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mercoledì 9 aprile 2014

L’argomento di Callicle. - Marco Ravelli


Contro i professori. Il fascino cupo del carisma ritorna, come extrema ratio, e contrappone l’Azione al Pensiero, il Demiurgo al Riflessivo, il Fare al Pensare. Dall’intellettuale dei miei stivali di craxiana memoria al renzismo di oggi. Un po’ Craxi, un Po’ Berlusconi, con la velocità del prestigiatore
«Certo, Socrate, la filo­so­fia è un’amabile cosa, pur­ché uno vi si dedi­chi, con misura, in gio­vane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende ammi­ni­strare la città.
Così dice Cal­li­cle nel Gor­gia, il dia­logo pla­to­nico dedi­cato alla Reto­rica, e aggiunge che «chi si attar­dasse più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pre­ten­desse di dir la pro­pria sulle cose della Polis, fini­rebbe per infa­sti­dire e intral­ciare, per­ché ine­sperto delle “cose del mondo”: degli “affari” pri­vati e pub­blici, «dei costumi degli uomini nor­mali», tanto da «ren­dersi ridi­colo allo stesso modo in cui si ren­dono ridi­coli i poli­tici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei vostri astrusi ragio­na­menti». E’, il suo, il primo esem­pio – un arche­tipo – di quel disprezzo per la cono­scenza e per i“sapienti” (per gli intel­let­tuali, appunto) che ritor­nerà infi­nite volte nelle zone gri­gie della storia.
Su chi fosse Cal­li­cle si hanno poche infor­ma­zioni. Com­pare come una meteora in quest’unico dia­logo, e poi scom­pare. Di lui si sa solo che era un gio­vane (più gio­vane di Socrate e anche di Pla­tone) molto ambi­zioso. Che mili­tava nel par­tito oli­gar­chico. E che era un sofi­sta nel senso prag­ma­tico del ter­mine, cioè un fau­tore di quell’intreccio tra sapere e affari che si pra­ti­cava nella scuola di Gor­gia (sorta di Cepu dell’età clas­sica), e di quell’idea della Reto­rica come arte della per­sua­sione altrui che teo­riz­zava il pri­mato del Discorso sulla Giu­sti­zia, sfor­nando schiere di pri­mi­ge­nii Ghe­dini ate­niesi. Volendo fare il gioco della tra­spo­si­zione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disa­strata Città, potremmo dire che Cal­li­cle incar­nava in sé un po’ di Renzi e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche dell’altro) per le regole e le leggi, con­si­de­rate impacci. Peg­gio, inven­zioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per fre­nare i forti, i «ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi — e impe­dir loro di fare «e di pre­va­ri­care» (testual­mente nell’originale) come richie­de­rebbe invece il «diritto di natura», il quale risponde alla regola del fatto com­piuto, del diritto del più forte e del più capace a «scrol­larsi di dosso» e «fare a pezzi… i nostri scritti, incan­te­simi, sor­ti­legi e leggi, che sono tutti con­tro natura». Del secondo (e solo di que­sto) con­di­vi­deva il culto per la sen­sua­lità e l’intemperanza, per la dila­ta­zione del desi­de­rio e del pia­cere come cul­mine della feli­cità, nella con­vin­zione che «colui che intende vivere con ret­ti­tu­dine [«secondo natura»] deve lasciare che i pro­pri desi­deri s’ingigantiscano il più pos­si­bile e non deve met­tervi freno» per «saperli ser­vire, con corag­gio e accu­ra­tezza» una volta che essi abbiano rag­giunto il cul­mine. Pul­sioni, umori, diversi, ma in qual­che misura uni­fi­cati dalla comune osti­lità – dall’odio rive­stito di disprezzo — per la rifles­si­vità, il lavoro, ine­vi­ta­bil­mente più lento e meno ferino, del pen­siero. I suoi moniti e le sue dub­bio­sità. In una parola per il ruolo sto­rico dei cosid­detti “intellettuali”.
Sem­bra impos­si­bile, ma è così. Ogni volta che il nostro Paese risco­pre il fascino cupo del cari­sma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velo­cità della luce: a quell’archetipo tos­sico che con­trap­pone l’Azione al Pen­siero. Il Demiurgo al Rifles­sivo. Il Fare al Pen­sare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il peda­groso posa­piano che ral­lenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille pro­mette e manterrà.
E’ suc­cesso una tren­tina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repub­blica entrava nella sua fase coma­tosa (ricor­date l’invettiva con­tro gli «intel­let­tuali dei miei sti­vali»?). E si è ripe­tuto una ven­tina di anni or sono, con Ber­lu­sconi, quando nac­que (male, malis­simo) la cosid­detta Seconda Repub­blica, nell’odore di fango e nella mar­cia trion­fale dei media. Era suc­cesso, con aspetti ben più tra­gici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello stato libe­rale e l’avvento del mus­so­li­ni­smo. Suc­cede oggi – si parva licet – con Mat­teo Renzi, al suo esor­dio come impro­ba­bile sal­va­tore della patria. Ogni volta si è assi­stito all’esibizione dello stesso les­sico, con poche varia­zioni. E chi richia­mava all’opportunità di sof­fer­marsi sulla pro­ble­ma­ti­cità dell’accadere, sulla sua com­ples­sità non ridu­ci­bile con le parole magi­che, è stato liqui­dato con una catena di ter­mini che vanno dal post­bel­lico ““disfat­ti­sta” e “imbelle”, al deni­gra­to­rio “insulso” («insulso intel­let­tuale» fu la for­mula con cui Mus­so­lini invitò il Pre­fetto di Torino a per­se­gui­tare Gobetti) ai più didat­tici «pro­fes­so­roni» o «pro­fes­so­rini» (in qual­che caso «pro­fes­so­ru­coli»), all’enfatico «Soloni» o «sapien­toni», oltre i quali la crea­ti­vità dei cri­tici della cri­tica non sa andare. Né la cosa stu­pi­sce. Fa parte dell’ordine delle cose il fasti­dio per la fatica del pen­siero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono solu­zioni possibili.
