giovedì 10 aprile 2014

Malva silvestris.


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Descrizione
È una pianta erbacea annuale o perenne. Presenta un fusto eretto alto anche 1 metro.
Le foglie di forma palminervia con 5 lobi e margine seghettato irregolarmente.
fiori sono riuniti all'ascella delle foglie, di colore rosaceo, con petali bilobati. Il frutto è un poliachenio circolare.         

Distribuzione e habitat

Pianta originaria dell'Europa e Asia temperata, è presente nei prati e nei luoghi incolti di pianura.

Usi

Il nome deriva dal latino malva ed ha il significato di molle, cioè capace di ammorbidire.
Viene usata in erboristeria: i principi attivi si trovano nei fiori (Malvae flos) e nelle foglie (Malvae folia F.U.XI) che sono ricchi di mucillagini, usati per le loro proprietà emollienti e bechiche, nelle forme catarrali delle prime vie bronchiali. La pianta trova largo uso come emolliente e calmante delle infiammazioni delle mucose, oftalmica.
La malva può essere assunta sotto forma di verdura contro la stipsi, infuso per idratare e ammorbidire l'intestino, e per regolarne le funzioni grazie alla sua azione lassativa, dovuta alle proprietà delle mucillagini di rigonfiare l'intestino, stimolandone la contrazione e quindi agevolandone lo svuotamento. In Cucina si usano i germogli, i fiori freschi o le foglioline.

Malva sylvestris - Köhler–s Medizinal-Pflanzen-222.jpg         Wilde Malve - männliche Blütenphase DSC 6709a.jpg

LA STORIA. Lavora per qualche mese in Olanda e 50 anni dopo gli arriva una lettera: “Ecco la sua pensione”. - Mauro Lissia



Il commerciante cagliaritano Carlo Coco racconta la vicenda con toni ancora increduli.

CAGLIARI. Mai se lo sarebbe aspettato, quegli otto mesi di lavoro da operaio in Olanda non erano che un'esperienza lontana e quasi dimenticata della propria vita. Così quando riceve una lettera da Rotterdam lui, ex rappresentante di commercio cagliaritano, pensa a uno scherzo: “Egregio signor Carlo Coco, le comunichiamo che avendo lei compiuto i 65 anni di età ha diritto a ricevere il trattamento pensionistico relativo al periodo di lavoro prestato nei Paesi Bassi nel 1971“. Poi il conteggio: 48 euro al mese. A seguire, le condizioni per incassarlo.
Superato lo stupore, Coco mostra il documento alla moglie olandese, conosciuta proprio a quei tempi: “Ti sembra possibile che dopo quarantadue anni si siano ricordati di me? Hanno trovato anche il mio indirizzo di Quartu Sant'Elena“. La risposta è glaciale: "Normale, certo". Normale forse nel nord Europa, dove alle leggi corrispondono atti conseguenti, dove il cittadino paga le tasse e in cambio riceve servizi, dove gli uffici sono uffici e non rifugi di burosauri svenuti. Uffici organizzati e precisi, al punto di rintracciare un ragazzo sardo, oggi settantenne, che quasi mezzo secolo prima aveva cercato fortuna in un paese lontano, per poi cedere al mal di Sardegna. La sua terra, dove la nebbia e il freddo non ci sono e non condizionano la vita, perché a quello pensa la burocrazia. Infatti è qui, nel dialogo a distanza Italia-Sardegna-Olanda, che la vicenda si complica. Il pagamento dell'assegno è legato a un banale adempimento: è necessario che l'istituto di previdenza italiano compili un modulo coi dati del pensionato e che lo spedisca all'indirizzo di Rotterdam indicato nella comunicazione. Una formalità semplicissima, ma non per l'Inps. Passano infatti due anni e Coco non riceve alcuna notizia del suo assegno.
Così, più che altro per curiosità, riprende in mano la lettera olandese e si accorge che c'è un numero di telefono, un servizio da interpellare per ottenere informazioni: “Vuoi vedere che la pratica si è arenata? In fondo tutto il mondo è paese“. Coco ci pensa, è diviso tra la speranza di rivalutare gli uffici italiani e l'idea di incassare comunque quel piccolo assegno. Alla fine chiama l'Olanda e rappresenta il problema. L'operatore gli passa all'istante un interprete che lo ascolta, consulta il terminale e in pochi minuti gli fornisce la risposta: “Signor Coco, non abbiamo ricevuto il modulo del suo istituto di previdenza, per questo non abbiamo potuto ancora spedirle quanto le spetta“.
C'era da aspettarselo: l'ufficio olandese s'impegna a rintracciarlo dopo quarantadue anni per versargli una pensione insperata, quello italiano non è in grado di spedire un modulo. Un semplice modulo, rimasto impigliato nella ragnatela dei nostri uffici.
Ma Coco non si arrende, tiene a freno l'ira e facendo voto di pazienza si reca all'Inps: “Ha ragione - gli notifica un imbarazzato ma gentilissimo funzionario - il documento è ancora qui, l'ho trovato, ci siamo dimenticati di trasmetterlo. Ci scusi, rimediamo subito“. Detto e fatto, stavolta lo mandano davvero e dopo qualche giorno da Rotterdam arriva un plico. C'è un assegno circolare da 48 euro più un altro con gli arretrati dei ventiquattro mesi perduti per colpa dell'Inps, con inspiegabili scuse per il ritardo: sette giorni. Una bella sorpresa ma anche uno schiaffo morale affibbiato alla burocrazia italiana.
La storia però non finisce qui, perché mesi dopo la previdenza olandese si fa viva per la seconda volta, una nuova articolatissima lettera: “Egregio signor Coco, in base al provvedimento emanato dal nostro governo lei ha diritto a una rivalutazione del suo trattamento previdenziale pari al trenta per cento“. In allegato un assegno con la cifra maturata a partire dall'entrata in vigore della nuova norma e gli arretrati più le immancabili scuse per il ritardo.
Coco scuote la testa, sorride, sventola la missiva davanti agli occhi disincantati della moglie e decide che forse una storia così è degna di essere raccontata: “Certo 62 euro al mese non mi cambiano la vita - avverte, parlando con il cronista - però insomma, se penso a quello che passiamo noi in Italia quando abbiamo a che fare con questi problemi...“. Poi un dubbio, che racchiude un mondo e rappresenta la sintesi perfetta del rapporto cittadino-Stato in Italia: “Senta, ma non sarà che dopo il suo articolo, Equitalia mi tassa pure questi quattro soldi?“. Speriamo di no signor Coco, speriamo proprio di no.

