martedì 11 ottobre 2011

Corte dei Conti boccia la riforma fiscale: “Colpisce i deboli”.







La riforma fiscale “non ha copertura finanziaria” e questo rende i suoi esiti “incerti” anche perché oggi gli obiettivi devono “coesistere con più ristretti spazi di manovra”. Lo ha detto il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, nel corso dell’audizione sul provvedimento alla commissione Finanze della Camera. Il vertice della magistratura contabile ha fatto notare che una parte delle coperture – come l’aumento dell’Iva e delle aliquote sulle rendite finanziarie – sono state utilizzate dal decreto di agosto.
Le incertezze riguardano anche la “molteplicità e rilevanza” degli “obiettivi perseguiti” che rischiano di generare “un conflitto nella destinazione delle risorse acquisibili”. Gli obiettivi sono essenzialmente due: la riforma tributaria da un lato e la messa in sicurezza dei conti pubblici dall’altro. Tutto questo, ha spiegato Giampaolino, rende “necessario esplorare fonti di gettito nuove, in direzione di basi imponibili personali o reali che non insistano sul lavoro e sulle imprese”: insomma, il presidente dell’organo della magistratura contabile non nomina mai esplicitamente la patrimoniale, ma il riferimento è abbastanza chiaro, specie dopo la precisazione che i tagli lineari alle agevolazioni “avrebbero effetti recessivi”. Inoltre, i criteri direttivi del ddl sono, secondo il vertice della Corte, “generici e indeterminati”, ma, ciononostante, non è tutto da buttare: i propositi di riforma del sistema tributario sono definiti “attuali” e “in linea con le esigenze di ripresa”. L’altro grande difetto della riforma fiscale individuato dalla magistratura contabile è il taglio della spesa sociale, che, così come è prefigurato, è “difficile da percorrere”, perché finirebbe per colpire i ceti più deboli e in più avrebbe gli stessi effetti negativi per l’economia del Paese “di quelli derivanti da un prelievo fiscale eccessivo e distorto”.
Quanto all’eliminazione dell’Irap, è di “ardua realizzazione” ed è in contrasto con il federalismo fiscale, che “attribuisce alle regioni, nell’ambito della loro autonomia impositiva, la potestà di ridurre l’aliquota. L’aspetto del “confine e il raccordo” rispetto all’impianto del federalismo è, ha detto ancora il presidente Giampaolino, “poco chiaro”, così come la previsione normativa che prefigura l’introduzione dell’imposta sui servizi “si limita a dettare il principio della concentrazione e della razionalizzazione in un’unica obbligazione fiscale e in un’unica modalità di prelievo di una sommatoria di tributi ma senza indicare il presupposto di imposta”. Un testo però, avvisa la Corte, va approvato e anche “in tempi stringenti”, per impedire che “risulti inevitabile l’attivazione della clausola di salvaguardia”. Se non diventano operative le nuove misure, infatti, dovrà essere applicata la clausola inserita nella misura di agosto, che prevede un taglio del 10 per cento a tutte le agevolazioni.


Bilancio, governo battuto alla Camera. Stop al ddl intercettazioni. Cicchitto e La Russa: “Berlusconi ora chieda la fiducia in aula”






L'esecutivo va sotto per un voto nell'aula di Montecitorio. Dito puntato verso gli assenti: dai Responsabili a Scajola e lo stesso Tremonti. L'opposizione chiede le dimissioni del presidente del Consiglio. Fini: "Chiare implicazioni politiche".



“Verificare la fiducia in Parlamento”. Non è più Gianfranco Fini o l’opposizione a invocare una verifica della maggioranza, ma sono i ministri del governo a chiedere a Berlusconi di contarsi in aula. Del resto la bocciatura alla Camera dell’articolo uno dell’assestamento di Bilancio era un evento non solo inatteso ma mai accaduto nella storia della Repubblica. Così, prima Marco Reguzzoni della Lega ha invocato il ritiro del ddl intercettazioni, poi Cicchitto ha annunciato che la legge Bavaglio sarebbe stata rinviata, infine con Ignazio La Russa ha chiesto a Berlusconi di avviare una verifica parlamentare. L’opposizione insorge e chiede che il premier vada direttamente al Colle a rassegnare le dimissioni.

