosi sia romani che siciliani, il cui nome emerse nel corso del processo per bancarotta della Cassa rurale e artigiana di Monreale, indicata nelle cronache dei giornali locali come la “banca della mafia”. Per via dei suoi stretti rapporti con la famiglia Gambino, ma frequentata anche da Mangano, lo stalliere di Arcore. Meno certa l’identità di Nicolosi, ma all’interno di questa rete di relazioni potrebbe trattarsi di Stefano Nicolosi, presidente della Cram di Monreale. Nel corso del processo per bancarotta nei confronti di 11 funzionari della banca (poi assolti) il pentito della Magliana Antonio Mancini, lo riconobbe in foto: “L’ho incontrato in compagnia del Calò e della persona da me riconosciuta come Gambino Gaspare. Dai discorsi che vennero fatti, dal tono usato, ho avuto l’impressione che si trattasse di un intrallazzatore di denaro con l’edilizia. Dò atto che la persona corrisponde a Salvatore Nicolosi”. Fu nel corso di questo processo che si accertò che la villa di Flavio Carboni fu acquistata da Berlusconi.


Borse, mercati europei in picchiata Piazza Affari negativa: -3,2%


Si rafforza la corrente di vendite in Piazza Affari: l’indice Ftse Mib segna una perdita del 3,50%, l’Ftse All Share un ribasso del 2,97%. Sotto attacco i bancari. I titoli del settore, positivi nelle ultime sedute, tornano a fare i conti con pesanti ribassi. Il blocco delle vendite allo scoperto, deciso dall’Autorità di vigilanza dei mercati, non frena l’ondata di vendite che riportano Unicredit sotto quota 1 euro. Maglia nera del comparto per Intesa Sanpaolo a 1,249 euro (-5,24%), seguito da Unicredit a 0,995 (-3,59%). Tonfo per Banco Popolare a 1,247 euro (-4,08%), male Bpm a 1,618 (-2,29%) e Ubi banca a 2,758 euro (-1,71%). In rosso anche Mps a 0,4608 euro (-3,96%) e Mediobanca a 6,35 euro (-1,32%), annulla i guadagni Mediolanum a 2,518 euro (-1,72%).

Intanto l’ipotesi di Tobin tax e attesa per una raffica di dati macroeconomici dagli Stati Uniti nel primo pomeriggio (comprese le richieste di sussidi di disoccupazione) stanno appesantendo tutte le Borse europee. L’indice Stxe 600, che fotografa l’andamento dei principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente, cede oltre due punti percentuali, con Parigi in calo del 3,31% e Francoforte del 3,46%. Male anche Madrid (-2,99%). Milano cede il 3,74%.

Chiudono in calo le cinesi, con Hong Kong e Shanghai che superano l’1% di perdite. L’indice Hang Seng della borsa di Hong Kong ha terminato le contrattazioni bruciando 272,76 punti, pari a -1,34% rispetto alla chiusura precedente, finendo a 20.016,27 punti. La giornata, cominciata con l’indice a -0,14%, ha visto le contrattazioni arrivare anche in territorio positivo dopo poche ore, per poi cominciare a scendere fino al calo definitivo. Negativa anche Shanghai, che ha chiuso in flessione dell’1,61% a 2.559,47 punti.

Male anche la Borsa di Tokyo che per la seconda seduta consecutiva, viene trascinata al di sotto della soglia psicologica dei i 9.000 punti a causa soprattutto dei timori degli investitori nipponici riguardo i rischi di un’altra recessione negli Usa. Alla tendenza negativa ha inoltre contribuito l’apprezzamento dello yen sui mercati valutari, considerato eccessivo e potenzialmente nocivo per l’export giapponese. In chiusura l’indice Nikkei dei 225 titoli principali e’ sceso cosi’ ai nuovi minimi, toccando quota 8.943,76 dopo aver lasciato sul terreno 113,50 punti apri all’1,25%. Male oggi è andato anche il Topix relativo all’intero listino, che a sua volta ha perso 9,34 punti pari all’1,20% per attestarsi infine a quota 767,31.



Il governo punta a un nuovo scudo fiscale Evasori premiati e gli onesti pagano tutto. - di Mario Portanova


Il colpo di mano proprio mentre decollava l'idea di una tassazione bis sui capitali illeciti "rientrati" nel 2009-2010. Bersani: "Ci opporremo con ogni mezzo". Parla Simonetta Rubinato (Pd), che ha lanciato la proposta: "Non si può imporre il contributo di solidarietà alle famiglie senza toccare i soldi illeciti". Le associazioni di consumatori lanciano una manifestazione il 15 settembre, con sit in a Montecitorio.