mercoledì 9 aprile 2014

Togliere ai poveri per dare ai Renzie #assegnifamigliari.

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Renzie continua a raccontare la balla degli 80 euro al mese, in complicità con giornali e tv di regime. Basterebbe andare a leggersi il testo della legge delega ora in discussione al Senato per scoprire che Renzie ha tolto, alle stesse categorie cui ha promesso gli 80 euro, le detrazioni per il coniuge a carico che valgono 700 - 800 euro all'anno, 65 euro al mese circa. La campagna pubblicitaria del venditore di pentole di Firenze finanziata con il sangue delle famiglie italiane. Un voto di scambio a 15 euro. La tua dignità vale così poco?
"Niente più detrazioni per il coniuge a carico: è scritto tra le pieghe della più becera ambiguità del cosiddetto Jobs ActLEGGE DI DELEGA al Governo, attualmente al vaglio del Senato. La lettera c) dell’art. 5 infatti recita così: "introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito complessivo della donna lavoratrice, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico”
Cosa si nasconde dietro questa faziosa e ambigua dicitura? Un vero e proprio blitz sulla fondamentale detrazione per coniuge a carico, sostituito con un improbabile ed incostituzionalissimo tax credit! Oggi la detrazione per il coniuge a carico spetta a qualunque coniuge lavoratore/lavoratrice, uomo o donna che sia, che abbia moglie o marito a carico cioè che non abbia superato il reddito di 2.840,51 euro annuo, 5 milioni di vecchie lire. Questa detrazione ammonta all’incirca a 700/800 euro l’anno. Eliminarla sostituendola con questo cosiddetto tax credit significa ridurre enormemente la platea dei beneficiari!
Infatti la tax credit secondo la fuffa dell’articolo menzionato, spetterebbe come credito d’imposta alle imprese che assumono una donna alle seguenti condizioni, coesistenti:
- donne lavoratrici anche autonome;
- con figli minori;
- che si ritrovino al di sotto di un reddito complessivo;
Interpretando le pieghe di questa strana normativa si scopre che una donna che venisse assunta con questo meccanismo che avesse un coniuge a carico, oppure una coppia senza figli o senza figli minori, perderebbero la detrazione, che invece oggi spetta.
Queste categorie che si troverebbo scoperte, inoltre, sono per lo più proprio quelle alle quali sono stati promessi i famosi 80 euro in busta paga." 
Carla Ruocco, M5S Camera