L’esecutivo è stato battuto nel peggiore dei modi nell’aula di Montecitorio sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2010. I deputati hanno bocciato l’articolo 1 del testo. Lo scivolone in Aula è arrivato proprio quando da poco in aula era entrato Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio è stato quindi ‘salutato’ dal grido “dimissioni-dimissioni” che si è levato dai banchi dell’opposizione.
Con 290 voti a favore e 290 contrari l’aula della Camera ha bocciato il primo articolo delrendiconto generale dello Stato. La maggioranza richiesta era di 291 voti. Il presidente del Consiglio è sembrato allibito nel vedere il risultato della votazione. E’ rimasto per un po’ seduto al banco del governo, poi ha scambiato qualche parola con i ministri vicini. Alla fine si è alzato e, senza salutare nessuno dei ministri ma intrattenendosi brevemente con il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto, ha lasciato l’emiciclo, scuotendo vistosamente un foglio che aveva in mano.

Berlusconi incontra Tremonti
Dopo la bocciatura in aula, Berlusconi si è incontrato con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Nella sala del governo, dove si svolge l’incontro tra il premier e il ministro dell’Economia, sono entrati altri ministri e parlamentari, tra i quali il ministro dell’Agricoltura, Saverio Romano, quello per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, la responsabile del dicastero per il Turismo, Michela Brambilla, il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto e quello di Popolo e territorio, Silvano Moffa. All’incontro sono presenti anche Denis Verdini, coordinatore del Pdl, e Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera.

Il premier infuriato
Il premier, secondo fonti parlamentari della maggioranza, subito dopo il voto con il quale l’assemblea ha mandato sotto il governo sul rendiconto dello Stato, ha raggiunto scuro in volto l’aula del governo di Montecitorio, con in mano l’elenco degli assenti. In particolare, Berlusconi avrebbe storto il naso proprio per l’assenza al voto dei due big al voto, Giulio Tremonti e, appunto, Scajola. E in serata, l’ex ministro incontrerà l’altro “dissidente”, Beppe Pisanu. C’è però un altro elemento che conferma la turbolenza in corso nella maggioranza. Berlusconi, a sorpresa, ha aperto alla riforma della legge elettorale: “Il premier ha detto che alla riforma dell’architettura dello Stato potrebbe essere abbinata quella della legge elettorale, a condizione che si mantenga linea del Piave del bipolarismo”. Lo ha riferito Angelino Alfano nel corso di una riunione con i coordinatori del partito tenutasi oggi a via dell’Umiltà. E’ durato quasi tre ore l’incontro apalazzo Grazioli tra il premier, Silvio Berlusconi, e l’ex ministro delle attività produttive, Claudio Scajola. “E’ stata una chiacchierata sincera tra amici”, ha detto soltanto Scajola al termine dell’incontro. Nella residenza romana del premier erano presenti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e il segretario del Pdl, Angelino Alfano.


Claudio Scajola abusivo a sua insaputa.




Costruito un campetto da calcio con spogliatoi nel Ponente ligure. Senza autorizzazione

Claudio Scajola è evidentemente un perseguitato. Pensate: non solo i magistrati di Perugia, ma persino a casa sua lo beccano a costruire abusivamente, e gli tocca pagare la multa. Con il piccolo dettaglio che a dirigere i lavori c’è il geometra Gianfranco Gaggero, assessore alle opere pubbliche del comune di Imperia. Ovvero, scrive Ferruccio Sansa sul Fatto, proprio colui al quale doveva chiedere il permesso.