Quello che può incu­rio­sire, piut­to­sto, è l’estensione della ragna­tela oggi, che giunge a lam­bire figure che si cre­de­vano esenti da que­ste fol­go­ra­zioni sulla via del Naza­reno: non più i soliti Fel­tri e Bel­pie­tro, se pos­si­bile i meno aggres­sivi per esau­ri­mento delle bat­te­rie, ma i Gra­mel­lini, i Meni­chini, le mini­streBo­schi, gli edi­to­ria­li­sti dell’Unità e di Europa, gli spin doc­tors di com­ple­mento del Tg3, su lun­ghezze d’onda non dis­si­mili dai vari Gasparri (memo­ra­bile per vol­ga­rità la sua mimica sulla lun­ghezza delle par­ruc­che di Zagre­bel­sky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vice­di­ret­tore della Stampa sulle «vec­chie cin­ture di castità» …), tutti ad acca­nirsi con­tro l’intellettuale fre­na­tore, il disin­can­tato disin­can­ta­tore, lo scet­tico blu che spe­gne i sogni, il fasti­dioso acri­bioso che cerca sem­pre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto pro­ba­bile che alcuni di que­sti “per­suasi” pro­ve­ranno un giorno ver­go­gna del pro­prio invol­ga­ri­mento, una volta sva­nito l’effetto della fasci­na­zione. Ma resta l’interrogativo sull’origine miste­riosa di quel fascino improv­viso. Che cari­sma è que­sto, che bypassa ogni lezione della sto­ria, e fa cadere ogni bar­riera all’accesso alle menti, tanto da can­cel­lare decenni di cul­tura cri­tica, razio­na­li­sta e demo­cra­tica per­ché col­pi­sce, ora, anche quei set­tori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos?
Non è il cari­sma guer­riero del Benito Mus­so­lini delle ori­gini, uscito dalle tem­pe­ste d’acciaio e dalle trin­cee di fango. E nem­meno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fon­dato sul ricorso a una spre­giu­di­ca­tezza ine­dita nella sto­ria della sini­stra ita­liana nell’assalto alle ban­che e alle dili­genze. O il cari­sma pro­prie­ta­rio e geni­tale del Ber­lu­sconi re del video e delle veline final­mente spo­gliate. Il suo sem­bra più il cari­sma vir­tuale – e impal­pa­bile — della ver­ti­gine. Il trauma della velo­cità come meta­fora (e sur­ro­gato) dell’energia e come tec­nica di con­vin­ci­mento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei pro­blemi, così da appa­rirne il solu­tore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guar­dare, la tec­nica dell’illusionista. Il segreto del pre­stige, inteso come gioco di pre­sti­gio, in cui la rapi­dità del movi­mento e l’uso del diver­sivo – del gesto che disto­glie l’attenzione – sono la chiave del suc­cesso, e per­met­tono a chi sta sul palco di con­qui­stare la dedi­zione del pub­blico pagante. Renzi in que­sto è mae­stro: fa com­pa­rire, e subito dopo scom­pa­rire, la legge elet­to­rale, una volta veri­fi­cato che di lì non si passa, subito sosti­tuita, coni­glio dal cilin­dro, dal Jobs act e dalle sli­des, esi­bendo gli 80 euro in busta paga men­tre scom­pa­iono in un fou­lard viola pezzi di sistema sani­ta­rio e di ser­vizi sociali o interi bloc­chi di patri­mo­nio pub­blico avviati alla pri­va­tiz­za­zione. Dice di aver abo­lito le pro­vince, come pro­messo, e quelle se ne stanno sem­pre lì, intatte sotto il tap­peto por­pora del tavolo, non più elet­tive ma pur sem­pre inte­gre. Pre­para la Gre­cia, ma sem­bra la Ger­ma­nia. Finge un bat­ter di pugni men­tre in realtà batte i tac­chi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pub­blico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel ver­ti­gi­noso movi­mento, scruta sotto il man­tello per cogliere il trucco.
L’odiato intel­let­tuale è odiato per que­sto. Per­ché minac­cia di sve­lare il pre­stige. Di disin­can­tare l’illusione. Nemico con­di­viso di tutti gli spet­ta­tori che, inca­paci di par­te­ci­pare alla solu­zione del pro­blema, pre­fe­ri­scono vedersi rap­pre­sen­tata la mate­ria­liz­za­zione della spe­ranza. La sua filo­so­fia è peri­co­losa, come lo fu l’occhio inge­nuo del bam­bino che rive­lava la nudità del re. Pas­serà pro­ba­bil­mente, come tutte le infa­tua­zioni. Ma intanto sarà dura. Unica con­so­la­zione: la con­sta­ta­zione che oggi, dell’“uomo di mondo” Cal­li­cle – che con­tra­ria­mente all’“insulso” e “inge­nuo” Socrate non inse­guiva le nuvole e le idee -, nes­suno ricorda nep­pure più il nome.