AVE, MATTEO, MORITURI.... - Marco Travaglio



Vent’anni fa, estate ’94, mentre il Berlusconi I inondava l’Italia di promesse e annunci di riforme palingenetiche, seguite da spot con la chiusa perentoria “Fatto!”, Indro Montanelli scrisse un amaro editoriale su La Voce, con un pubblico (e sarcastico) atto di contrizione: “Nelle ultime due settimane i consensi al governo e al suo capo sono passati dal 48 a quasi il 54%… Bisogna dedurne che è stata proprio questa politica balneare con le sue scene da telenovela… diffuse in tutta Italia (e speriamo solo in Italia) da tv pubbliche e private in gara di zelo, a provocare questa impennata di popolarità. Se le cose stanno così… dobbiamo cospargerci il capo di cenere e chiedergli scusa. I problemi non li ha ancora affrontati né risolti. Ma è chiaro che gl’italiani sono sempre più convinti che lui è il solo uomo capace di farlo, e comunque quello in cui più e meglio si riconoscono”.

Gli italiani – aggiungeva Montanelli – non amano i “personaggi color fumodilondra”, tipo De Gasperi o Einaudi: “Vorreste mettere il gioioso e giocoso Cavaliere, con le sue risate, le sue barzellette, il suo ottimismo, la sua cordialità, le sue barche, le sue ville…”. Conclusione agrodolce: non resta che la resa.“Senza bisogno di sopprimerci come minacciano di fare certi suoi alleati e ministri, finiremo automaticamente confinati in una specie di Arcadia del buoncostume politico, quello che usava quando Berta filava… Non siamo pericolosi. La nostra audience si assottiglia di giorno in giorno nella stessa misura in cui s’infoltisce quella del Cavaliere. Ave, Silvio, morituri te salutant”. Quelle parole – al netto delle ville e delle barche, sostituendo B. con Renzi – sono perfette per descrivere l’attuale luna di miele fra il premier Pie’ Veloce e moltissimi italiani. Parecchi lettori, sui social network e nelle lettere al giornale ci rimproverano quasi ogni giorno di non “lasciarlo lavorare”, di stare “sempre lì a criticare”.
Esattamente come nel ’94 dopo Tangentopoli con Berlusconi, poi nel 2012 dopo l’incubo berlusconiano con Monti, oggi c’è gente talmente disperata che si aggrappa a Renzi come all’ultima zattera e vuole fortissimamente sperare di aver trovato il nuovo uomo della Provvidenza: l’uomo solo al comando che ci porterà fuori dal guado e dal guano. L’ottimismo è obbligatorio e, ogni pur timida obiezione critica è vista come sabotaggio. 

E pazienza se il compito del giornalismo indipendente è quello di smascherare le bugie del potere al servizio dei cittadini: di dire, per esempio, che l’abolizione delle province è finta, che il nuovo Senato è un obbrobrio mai visto al mondo, che la nuova legge elettorale ha gli stessi vizi del Porcellum (e comunque non è legge perché non è stata neppure incardinata al Senato e chissà quando lo sarà), che la promessa del ministro Poletti di 900 mila nuovi occupati ha tante possibilità di avverarsi quanto quella berlusconiana di un milione di posti di lavoro, che le ambasciate chiuse dal governo erano già chiuse, che la vendita su eBay di 100 autoblu è bassa propaganda elettorale, che regalare 80 euro in busta paga due giorni dopo le Europee ricorda le scarpe-omaggio di Achille Lauro e non produrrà l’annunciato “choc per la ripresa”. Non basta neppure – come facciamo – sottolineare le cose buone dette e fatte da Renzi; né valutarlo sul merito dei provvedimenti (pochi) e degli annunci (troppi); e nemmeno concedergli il beneficio della buona fede sul patto con B. per la legge elettorale (dopo averlo offerto, invano, ai 5Stelle).
Ciò che molti non sopportano è proprio il lavoro di scavo e inchiesta che mette a nudo la propaganda: quasi che bastasse non smentire gli annunci perché questi, come per miracolo, si avverino. La tentazione di arrendersi all’ottimismo obbligatorio con un bell’“Ave, Matteo, morituri te salutant” è tanta. Ma poi basta ricordare che fine han fatto gli altri salvatori della Patria (Montanelli li chiamava “guappi di cartone”) per sapere che anche questo, se continuerà a colpi di chiacchiere e distintivo, durerà poco. E allora qualcuno magari si ricorderà: però, quelli del Fatto ci avevano avvertiti…

http://www.comedonchisciotte.org/site//modules.php?name=News&file=article&sid=13206