Elisabetta Rubinato (Pd), ideatrice della tassazione bis sui capitali scudati da Tremonti nel 2009-2010

Dicono che che una nuova tassa sui capitali scudati sarebbe “suscettibile di obiezioni sotto il profilo costituzionale” e di “difficile realizzazione pratica”. Così, secondo indiscrezioni filtrate ieri sera, il governo si appresta a soffocare nella culla l’idea di far pagare i furbi invece dei contribuenti leali (già lanciata l’anno scorso da Il Fatto Quotidiano). Sarebbe stata una rivoluzione, invece si torna al vecchio, con una nuova edizione del provvedimento tremontiano già varato nel 2009-2010 e nel 2002-2003, questa volta con un’aliquota maggiore del 5% applicato l’ultima volta.

La doccia gelata arriva dopo un paio di giornate in segno nettamente contrario, durante le quali la proposta di un nuovo prelievo sui capitali rientrati aveva fatto breccia anche nella maggioranza di centrodestra senza che emergessero ostacoli tecnici e giuridici insormontabili. Certo, imporre una nuova tassa a chi due anni fa aveva “patteggiato” con il fisco un’imposta leggera sarebbe una forzatura. Giustificata, però, dal momento di emergenza e da alcuni provvedimenti drastici già adottati dal governo nella manovra bis, come il congelamento della liquidazione dei dipendenti pubblici, il contributo di solidarietà, la Robin Hood Tax.

Insomma, si può fare, e su questo decide di spendersi in prima persona Pier Luigi Bersani: “Dunque, ecco puntualmente arrivare la discussione che mi aspettavo”, scrive il segretario del Pd sulla sua pagina Facebook. “Questa è la sostanza del contendere: chiedere nell’emergenza un contributo straordinario ai condonati sarebbe illegale, sarebbe invece legale chiederlo ai tassati. Attendo con ansia che qualcuno si confronti con me pubblicamente su questa tesi. Porterò un elenco sterminato di casi in cui si sono introdotte deroghe al patto fiscale e al patto di cittadinanza”. E a proposito del nuovo scudo che il governo si appresterebbe a varare, Bersani avverte: “Noi ci opporremmo all’ennesimo scandalo con ogni mezzo a disposizione”.

La questione, allora, è soltanto politica. Lo ammetteva ieri sera, poche ore prima del voltafaccia governativo, anche il sottosegretario all’Economia Alberto Giorgetti,del Pdl: tassare i capitali già scudati “è tecnicamente difficile perché è difficile reperire i dati e ricostruire il percorso dei capitali a causa dell’anonimato. Certo”, aggiungeva significativamente, “la politica può anche superare questi ostacoli”. Curiosamente, quest’ultima parte della dichiarazione scompare in diversi articoli che oggi spiegano sui quotidiani come il provvedimento sia impossibile da adottare (per motivi mai ben specificati).

Sempre ieri, fonti governative interpellate dalle agenzie di stampa facevano filtrare una certa disponibilità: “Se non ci saranno ostacoli giuridici è possibile che alla fine si faccia, anche se la nostra posizione dipenderà anche dall’atteggiamento dell’opposizione”. Il prelievo sarebbe stato comunque “minimale, dell’1-2 per cento”.

Insomma, nonostante la fretta di accantonarla, la tassazione bis dei capitali scudati si può fare. Basta volerlo. Ne è convinta, naturalmente, la deputata del Pd Simonetta Rubinato, di professione avvocato, che è anche sindaco di Roncade, comune del trevigiano strappato al centrodestra. E’ stata lei, l’11 agosto, a lanciare l’idea di ribaltare sugli esportatori di capitali i sacrifici imposti ai contribuenti onesti. Dopo qualche giorno di silenzio, il Partito democratico l’ha fatta propria nelle controproposte alla manovra bis. E da quel momento ha conquistato proseliti in tutti gli schierimenti, dall’Italia dei Valori alla Lega, a Fli e al Pdl. E persino il presidente del consiglio Silvio Berlusconi sembrava disposto a discuterne.