Per Scajola, che nelle sua Imperia viene ancora chiamato “u ministr u”, è la terza volta che il cemento nasconde una rogna. Certo, in passato gli è andata peggio: prima c’è stato l’appar tamento con vista sul Colosseo, che, secondo i pm, sarebbe stato pagato dall’imprenditore Diego Anemone con 80 assegni circolari da 12.500 euro. Parliamo della famosa casa comprata, disse l’allo – ra ministro, “a sua insaputa”. La Procura di Roma l’ha indagato per violazione della legge sul finanziamento illecito ai partiti. POI SULLA TESTA dell’ex ministro è piovuta un’altra tegola che pochi ricordano: “u ministr u” è ancora indagato per associazione a delinquere insieme con l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone (uno dei patrioti della cordata Alitalia). Oggetto dell’inchiesta la costruzione del mega-porticciolo di Imperia, un’opera da 140 milioni di euro fortemente voluta da Scajola. Insomma, da un politico scafato  come l’ex ministro ci si sarebbe aspettato che si muovesse con i piedi di piombo. E invece due anni fa ha deciso di realizzare nuove costruzioni nei terreni della sua villa da sogno: ecco allora il campetto per le partitelle con amici e parenti, poi gli spogliatoi, quindi muretti a secco e qualche sentiero.

Non un ecomostro, ma bisogna tener presente dove siamo: Parliamo di una zona vincolata, uno degli angoli più belli del Ponente ligure. E la villa di Scajola è una via di mezzo tra un’abitazione e un monumento: 29 stanze affacciate sul Golfo di Imperia, un complesso capace di ospitare nel 2002 il vertice tra gli allora ministri dell’In – terno italiano e francese, Claudio Scajola e Nicolas Sarkozy. Un edificio tanto semplice quanto elegante, finito sulle pagine patinate dei magazine di mezza Italia, con le fotografie dell’a l l o ra ministro e della signora Maria Teresa Verda ritratti in mezzo ai saloni scintillanti, nel parco e in sella a moto d’epoca. Mentre i cronisti entusiasti scrivevano: “Più che il ministero dello Sviluppo economico avrebbero dovuto dargli quello dell’ambiente”. Scajola disse: “Da casa nostra si cattura tutta Imperia”, una frase che a qualcuno parve quasi un’allu – sione allo strapotere dell’a l l o ra ministro sul Ponente ligure. Ma qualcosa lo stesso mancava a quel paradiso. Così Scajola ha deciso di aggiungere l’impianto sportivo privato.


Senza permesso. Salvo poi “autodenunciarsi” 


La pratica alla fine è arrivata sui tavoli della Sovrintendenza e del Comune. Così il 7 giugno la Sovrintendenza ha dichiarato la conformità delle opere, ma “u ministru” ha dovuto pagare 4.000 euro di sanzione (il massimo previsto). Poi la parola è passata al Comune, che ha concesso il permesso dopo il pagamento di un’oblazione di 1.288 euro. Giovanni De Cicco, l’ingegnere che ha presentato il progetto assicura: “Il progetto è compatibile con le norme, sennò non ci avrebbero dato il parere favorevole”. GAGGERO, vicesindaco e titolare dell’impresa che ha costruito, spiega: “È tutto secondo la legge. In quella zona il piano regolatore prevede che si possano costruire gli impianti che abbiamo re a l i z z a t o ”. Aggiunge: “Noi lavoriamo da quindici anni per Scajola e sappiamo che lui ci tiene a rispettare la legge. È stato lui a insistere per pagare il massimo delle sanzioni previste”. Gaggero è uomo di fiducia di Scajola. Gli è vicino anche Paolo Strescino, il sindaco. Sindaci, vicesindaci, membri del cda di banche e autostrade, “u ministru” nel Ponente è ancora monarca assoluto, in barba agli scandali romani e alle i n ch i e s t e .


http://www.giornalettismo.com/archives/156705/claudio-scajola-abusivo-a-sua-insaputa/

Wall Street Journal: “Conti italiani truccati per entrare nell’euro”. - di Matteo Cavallitto