L’argomento di Callicle. - Marco Ravelli


Contro i professori. Il fascino cupo del carisma ritorna, come extrema ratio, e contrappone l’Azione al Pensiero, il Demiurgo al Riflessivo, il Fare al Pensare. Dall’intellettuale dei miei stivali di craxiana memoria al renzismo di oggi. Un po’ Craxi, un Po’ Berlusconi, con la velocità del prestigiatore
«Certo, Socrate, la filo­so­fia è un’amabile cosa, pur­ché uno vi si dedi­chi, con misura, in gio­vane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende ammi­ni­strare la città.
Così dice Cal­li­cle nel Gor­gia, il dia­logo pla­to­nico dedi­cato alla Reto­rica, e aggiunge che «chi si attar­dasse più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pre­ten­desse di dir la pro­pria sulle cose della Polis, fini­rebbe per infa­sti­dire e intral­ciare, per­ché ine­sperto delle “cose del mondo”: degli “affari” pri­vati e pub­blici, «dei costumi degli uomini nor­mali», tanto da «ren­dersi ridi­colo allo stesso modo in cui si ren­dono ridi­coli i poli­tici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei vostri astrusi ragio­na­menti». E’, il suo, il primo esem­pio – un arche­tipo – di quel disprezzo per la cono­scenza e per i“sapienti” (per gli intel­let­tuali, appunto) che ritor­nerà infi­nite volte nelle zone gri­gie della storia.
Su chi fosse Cal­li­cle si hanno poche infor­ma­zioni. Com­pare come una meteora in quest’unico dia­logo, e poi scom­pare. Di lui si sa solo che era un gio­vane (più gio­vane di Socrate e anche di Pla­tone) molto ambi­zioso. Che mili­tava nel par­tito oli­gar­chico. E che era un sofi­sta nel senso prag­ma­tico del ter­mine, cioè un fau­tore di quell’intreccio tra sapere e affari che si pra­ti­cava nella scuola di Gor­gia (sorta di Cepu dell’età clas­sica), e di quell’idea della Reto­rica come arte della per­sua­sione altrui che teo­riz­zava il pri­mato del Discorso sulla Giu­sti­zia, sfor­nando schiere di pri­mi­ge­nii Ghe­dini ate­niesi. Volendo fare il gioco della tra­spo­si­zione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disa­strata Città, potremmo dire che Cal­li­cle incar­nava in sé un po’ di Renzi e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche dell’altro) per le regole e le leggi, con­si­de­rate impacci. Peg­gio, inven­zioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per fre­nare i forti, i «ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi — e impe­dir loro di fare «e di pre­va­ri­care» (testual­mente nell’originale) come richie­de­rebbe invece il «diritto di natura», il quale risponde alla regola del fatto com­piuto, del diritto del più forte e del più capace a «scrol­larsi di dosso» e «fare a pezzi… i nostri scritti, incan­te­simi, sor­ti­legi e leggi, che sono tutti con­tro natura». Del secondo (e solo di que­sto) con­di­vi­deva il culto per la sen­sua­lità e l’intemperanza, per la dila­ta­zione del desi­de­rio e del pia­cere come cul­mine della feli­cità, nella con­vin­zione che «colui che intende vivere con ret­ti­tu­dine [«secondo natura»] deve lasciare che i pro­pri desi­deri s’ingigantiscano il più pos­si­bile e non deve met­tervi freno» per «saperli ser­vire, con corag­gio e accu­ra­tezza» una volta che essi abbiano rag­giunto il cul­mine. Pul­sioni, umori, diversi, ma in qual­che misura uni­fi­cati dalla comune osti­lità – dall’odio rive­stito di disprezzo — per la rifles­si­vità, il lavoro, ine­vi­ta­bil­mente più lento e meno ferino, del pen­siero. I suoi moniti e le sue dub­bio­sità. In una parola per il ruolo sto­rico dei cosid­detti “intellettuali”.
Sem­bra impos­si­bile, ma è così. Ogni volta che il nostro Paese risco­pre il fascino cupo del cari­sma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velo­cità della luce: a quell’archetipo tos­sico che con­trap­pone l’Azione al Pen­siero. Il Demiurgo al Rifles­sivo. Il Fare al Pen­sare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il peda­groso posa­piano che ral­lenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille pro­mette e manterrà.
E’ suc­cesso una tren­tina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repub­blica entrava nella sua fase coma­tosa (ricor­date l’invettiva con­tro gli «intel­let­tuali dei miei sti­vali»?). E si è ripe­tuto una ven­tina di anni or sono, con Ber­lu­sconi, quando nac­que (male, malis­simo) la cosid­detta Seconda Repub­blica, nell’odore di fango e nella mar­cia trion­fale dei media. Era suc­cesso, con aspetti ben più tra­gici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello stato libe­rale e l’avvento del mus­so­li­ni­smo. Suc­cede oggi – si parva licet – con Mat­teo Renzi, al suo esor­dio come impro­ba­bile sal­va­tore della patria. Ogni volta si è assi­stito all’esibizione dello stesso les­sico, con poche varia­zioni. E chi richia­mava all’opportunità di sof­fer­marsi sulla pro­ble­ma­ti­cità dell’accadere, sulla sua com­ples­sità non ridu­ci­bile con le parole magi­che, è stato liqui­dato con una catena di ter­mini che vanno dal post­bel­lico ““disfat­ti­sta” e “imbelle”, al deni­gra­to­rio “insulso” («insulso intel­let­tuale» fu la for­mula con cui Mus­so­lini invitò il Pre­fetto di Torino a per­se­gui­tare Gobetti) ai più didat­tici «pro­fes­so­roni» o «pro­fes­so­rini» (in qual­che caso «pro­fes­so­ru­coli»), all’enfatico «Soloni» o «sapien­toni», oltre i quali la crea­ti­vità dei cri­tici della cri­tica non sa andare. Né la cosa stu­pi­sce. Fa parte dell’ordine delle cose il fasti­dio per la fatica del pen­siero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono solu­zioni possibili.