Il dibattito sembrava concentrarsi soprattutto sull’aliquota da applicare, e certo qui la distanza era notevole. La maggioranza parlava di un’imposta “dell’1 o 2 per cento”, ma la visione della deputata del Pd è ben più radicale: “Prima di ogni altra richiesta ai cittadini, alle imprese e alle famiglie deve essere stabilito un contributo di equità da chiedere, attraverso gli intermediari finanziari, a tutti coloro che hanno riportato in Italia i loro capitali sfruttando lo scudo fiscale”, spiega Rubinato aIlfattoquotidiano.it. “Considerato che l’aliquota minima Irpef è del 23%, dato atto che il 5% lo hanno già versato, chiediamo loro un contributo minimo pari al 18%, consentendo così allo Stato di incassare la somma di quasi 18 miliardi di euro”. Vale a dire quasi tutta la manovra per il 2012, pari a 20 miliardi di euro. Le ultime dichiarazioni dalle fila del Pd si orientano su un prelievo del 15 per cento, comunque sostanzioso.

“Il calcolo si basa su dati ufficiali”, dice Rubinato. “Secondo il ministero delle Finanze, lo scudo del 2009 ha permesso la regolarizzazione di attività per 104,5 miliardi di euro e un incasso per l’erario di 5,6 miliardi. Basta applicare l’aliquota e il risultato è quello”. La scintilla che ha innescato l’iniziativa è stata l’indignazione per il contributo di solidarietà sui redditi superiori a 90 mila euro: “Chiedere solidarietà a una famiglia di contribuenti onesti è ridicolo e offensivo”, spiega, “se non si pretende prima che gli ‘scudati’ paghino almeno l’aliquota minima dell’Irpef. Di più, è da ‘Stato criminogeno’, per citare il titolo di un libro del ministro Giulio Tremonti. Una vergogna, da rivolta fiscale”.

L’esponente del Pd, provenienza Margherita, è convinta che si possa passare dalle parole ai fatti: “L’anonimato garantito dal provvedimento del 2009 può essere mantenuto demandando la riscossione dell’imposta agli stessi intermediari finanziari che hanno gestito la regolarizzazione dei capitali scudati”. Quanto al resto, “mi sembra che il governo non sia stato leggero con le altre categorie. E allora perché certe cautele dovrebbero valere solo per i furbi? Poi l’aliquota dell’1-2 per cento proposta dal centrodestra è ridicola, ma significa che la questione della costituzionalità la ritengono superata. E se vogliamo parlare di Costituzione, l’articolo 53 dice che i cittadini devono pagare le imposte ‘in ragione della loro capacità contributiva’”.

La deputata che ha dato la scossa al dibattito sulla manovra si trova in vacanza a Ischia e davanti a sé vede “una baia piena di barche. Scommetto che la stragrande maggioranza di quelli a cui sarà imposto il contributo di solidarietà la barca non ce l’ha. Sull’evasione è ora di cominciare a lavorare seriamente, perché la Corte dei conti ci dice che per raggiungere l’obiettivo europeo del rapporto deficit-pil al 60 per cento avremo altri vent’anni di manovre molto rigorose”.

Non vede problemi insormontabili neppure Maria Cecilia Guerra, direttore del Dipartimento di Economia politica dell’università di Modena e redattrice del sito di economia Lavoce.info. “Si tratterebbe di un prelievo straordinario e retroattivo”, afferma, “come la cosidetta Robin Hood Tax. Se si può imporre un contributo addizionale alle aziende energetiche, perché non dovrebbe essere possibile farlo con chi ha ‘scudato’ capitali illegittimamente detenuti all’estero? E’ solo una questione politica”. Oggi il commento di prima pagina di Il Sole 24-Ore, a firma di Guido Gentili, s’intitola “Supertassa retroattiva, uno schiaffo”. Non si riferisce alla tassazione bis sugli scudati, ma al contributo di solidarietà imposto a tutti i redditi sopra i 90 mila euro, “di fatto a partire dal 2011″.

Si può fare anche per l’Italia dei Valori, che anzi rilancia la posta: “Presenterò un emendamento che chiede la confisca dei capitali scudati”, annuncia il senatore Elio Lannutti, “e in alternativa la loro legalizzazione con aliquota del 20 per cento”. Opzione che comunque porterebbe nelle casse dello Stato “21 miliardi di euro”.