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“Ci sono tutte le ragioni per credere che il governo italiano sia stato non meno ‘aggressivo’ di altri Paesi europei nel mascherare il reale stato dei suoi conti pubblici per guadagnarsi il diritto di entrare nell’euro”. E’ questa la pesante accusa lanciata in queste ore dal Wall Street Journal in un editoriale firmato Alen Mattich. Un attacco diretto quanto severo che sembra in grado di agitare ancora una volta i mai sopiti i fantasmi della nostra recente storia contabile. Epopea, quest’ultima, niente affatto rassicurante, specialmente in relazioni ai paragoni poco lusinghieri che riesce ad evocare.
“Ricordatevi dello shock patito dagli investitori quando la Grecia ammise di aver falsificato le sue cifre (contabili – ndr)” ammonisce il Wsj. Da quel momento, prosegue l’editoriale, si capì che gli interventi della Bce negli acquisti dei bond sovrani non sarebbero stati efficaci, limitandosi, al contrario, a posticipare semplicemente la temuta resa dei conti. Il problema, ora, è che “il mercato sta probabilmente sottovalutando tanto “il livello di difficoltà patito dall’Italia” quanto il fatto che lo stato reale delle sue finanze pubbliche “è peggiore di quanto dichiarato”. Insomma, se la misura reale del debito e/o del deficit italiano fosse maggiore rispetto a quella dipinta dalle cifre ufficiali, spiega il quotidiano Usa, quello che è stato visto fino ad ora come un “problema di liquidità” potrebbe quindi “trasformarsi in un problema di insolvenza”.
Il riferimento alla Grecia non è casuale. Nel febbraio 2010, il settimanale tedesco Der Spiegel rivelò senza timori di smentita che i conti pubblici greci erano fasulli. Dieci anni fa, spiegò, la Grecia non aveva tutti i requisiti necessari per entrare nell’euro, motivo, quest’ultimo, che spinse il governo di Atene a intraprendere una spericolata operazione di make up contabile attraverso il ricorso ad alcuni dei derivati finanziari più complessi in circolazione: gli inquietanti cross-currency swaps. Fu grazie al loro utilizzo che la Grecia riuscì a convertire in euro le sue emissioni obbligazionarie in dollari e yen attraverso un cambio realizzato a tassi fittizi capaci, a loro volta, di garantire alle casse nazionali un credito maggiore rispetto a quello reale. Un effetto temporaneo, ovviamente, visto che alla scadenza dei derivati scatta la riconversione dei titoli nelle valute originarie e con essa il carico di nuove perdite sul bilancio.
Strategista del trucco contabile era stata allora una delle prime banche del Pianeta, la statunitense Goldman Sachs che, nell’occasione, aveva potuto incassare al volo le laute commissioni dell’operazione. Quest’ultima rivelazione aveva contribuito non poco ad alimentare le allora fortissime perplessità della Germania nei confronti di Mario Draghi per il quale, proprio in quel momento, si iniziava a ipotizzare un’eventuale ascesa al trono della Bce. Draghi, che in passato aveva lavorato per la Goldman, ha sempre negato di essere stato a conoscenza dell’operazione di restyling contabile di Atene e nessuno – ed è per altro difficile pensare che qualcuno non ci abbia provato con tutte sue le forze – è mai riuscito a dimostrare il contrario.
Ad alimentare i malumori dei celebri “falchi della Bundesbank”, occorre ricordarlo, ci pensò allora anche una preoccupante analogia con la storia contabile italiana di cui, inevitabilmente, si riprese a parlare proprio in quel momento. Con qualche anno di anticipo rispetto ad Atene, scrisse il Financial Times, anche l’Italia aveva fatto ricorso a un trucco simile. Nel 1997, la Penisola utilizzò un maxi swap in grado di riequilibrare il rapporto lira/Yen nell’ambito di un’emissione in valuta nipponica per un controvalore di 1,6 miliardi di dollari. L’iniziale plusvalenza si sarebbe trasformata in una perdita nel lungo periodo.
Non è chiaro, per il momento, se i riferimenti odierni del Journal corrano solo a questa operazione oppure comprendano altre esperienze analoghe e tuttora sconosciute. Ma forse, allo stato attuale dell’abnorme debito pubblico, ormai equivalente al 120% del Pil (cioè il doppio del limite massimo imposto dall’ultimo Patto di stabilità Ue), è decisamente più una questione di principio che di aritmetica. Come a dire che di fronte a un debito che vale circa 1.200 volte tanto, un (vecchio) trucco finanziario da 1,6 miliardi potrà anche non incidere granché in termini strettamente contabili. Ma ciò non toglie che nella sua veste di “precedente” storico possa danneggiare e non poco la credibilità di un Paese che qualcuno, dall’interno, sta già per altro mettendo a dura prova. “Quando la scorsa settimana ha ipotizzato di cambiare nome al suo partito” ha ironizzato il Wsj “il primo ministro Silvio Berlusconi ha suggerito qualcosa di osceno. I detentori dei bond italiani saranno probabilmente d’accordo”.