Quello che può incu­rio­sire, piut­to­sto, è l’estensione della ragna­tela oggi, che giunge a lam­bire figure che si cre­de­vano esenti da que­ste fol­go­ra­zioni sulla via del Naza­reno: non più i soliti Fel­tri e Bel­pie­tro, se pos­si­bile i meno aggres­sivi per esau­ri­mento delle bat­te­rie, ma i Gra­mel­lini, i Meni­chini, le mini­streBo­schi, gli edi­to­ria­li­sti dell’Unità e di Europa, gli spin doc­tors di com­ple­mento del Tg3, su lun­ghezze d’onda non dis­si­mili dai vari Gasparri (memo­ra­bile per vol­ga­rità la sua mimica sulla lun­ghezza delle par­ruc­che di Zagre­bel­sky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vice­di­ret­tore della Stampa sulle «vec­chie cin­ture di castità» …), tutti ad acca­nirsi con­tro l’intellettuale fre­na­tore, il disin­can­tato disin­can­ta­tore, lo scet­tico blu che spe­gne i sogni, il fasti­dioso acri­bioso che cerca sem­pre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto pro­ba­bile che alcuni di que­sti “per­suasi” pro­ve­ranno un giorno ver­go­gna del pro­prio invol­ga­ri­mento, una volta sva­nito l’effetto della fasci­na­zione. Ma resta l’interrogativo sull’origine miste­riosa di quel fascino improv­viso. Che cari­sma è que­sto, che bypassa ogni lezione della sto­ria, e fa cadere ogni bar­riera all’accesso alle menti, tanto da can­cel­lare decenni di cul­tura cri­tica, razio­na­li­sta e demo­cra­tica per­ché col­pi­sce, ora, anche quei set­tori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos?
Non è il cari­sma guer­riero del Benito Mus­so­lini delle ori­gini, uscito dalle tem­pe­ste d’acciaio e dalle trin­cee di fango. E nem­meno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fon­dato sul ricorso a una spre­giu­di­ca­tezza ine­dita nella sto­ria della sini­stra ita­liana nell’assalto alle ban­che e alle dili­genze. O il cari­sma pro­prie­ta­rio e geni­tale del Ber­lu­sconi re del video e delle veline final­mente spo­gliate. Il suo sem­bra più il cari­sma vir­tuale – e impal­pa­bile — della ver­ti­gine. Il trauma della velo­cità come meta­fora (e sur­ro­gato) dell’energia e come tec­nica di con­vin­ci­mento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei pro­blemi, così da appa­rirne il solu­tore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guar­dare, la tec­nica dell’illusionista. Il segreto del pre­stige, inteso come gioco di pre­sti­gio, in cui la rapi­dità del movi­mento e l’uso del diver­sivo – del gesto che disto­glie l’attenzione – sono la chiave del suc­cesso, e per­met­tono a chi sta sul palco di con­qui­stare la dedi­zione del pub­blico pagante. Renzi in que­sto è mae­stro: fa com­pa­rire, e subito dopo scom­pa­rire, la legge elet­to­rale, una volta veri­fi­cato che di lì non si passa, subito sosti­tuita, coni­glio dal cilin­dro, dal Jobs act e dalle sli­des, esi­bendo gli 80 euro in busta paga men­tre scom­pa­iono in un fou­lard viola pezzi di sistema sani­ta­rio e di ser­vizi sociali o interi bloc­chi di patri­mo­nio pub­blico avviati alla pri­va­tiz­za­zione. Dice di aver abo­lito le pro­vince, come pro­messo, e quelle se ne stanno sem­pre lì, intatte sotto il tap­peto por­pora del tavolo, non più elet­tive ma pur sem­pre inte­gre. Pre­para la Gre­cia, ma sem­bra la Ger­ma­nia. Finge un bat­ter di pugni men­tre in realtà batte i tac­chi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pub­blico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel ver­ti­gi­noso movi­mento, scruta sotto il man­tello per cogliere il trucco.
L’odiato intel­let­tuale è odiato per que­sto. Per­ché minac­cia di sve­lare il pre­stige. Di disin­can­tare l’illusione. Nemico con­di­viso di tutti gli spet­ta­tori che, inca­paci di par­te­ci­pare alla solu­zione del pro­blema, pre­fe­ri­scono vedersi rap­pre­sen­tata la mate­ria­liz­za­zione della spe­ranza. La sua filo­so­fia è peri­co­losa, come lo fu l’occhio inge­nuo del bam­bino che rive­lava la nudità del re. Pas­serà pro­ba­bil­mente, come tutte le infa­tua­zioni. Ma intanto sarà dura. Unica con­so­la­zione: la con­sta­ta­zione che oggi, dell’“uomo di mondo” Cal­li­cle – che con­tra­ria­mente all’“insulso” e “inge­nuo” Socrate non inse­guiva le nuvole e le idee -, nes­suno ricorda nep­pure più il nome.