Lannutti è anche il presidente del’Adusbef, l’associazione a tutela dei consumatori finanziari. Insieme a Rosario Trefiletti, che guida Federconsumatori, lancia l’idea di una “marcia degli onesti contro gli evasori” in diverse città italiane, “con sit in finale a Montecitorio”. La data proposta è il 15 settembre, presumibilmente in pieno dibattito parlamentare sulla manovra. Eccone il manifesto: “Non esiste alcuna norma costituzionale che possa vietare un sacrosanto prelievo su evasori conclamati ed esportatori di capitali all’estero che hanno vissuto per decenni sulle spalle dei contribuenti onesti tassati alla fonte”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/18/il-governo-punta-a-un-nuovo-scudo-fiscale-evasori-premiati-e-gli-onesti-pagano-tutto/152034/

Leggi anche:

mercoledì 17 agosto 2011

Warren Buffett: alzatemi le tasse.

Il miliardario americano

terzo uomo più ricco del mondo,
attacca sul New York Times
il governo Usa: troppo buono
con noi ricchi e duro con i poveri

NEW YORK

Dov'è andato a finire il "sacrificio condiviso" di cui parlava il presidente degli Stati Uniti Barack Obama nei discorsi sulla ripresa economica? è quanto si chiede
Warren Buffett, il terzo uomo più ricco del mondo, in un editoriale sul New York Times in cui rimprovera Washington di non tassare abbastanza i miliardari americani. "Mentre i poveri e la classe media lotta per noi in Afghanistan e molti americani fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, noi multimilionari continuiamo ad avere straordinari sgravi fiscali", scrive l'investitore.

"I nostri leader ci hanno chiesto di condividere il sacrificio", ma l'élite dei più ricchi del paese "è stata risparmiata. Washington si sente in dovere di proteggerci come se fossimo una specie protetta. E' bello avere amici importanti", scrive il miliardario del Nebraska, numero uno del gruppo Berkshire Hathaway.

Mentre gli americani dai redditi medi pagano circa il 33 per cento delle tasse sulle loro entrate, Buffett ha pagato l'anno scorso solo il 17 per cento, quasi 7 milioni di dollari, "che potrebbe sembrare una cifra molto alta, ma in rapporto è meno di quanto hanno pagato il resto dei 20 dipendenti" che lavorano nel suo ufficio. Ma l'imprenditore non si vuole tirare indietro, e come lui, afferma, neanche i suoi amici miliardari: "Molti di loro sono persone rispettabili, che amano l'America e le sono grati per l'opportunità che gli ha dato. Alcuni hanno anche aderito a Giving Pledge", la campagna lanciata da Bill Gates che invita gli americani più ricchi a devolvere la metà del loro patrimonio a cause filantropiche, "e non sarebbe un problema essere tassati di più, specialmente quando i nostri concittadini stanno soffrendo veramente", afferma Buffett. "Suggerisco di alzare le tasse. Io e i miei amici siamo stati già abbastanza viziati dal Congresso che ha un debole per i miliardari. E' ora che il nostro governo diventi serio sul sacrificio congiunto", conclude l'investitore.


http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/415832/


Il primo film sul signoraggio + critica di fox business





Un privilegio da 200 milioni. - di Primo Di Nicola



La Casta taglia le pensioni degli italiani, ma non tocca le proprie. Per i parlamentari il diritto al vitalizio scatta dopo soli cinque anni di mandato. Con contributi molto bassi. E con compensi incassati anche prima dei 50 anni. Così 2.307 tra ex deputati ed ex senatori si mettono in tasca ogni mese fino a settemila euro netti.

Giovanotti con un grande avvenire dietro le spalle che si godono la vita dopo gli anni di militanza parlamentare. Come Alfonso Pecoraro Scanio, ex leader dei Verdi ed ex ministro dell'Agricoltura e dell'Ambiente. Presente alla Camera dal 1992, nel 2008 non è riuscito a farsi rieleggere e con cinque legislature nel carniere è stato costretto alla pensione anticipata. Ma nessun rimpianto. Da allora, cioè da quando aveva appena 49 anni, Pecoraro Scanio riscuote il vitalizio assicuratogli dalla Camera: ben 5.802 euro netti al mese che gli consentono di girare il mondo in attesa dell'occasione giusta per tornare a fare politica.