Il condono. - di Lino Casadei



Assalto a Tremonti. - di Tommaso Labate




Manovre. Altro che destini incrociati. La salvezza di Milanese, che inizia a mandare messaggi in codice, coincide con l’attacco finale a «Giulio». Che confida: «Non mi dimetto».



Ma come? La salvezza di Milanese non doveva coincidere con quella di Tremonti? Al contrario, nel giorno in cui il suo ex braccio destro viene salvato dal carcere, i berluscones avviano l’attacco finale contro «Giulietto». Pubblicamente. Con dichiarazioni a tappeto.
Non è vero che i conti non tornano. «È vero», come spiega uno smaliziato berlusconiano della prima cerchia del Cavaliere, «il contrario. I conti tornano perfettamente». Marco Milanese, da ex braccio destro di Tremonti, rischia di diventare il suo più grande accusatore. Nel partito del premier si sprecano le richieste di ridurre il potere del titolare dell’Economia «spacchettando il dicastero di via XX settembre». Come suggerisce - da ieri - anche Daniela Santanché. E il premier, a sentire i suoi confidenti delle ultime ore, è pronto a qualsiasi passo pur di provocare le dimissioni del suo ministro più odiato. Qualsiasi passo. Persino, come gli è balenato in testa negli ultimi giorni, «quello di tenere Giulio al Bilancio», promuovendo il collega che Tremonti odia di più - Renato Brunetta - «al Tesoro». Una suggestione, nulla di più. Destinata a rimanere tale soltanto perché, come più d’uno ha fatto notare al Cavaliere, «Bossi, che detesta Brunetta, si rivolterebbe come una furia».
Fin qui il gioco politico. La guerra tra chi sta con Berlusconi e chi con Tremonti. Che, parlando con un amico poche ore dopo il voto su Milanese, ha messo le mani avanti col fare di chi ha capito benissimo quello che si muove attorno a lui: «Tanto non mi dimetto. Non mi muovo da dove sto». È una guerra che, come in un classico caso di eterogenesi dei fini, sta portando tutta l’ala critica nei confronti del premier a schierarsi dalla parte di «Giulietto». Gianni Alemanno, che su Repubblica di ieri ha escluso una ricandidatura di «Silvio» nel 2013, lo dice chiaramente: «Tremonti ha sbagliato a disertare il voto su Milanese? Secondo me, no». Come lo dice Alessandra Mussolini, da tempo lontana dal berlusconismo ortodosso di Daniela Santanché e compagnia: «Con la sua assenza, Tremonti ha marcato una distanza, sapendo che le opposizioni volevano farci cadere e che c’era molta tensione sul voto. Dobbiamo accendere un cero a Sant’Antonio».