Elezioni europee: un referendum politico, come avvenne nel 2011. - Sergio Di Cori Modigliani



Negli ultimi due giorni ho seguito le campagne elettorali europee in Olanda, Francia, Germania, Danimarca, Belgio, per controllare di che cosa parlano e cosa fanno.

Questo post è relativo alle mie sensazioni in quanto italiano europeo.

C'è qualcosa di tragico e sottaciuto nell'atmosfera politica che si respira oggi in Italia: la censura sull'Europa, sulla sua progettualità, sulle sue idealità, fini, obiettivi.

A quaranta giorni dalle votazioni per le europee, non si trova in giro nè in televisione, nè sui social networks, una mini-discussione, un dibattito, un confronto sul significato e sul senso di queste elezioni, sulle esigenze dei popoli del continente, sulle prospettive. Ciascuno è asserragliato dentro il proprio piccolo miope baluardo denso di parole d'ordine demagogiche, slogan raffazzonati di facile presa, privi di sostanza argomentativa.

E' un sintomo e un simbolo del fallimento dell'Europa come comunità di intenti.
Quindici anni dopo la presa di possesso della finanza bancaria sull'industria, e sull'imposizione di trattati capestro che l'hanno messa in ginocchio -è bene qui ricordarlo a scanso di equivoci: accolti con applausi palloncini e cotillons da PDL, PD, Lega Nord, estrema destra ed estrema sinistra, tutti concordi nessuno escluso- gli italiani sono caduti nella diabolica trappola del pensiero mercatista e seguitano a parlare soltanto di soldi, di monete, di aliquote, di percentuali, di teorie economiche pro o contro l'euro usando termini come "cultura" o "diritti", anzi...abusando di tali termini, di solito tirati in ballo da persone ignoranti che la cultura l'aborrono o esponenti della casta del privilegio acquisito che ha voluto l'abolizione di ogni salvaguardia a difesa della collettività. 

Queste elezioni europee sono diventate, quindi, qualcosa d'altro.
In questo Senso, bisogna riconoscere il trionfo dell'ideologia iper liberista dei finanzieri: convincere le persone che il danaro non sia un semplice tramite e mezzo di scambio economico, bensì sia l'elemento portante, unificante e costitutivo delle esistenze delle persone. Non è possibile parlare di nient'altro che non sia il denaro, cotto e cucinato in ogni sua variante.
Non esiste nessun candidato di nessun partito che parli mai di progettualità europea, anche perchè nella stragrande maggioranza dei casi non hanno la benchè minima idea di che cosa sia. Basti pensare che le due personalità politiche più televisionate in questo periodo, Matteo Salvini e Deborah Serracchiani, entrambi deputati europei, a Bruxelles e Strasburgo nessuno li ha mai visti, non esiste traccia negli archivi ufficiali delle commissioni di una loro partecipazione, di una loro interpellanza, di una loro attività anche passeggera. Essere deputati europei è il parcheggio momentaneo che viene offerto come regalo ad attivisti e militanti, i quali ne approfittano per avere una scusa formale per mostrarsi in televisione nei talk show, rendersi visibili e promuovere se stessi al fine di costruirsi succose carriere. Lo ha fatto, a suo tempo, David Sassoli, Lilly Gruber, Michele Santoro (non esiste nessuna documentazione relativa a un loro intervento, proposta, partecipazione, mai, sempre assenti, latitanti) e lo hanno fatto compatti tutti i loro colleghi eletti poi nel 2009, con rarissime eccezioni.
E' quindi comprensibile che non si parli di Europa, non si comprende neppure perchè l'Italia partecipi alla competizione. Ve lo immaginate il calciatore Tardelli, lanciato ieri dal PD come auotorevole e competente esperto di questioni europee, tra sei mesi a Ballarò? Di che cosa ci parlerà? E la patetica uscita di Moni Ovadia? "Mi candido nella Lista Tsipras, ma non andrò in Europa, lo faccio soltanto per portare voti, non appena eletto mi dimetto subito per far posto a un altro più competente". Chi? Perchè non presentare, allora, lui/lei, direttamente? 
Che Senso ha?

I tedeschi, francesi, olandesi, danesi, ecc, che oltre ai candidati offrono agli elettori l'ampio ventaglio dei nomi di consulenti e funzionari (che sono coloro che poi andranno a svolgere le mansioni operative) vantano una partecipazione lavorativa a Bruxelles che viaggia al ritmo del 95% di presenze effettive, e quando le commissioni si riuniscono alle 9 del mattino, i francesi, tedeschi e olandesi stanno lì in fila già dalle 7 assistiti da esperti selezionati, per salvaguardare i loro prodotti nazionali, la loro economia, la loro cultura, il loro territorio. Gli italiani pensano all'Europa come a una specie di gigantesco parcheggio di lusso, nello stesso identico modo con il quale hanno pensato a Maastricht, Lisbona, euro, come a una pacchia per succhiare risorse e finanziamenti alimentando se stessi e le proprie clientele di riferimento. Poi, quando le cose si mettono male, si ribellano. La Rai è l'unica emiittente pubblica europea che non ha una rubrica fissa collegata alle proprie commissioni. 
Meno male, almeno risparmiamo soldi. 
Sanno che non ci sarebbe nessuno da intervistare mai, e non ci sarebbe niente da dire.
Questa è la realtà.
Non la si cambia così, l'Europa.

Ma si può provare a cambiare l'Italia.
Questo sì.
E già mi sembra davvero tanto.


Perchè queste elezioni europee, in Italia, non hanno niente a che vedere con l'Europa.
Sono diventate un termometro importantissimo per valutare e stabilire la vera distanza tra l'oligarchia asserragliata del privilegio garantito e la cittadinanza. 

In realtà si tratta di un vero e proprio referendum, il cui esito è paradossalmente fondamentale. 

Si tratta di comprendere fino a che punto funzionino ancora i capi bastone del PD, le clientele di Alfano, le lobby di Monti e Passera, le legioni dei seguaci di Berlusconi, gli ipocriti vendoliani mescolati a cariatidi post-comuniste rientrate dalla finestra. Sono gli ultimi sussulti di un sistema marcio in disfacimento, ed è il motivo per cui l'abile Renzi ha rimandato ogni scadenza al 27 maggio: gli 80 euro in busta paga, i 900 mila posti di lavori vagheggiati dal ministro del lavoro, la discussione sul Senato, l'approvazione della legge elettorale. Il premier sa benissimo che se il 27 maggio 2014 le urne confermeranno il trend del voto del 24 febbraio del 2013, lui sarà costretto a scendere a patti con le esigenze della cittadinanza, non sarà più possibile seguitare a far finta di nulla. Lo capirà anche Mario Draghi. E lo capirà anche Angela Merkel.
Il voto a queste elezioni europee, quindi, è un referendum tra l'ipocrisia oligarchica da una parte (si finge di cambiare per non cambiare un bel nulla) e la possibilità di aprire un tavolo di negoziati tra l'attuale governo in carica e le opposizioni, sugli unici argomenti veri che contano: 

1) Immediato pagamento dei 120 miliardi di euro a favore delle aziende creditrici da parte della pubblica amministrazione; 
2). Immediato varo di una legge che istituisce il reddito di cittadinanza universale per aggredire frontalmente lo spaventoso aumento del disagio sociale e di sacche di povertà; 
3). Ristrutturazione della spesa pubblica del privilegio: pensioni d'oro, enti inutili, vitalizi, privilegi a pioggia; 
4). Abolizione di sovvenzioni e sussidi all'editoria, compreso tutto il sistema editoriale partitico, per rilanciare il lavoro competitivo: il tuo giornale non vende nulla perchè nessuno lo legge più? Ci dispiace tanto per te, arrangiati, cambia mestiere o fatti venire in mente una geniale idea professionale ma pagatela per conto tuo.