Oliviero Diliberto è un altro grande ex uscito di scena nel 2008 causa tonfo elettorale della sinistra. Segretario dei Comunisti italiani ed ex ministro della Giustizia, con quattro legislature alle spalle e ad appena 55 anni, anche lui si consola riscuotendo una ricca pensione di 5.305 euro netti. Euro in più, euro in meno, la stessa cifra che spetta a un altro pensionato-baby della sinistra, addirittura più giovane di Diliberto: Pietro Folena, ex enfant prodige del Pci-Pds, passato a Rifondazione e trombato nel 2008 quando, con le cinque legislature collezionate, a soli 51 anni ha cominciato a riscuotere 5.527 euro netti al mese.

Davvero niente male, considerando le norme restrittive che le varie riforme pensionistiche dal 1992 hanno cominciato ad introdurre per i comuni cittadini. Norme ferree per tutti, naturalmente, ma non per deputati e senatori che, quando si è trattato di ridimensionare le proprie pensioni, si sono ben guardati dal farlo. Certo, hanno accettato di decurtarsi il vitalizio con il contributo di solidarietà voluto da Tremonti per le "pensioni d'oro" e pari al 5 per cento per i trattamenti compresi fra i 90 e i 150 mila euro (una penalizzazione che tocca solo i parlamentari con oltre i 15 anni di mandato), ma per il resto hanno evitato i sacrifici imposti agli altri italiani. Tutto rinviato alla prossima legislatura quando, almeno stando all'annuncio del questore della Camera Francesco Colucci, e a una proposta del Pd, potrebbe entrare in vigore un nuovo modello pensionistico contributivo. A Montecitorio, però, il clima è rovente. Pochi giorni fa il presidente Gianfranco Fini non ha ammesso un ordine del giorno dell'Idv, che chiedeva l'abolizione dei vitalizi ("Un furto della casta", secondo il dipietrista Massimo Donadi). Secondo Fini, i diritti acquisiti non si toccano, al massimo si potrà discutere della riforma.

IL CLUB DEI CINQUE
Nel frattempo, l'andazzo continua, con l'esercito dei parlamentari pensionati che si ingrossa sempre più, fino a toccare il record dei 3.356 vitalizi erogati fra le 2.308 pensioni dirette e le reversibilità, divise tra le 625 alla Camera e 423 al Senato. Un fardello che si traduce ogni anno in una spesa di 200 milioni di euro, oltre 61 dei quali pagati da palazzo Madama e i restanti 138 da Montecitorio. In questo pozzo senza fondo del privilegio ci sono anzitutto i superfortunati che con una sola legislatura, cioè appena cinque anni di contribuzione, portano a casa il loro bravo vitalizio. Personaggi anche molto noti e quasi sempre ancora nel pieno dell'attività professionale. Nell'elenco compare Toni Negri, ex leader di Potere operaio, docente universitario e scrittore. Venne fatto eleggere mentre era in carcere per terrorismo nel 1983 dai radicali di Marco Pannella. Approdato a Montecitorio, Negri ci restò il tempo necessario per preparare la fuga e rifugiarsi in Francia. Ciononostante, oggi percepisce una pensione di 2.199 euro netti. Stesso importo all'incirca riscosso da un capitano d'industria come Luciano Benetton (al Senato nel 1992, restò in carica solo due anni per lo scioglimento anticipato della legislatura) e da un avvocato di grido come Carlo Taormina. E sono solo due casi tra i tanti. Nel "club dei cinque" sono presenti quasi tutte le categorie lavorative, con nomi spesso altisonanti. Compaiono intellettuali come Alberto Arbasino, Alberto Asor Rosa.

e Mario Tronti. Giornalisti di razza come Enzo Bettiza, Eugenio Scalfari, Alberto La Volpe, Federico Orlando; altri avvocati di grido come Raffaele Della Valle, Alfredo Galasso e Giuseppe Guarino; star dello spettacolo come Gino Paoli, Carla Gravina ePasquale Squitieri. Tutti incassano l'assegno calcolato con criteri tanto generosi quanto lontani da quelli in vigore per i comuni lavoratori.