Ma fuori dal gioco politico, c’è una partita a scacchi dall’esito imprevedibile. Che collega i Palazzi della politica alle stanze delle procure. Il primo tassello di un puzzle scombinato è proprio Marco Milanese. Un uomo che, dopo essere stato salvato dall’Aula di Montecitorio, ha cambiato la propria posizione sulla scacchiera. Sembra parlare solo per messaggi in codice, ormai, l’ex braccio destro di Tremonti. Ieri, durante un’intervista a Klauscondicio, ha evocato «il tema» a cui probabilmente il superministro si riferiva quando, mesi fa, accusò Berlusconi di volerlo stritolare con la macchina del fango. Dice Milanese: «Certe dicerie sul rapporto tra me e Tremonti non mi hanno ferito assolutamente. Anche perché non ci sarebbe nulla di male, se non fossero inventate di sana pianta». Fin qui tutto, o quasi, nella norma. Ma il passaggio chiave dell’intervista a Klaus Davi è un altro: «Se fosse vero», dice sempre riferendosi alle dicerie di cui sopra, «non avrei timore a dirlo». E ancora, quasi a chiarire il concetto: «Ribadisco, anche fosse vero, non avrei timore a dirlo».
Passa qualche ora e Milanese si sottopone alle domande di Giuseppe Cruciani alla Zanzara, su Radio 24: «Penso ogni giorno a Papa (il deputato del Pdl arrestato a luglio, ndr) e vorrei andarlo a trovare ma non bisogna dimenticare che io sono un teste nel suo procedimento sulla P4». E le cordate nella Guardia di Finanza, che sono al centro di quell’inchiesta? «Sono solo ambizioni e legittime aspirazioni. Cordata è un termine sbagliato», dice adesso.
Tra i berlusconiani ortodossi c’è persino chi si sorprende dello stupore altrui. Chi si domanda retoricamente: «Ma pensate davvero che Milanese, dopo essere stato salvato dalla Camera, sia lo stesso uomo di prima?». E se non è lo stesso Milanese di prima, quale sarà la sua nuova parte in commedia? Il finiano Benedetto Della Vedova, riferendosi alle polemiche di giovedì sull’assenza di Tremonti da Montecitorio, dice: «Su di lui stanno usando un linguaggio da cosca». E Angiola Tremonti, intervistata a Un giorno da pecora su Radio Due, manda un consiglio al fratello: «Mandi tutti al diavolo. Che ci azzecca con questa gente?». Ma lui niente. Da dov’è, per adesso, non di muove. A Washington, dov’è in corso il vertice del Fondo monetario, parla di crisi («L’epicentro è in Europa, la situazione stavolta è complicata») e dice che «tocca alla Germania trovare una soluzione». Il ritorno in Italia, per lui, non sarà dei più semplici.


http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/409243/

Brusca: ''La trattativa fu prima di via D'Amelio'' - di Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo



Torna in aula Giovanni Brusca. E’ stato lui stesso a chiedere alla Corte che presiede il processo contro il Generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra di potere essere risentito. Il suo intento – ha spiegato parlando mediante video conferenza – era di precisare alcune dichiarazioni rilasciate nelle scorse udienze dato che ripensando alle domande che gli erano state poste gli sono tornati in mente alcuni dettagli rilevanti.
Il più importante è certamente la collocazione temporale del dialogo che ebbe con Salvatore Riina a proposito dell’ormai famigerato “papello”. Brusca ha raccontato decine di volte in decine di processi che all’interno della casa di Girolamo Guddo, dove poi si sarebbe tenuta una riunione con alcuni dei capi mandamento palermitani, si era appartato con Riina il quale alla sua domanda di novità gli rispondeva “tutto contento” che si “erano fatti sotto”, intendendo con questo “lo Stato” cui aveva inviato un elenco di richieste “un papello tanto”.
Brusca non è mai stato preciso sulla datazione dell’episodio in questione ma questa mattina si è detto in grado di circoscrivere il fatto in un periodo compreso tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Questo perché si è ricordato di essersi recato a casa di Salvatore Biondino, braccio destro di Riina, il giorno 16 luglio per chiedergli la cortesia di occultare la macchina di Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo, poi uccisi. In quell’occasione Biondino gli disse che “erano sotto lavoro”, senza fornirgli ulteriori dettagli. Pochi giorni dopo lui capì a cosa si riferiva perché esplose la bomba di via D’Amelio.
Sarà la Corte a stabilire se sia attendibile questa nuova ricostruzione di Brusca, ma di certo non è l’unico a porre il cuore della trattativa, cioè la negoziazione del “papello”, prima della strage di Via D’Amelio. Lo aveva già sostenuto Massimo Ciancimino che aveva anticipato gli incontri del padre con il generale Mori e ancora prima lo aveva spiegato Salvatore Cancemi.
Non a caso il pm Di Matteo ha chiesto al presidente di poter acquisire agli atti le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia (deceduto il 14 gennaio scorso). Si tratta di quelle relative al racconto di una riunione, sempre nella casa di Guddo, in cui Riina mostrò a lui, a Raffaele Ganci e ad altri un elenco di 6/7 punti, che anche in quell’occasione chiamò “papello”, cui se lo ritenevano potevano fare aggiunte. Senza indugio Cancemi aveva sostenuto che il periodo era anteriore all’omicidio Borsellino.
Il pm ha sottolineato che Cancemi ha reso queste dichiarazioni il 23 aprile 1998, solo 5 anni dopo essersi consegnato allo Stato durante i quali è stato gestito esclusivamente dal Ros, ai procuratori di Firenze e Caltanissetta.
Poter provare che la cosiddetta trattativa si sia svolta prima del 19 luglio 1992 non avrebbe un grande valore solo per il processo in corso, ma vorrebbe dire di poter fissare un punto fermo, un tassello cruciale, per comprendere uno dei moventi dell’assassinio Borsellino poiché già la procura di Caltanissetta è stata in grado di affermare con un ampio margine di certezza che il giudice ne era al corrente.
Brusca ha anche voluto aggiungere alcuni dettagli circa la mancata strage dell’Olimpico che gli avrebbe riferito il neocollaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, recentemente riammesso al programma di protezione, secondo il quale il progetto di attentato avrebbe avuto come finalità la vendetta contro i carabinieri perché non avevano rispettato i patti. 
Solo per deduzione Brusca, leggendo anche le cronache giornalistiche, ha collegato che il carabiniere che aveva tradito le aspettative dei mafiosi poteva essere il generale Mori.
In conclusione dell’udienza il pm Di Matteo ha chiesto anche di poter depositare al fascicolo dibattimentale l’ordinanza di archiviazione per Michele Riccio dall’accusa di calunnia contro Mori e Obinu, diversi articoli di stampa che vanno dal 8/6/1992 al 19/07/1992 relativi all’emanazione del decreto 41-bis e soprattutto una serie di circolari riservate del Ministero dell’Interno custodite dalle segreterie di sicurezza datate tra il 14 gennaio e il 31 marzo 1992 nelle quali si leggono “intensi allarmi per una campagna terroristica contro esponenti politici” di allora e in particolare “minacce di morte contro signor Presidente del Consiglio, ministro Carlo Vizzini, ministro Calogero Mannino”.
Nello specifico si tratta di telegrammi, fonogrammi e altri documenti sulla "possibile campagna di destabilizzazione del Paese". Le informative corrispondono in maniera impressionante al contenuto delle riunioni di Cupola, quando Riina aveva deciso la resa dei conti da far scontare ai traditori e ai voltagabbana. E’ certamente singolare che a parte l’indifendibile Lima e ai due magistrati, tutti i politici si siano salvati.
Il procuratore Grasso l’aveva spiegata così: “Probabilmente i mafiosi cambiarono obiettivo perché capirono che non potevano colpire chi avrebbe dovuto esaudire le loro richieste”.