Queste elezioni europee non hanno niente a che vedere con quelle del 2009, che videro la promozione di una intera generazione di fannulloni, opportunisti, faccendieri di varia natura.

Sono identiche ai quattro referendum della primavera del 2011. 
Tutti sapevamo, allora -conoscendo i nostri polli- che avrebbero comunque fatto come volevano con trucchi di varia natura, ma allo stesso tempo sapevamo tutti che una gigantesca vittoria avrebbe fatto sussultare il potere centrale perchè tra di loro si sarebbero detti. "Oh cazzo! Questi non se la bevono più. Vogliono acqua pulita, energia pulita e rinnovabile,  e se non facciamo qualcosa di tangibile ci faranno vedere i sorci verdi". Si parlò, allora, per tutta l'estate di quei quattro referendum. Il PD lanciò lo slogan "cambia il vento". In data 26 luglio 2011 al festival de l'unità, Giovanni Floris chiese a Pierluigi Bersani se intendesse votare il Fiscal Compact. Gargamella rispose: "Non sono mica matto. Anzi: non sono mica suicida, sarebbe una tragedia per l'Italia e per gli italiani. E' un dispositivo inutile e pericoloso che ci metterebbe in ginocchio, è voluta dalla finanza globale e non fa bene ai conti pubblici; ci indebiteremo per sempre, è questa roba qua: affonderemo'".

Tanto per non dimenticare, è importante mantenere vigile la memoria storica recente.

Furono quei quattro referendum ad aprire il pensionamento di Berlusconi e della sua cricca.
Furono quei quattro referendum a far capire agli italiani che si poteva e si doveva cambiare.
Furono quei quattro referendum a dare il primo forte segnale che la base indiscutibile e non negoziabile della politica in Italia passa attraverso la gestione collettiva del bene pubblico, acqua, energia, società partecipate, per sottrarle al controllo della criminalità organizzata,  dei colossi della finanza e delle clientele partitiche.

L'Italia cominciò a cambiare davvero, mentalmente, dopo quei quattro referendum.
Il PD e il PDL non capirono il campanello d'allarme e si inventarono Mario Monti, un becchino.
Ma ormai la marcia era iniziata e l'onda era partita.
Gli italiani cominciavano a comprendere che la rappresentanza partitica dell'attuale classe dirigente è la vera, prima, autentica causa del dissesto nazionale e del nostro disagio.
E a febbraio del 2013 lo hanno confermato: 40% di astenuti e 25% al M5s.
Per i partiti votò soltanto il 35% degli aventi diritto.

Lasciamo perdere l'Europa, quindi, e pensiamo all'Italia.
Viviamo queste elezioni per ciò che esse sono: un referendum istituzionale sull'attuale quadro politico dirigente: il primo grande scossone è avvenuto ai quattro referendum del 2011; il secondo, ben più contundente, è avvenuto il 23 febbraio del 2013 e li ha mandati in tilt.
Il 25 maggio del 2014 è possibile assestare l'ultimo colpo.

Perchè se il M5s ottiene una importante vittoria elettorale, il 27 maggio 2014 alle 9 del mattino, possiamo essercene certi al 100%, Renzi, Padoan, Cicchitto -cito qui i più intelligenti e abili tra i marpioni- capiranno che o si cambia sul serio o non sopravvivono e allora saranno disposti e disponibili a parlare delle cose che contano, a tagliare dove va tagliato, a far pagare a chi deve pagare e a retribuire chi deve essere retribuito perchè ne ha bisogno.

Soprattutto ne ha il Diritto.

L'Europa è nata così: sul Diritto al lavoro e all'uguaglianza.
Sarebbe stato bello parlare tutti i giorni di questo, ma non c'è trippa per gatti.

Facciamo in modo che, di tutto ciò, se ne possa parlare in piena libertà il 27 Maggio del 2014.

Prendiamoli a spallate: il loro palazzo ha le travi che dentro sono marce, mangiate dalle tarme, basta davvero poco. 
A furia di rosicchiare bile, avvilimento e frustrazione, noi sudditi tarma gli stiamo per buttare giù l'intera architettura costruita sulla loro disgustosa ipocrisia, sorretta dai media di regime.
Lo sanno anche loro.


http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2014/04/elezioni-europee-un-referendum-politico.html