GIOCHI DI PRESTIGIO

Per i deputati eletti prima del 2008 (per quelli nominati dopo è stata introdotta una modesta riforma di cui solo tra qualche anno vedremo gli effetti) vale il vecchio regolamento varato dall'Ufficio di presidenza di Montecitorio nel 1997. Dice che i deputati il cui incarico sia cominciato dopo il '96 maturano il diritto al vitalizio a 65 anni, basta aver versato contributi per cinque. Fin qui, nulla da dire: il requisito dei 65 pone i deputati sulla stessa linea stabilita per la pensione di vecchiaia dei comuni cittadini. Ma basta scorrere il regolamento per scoprire le prime sorprese. L'età minima dei 65 anni si abbassa di una annualità per ogni anno di mandato oltre i cinque prima indicati, sino a toccare la soglia dei 60. E non è finita. Alla Camera ci sono ancora un gran numero di eletti prima del '96 e per questi valgono le norme precedenti. Secondo queste norme il diritto alla pensione si matura sempre a 65 anni, ma il limite è riducibile a 50 anni e ancor meno (come nel caso di Pecoraro Scanio), facendo cioè valere le altre annualità di permanenza in Parlamento oltre ai cinque anni del minimo richiesto. Questo accade nell'Eldorado di Montecitorio.

A palazzo Madama gli eletti si trattano altrettanto bene. Un regolamento del 1997 stabilisce che i senatori in carica dal 2001 possono, come alla Camera, andare in pensione al compimento del sessantacinquesimo anno con cinque anni di contributi versati. Ma attenzione, anche qui dal tetto dei 65 si può scendere eccome. Possono farlo tutti i parlamentari eletti prima del 2001. Per costoro, il diritto alla pensione scatta a 60 anni se si vanta una sola legislatura, ma scende a 55 con due mandati e a 50 con tre o più legislature alle spalle.


IL BABY ONOREVOLE
Dall'età pensionabile alla contribuzione necessaria per la pensione, ecco un altro capitolo che riporta agli anni bui delle pensioni baby. Si tratta delle pensioni che consentivano alle impiegate pubbliche con figli di smettere di lavorare dopo 14 anni, sei mesi e un giorno (i loro colleghi potevano invece farlo dopo 19 anni e sei mesi). Ci volle la riforma Amato del '92 per cancellare lo sfacciato privilegio. Ma cassate per gli statali, le pensioni baby proliferano tra i parlamentari. Secondo il trattamento Inps in vigore per tutti i lavoratori, ci vogliono almeno 35 anni di contributi per acquisire il diritto alla pensione. I parlamentari invece acquisiscono il diritto appena dopo cinque anni e il pagamento di una quota mensile dell'8,6 per cento dell'indennità lorda (1.006 euro). Fino alla scorsa legislatura le cose andavano addirittura meglio per la casta. Bastava durare in carica due anni e mezzo per assicurarsi il vitalizio (è il caso di Benetton). Il restante delle annualità mancanti per arrivare a cinque potevano essere riscattate in comode rate. Nel 2007 è arrivato un colpo basso: i cinque anni dovranno essere effettivi. Una mazzata per Lorsignori, che si rifanno con la manica larga con la quale si calcola il vitalizio.

RIVALUTAZIONE D'ORO
Sino agli anni Novanta, tutti i lavoratori avevano diritto a calcolare la pensione sui migliori livelli retributivi, cioè quelli degli ultimi anni (sistema retributivo). Successivamente, si è passati al sistema contributivo per cui la pensione è legata invece all'importo dei contributi effettivamente versati. Il salasso è stato pesante. Per tutti, ma non per i parlamentari. Che sono rimasti ancorati a un vantaggiosissimo marchingegno. Invece che sulla base dei contributi versati, deputati e senatori calcolano il vitalizio sulla scorta dell'indennità lorda (11 mila 703 euro alla Camera) e della percentuale legata agli anni di presenza in Parlamento. Con 5 anni di mandato si riscuote così una pensione pari al 25 per cento dell'indennità, cioè 2 mila 926 euro lordi. Raggiungendo invece i 30 anni di presenza si tocca il massimo, l'80 per cento dell'indennità che in soldoni vuol dire 9 mila 362 euro lordi. Vero che con una riforma del 2007 Camera e Senato hanno ridimensionato i criteri di calcolo dei vitalizi riducendo le percentuali: si va da un minimo del 20 dopo cinque anni al 60 per 15 anni e oltre di presenza in Parlamento. Ma a parte questa riduzione, gli altri privilegi restano intatti. Con una ulteriore blindatura, che mette al sicuro dall'inflazione e dalle altre forme di svalutazione: la cosiddetta "clausola d'oro", per cui i vitalizi si rivalutano automaticamente grazie all'ancoraggio al valore dell'indennità lorda del parlamentare ancora in servizio.


Leggi anche: