giovedì 22 maggio 2014

Palermo, altra vittima della crisi: chiude la gioielleria Fiorentino. - Salvo Ricco

L’azienda ha comunicato la decisione ai sindacati. Fra pochi giorni la liquidazione di tutta la merce e il licenziamento per i 23 impiegati.
PALERMO. Chiude la gioielleria Fiorentino. L'azienda ha comunicato ai sindacati la decisione di liquidare la società e di cessare l'attività commerciale nei punti vendita di via Libertà e via Roma, mentre il negozio di Trapani era stato chiuso in precedenza. Fra pochi giorni l'azienda comincerà una campagna di liquidazione di tutta la merce e avvierà le procedure di licenziamento collettivo per 23 impiegati, cioé di tutto il personale in organico, compreso l'amministratore delegato.  
Il liquidatore sarà Alfredo Fiorentino e la procedura si dovrà concludere in 45 giorni. Ciò significa che da luglio potrebbe scattare la chiusura dei negozi. I soci hanno scelto di liquidare la società in bonis. Determinante è stata la crisi del mercato del lusso. «Ci siamo guardati attorno - dice Alfredo Fiorentino, oggi liquidatore della società - e abbiamo preso atto che il mercato, ormai da anni, sta attraversando un periodo di estrema sofferenza. La liquidazione ci è sembrata la strada più giusta, fermo restando che il nostro intento è quello di produrre la massima attenzione nei confronti dei dipendenti e dei fornitori, da sempre preziosi collaboratori».
Lo scenario che si aprirà è ancora un'incognita. Nel senso che, tra le ipotesi al vaglio ci potrà essere il mantenimento di una piccolissima quota delle azioni Fiorentino dentro una nuova compagine societaria o, l'alternativa più accreditata, ci sarà la cessione definitiva delle quote. Si parla di una immobiliare disposta a immettere capitali freschi per rilevare le azioni. Il ruolo della nuova società, con o senza i Fiorentino, sarà anche quello di far sbarcare una importante griffe del mondo del lusso, proprio nei quattro piani di via Libertà. L'importante patrimonio immobiliare dei Fiorentino, e soprattutto la licenza commerciale per media struttura - quando a Palermo, nel centro storico non possono aprire nuove medie strutture di vendita - che sarà sicuramente ceduta alla nuova attività commerciale in arrivo, rappresentano un grosso business. Le trattative sarebbero in corso di definizione. 
Di certo c'è che, almeno per il momento, Fiorentino uscirà di scena. 
Ci sarà anche da stabilire il futuro dei lavoratori. Con la procedura di licenziamento collettivo si aprirà una vertenza. 
Si cercherà di attingere agli ammortizzatori sociali, con la speranza che una parte venga assorbita dal nuovo marchio del lusso che sta per arrivare. I sindacati avvisano che «già ieri - dicono dalla Filcams Cgil - i lavoratori sono stati messi al corrente della liquidazione ed è stato chiesto il loro curriculum, da poter girare a chi aprirà una nuova attività». Questo perché al momento non si tratterebbe di una cessione di ramo d'azienda, modalità che imporrebbe all'impresa il passaggio automatico dei lavoratori al nuovo soggetto imprenditoriale».
Al di la degli aspetti tecnici, e quelli molto importanti legati all'occupazione, la notizia della chiusura dell'ennesimo marchio storico palermitano non fa certo piacere. Anche se al suo posto arriverà un brand con dietro una multinazionale. La Emanuele Fiorentino spa significa tradizione che si tramanda dal 1890, con il capostipite Emanuele Fiorentino, che aprì l'omonima gioielleria nel cuore della città. Un punto di riferimento per tanti palermitani. In questi ultimi anni, tra voci di chiusura e riprese, il marchio cittadino del lusso ha cercato di rimanere sul mercato, ricorrendo alla cassa integrazione per i lavoratori e ai licenziamenti.
Con l'annuncio della liquidazione, i sindacati hanno drizzato le orecchie. «Questa vicenda è zeppa di incognite - dice Monja Caiolo, segretario provinciale della Filcams Cgil - che l'aziende deve chiarire. Per questo motivo, abbiamo chiesto una convocazione per domani, perché abbiamo fretta di capire se c'è un passaggio di licenza a un nuovo marchio. Questo garantirebbe i lavoratori. Auspichiamo in tempi celeri - continua Caiolo - un incontro anche con il nuovo soggetto imprenditoriale, al quale chiederemo la garanzia dei livelli occupazionali». 

Appunto....



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Drones Over Dolphin Stampede and Whales off Dana Point and Maui

Ma che strana telefonata che fa Scajola alla moglie… ascoltatela. - Aldo Giannuli

scajola

Cappuccino, brioche e intelligence n° 46
Il “fatto” ha pubblicato il testo di una intercettazione telefonica fra Scajola e la moglie, una telefonata molto strana che merita qualche commento. Se non l’avete ascoltata, fatelo ora, vi assicuro che sono 4 minuti ben spesi.



Sentito? Ragioniamo: la prima cosa che colpisce è che Scajola faccia di questi discorsi per telefono, sapendo che la magistratura gli sta addosso. La moglie è evidentemente imbarazzata, parla per allusioni e si capisce che teme di essere intercettata da qualcuno: dice “La….” Lasciando in sospeso la parola, sperando che lui capisca, e lui “CHI, NAPOLI?” ci manca solo che aggiunga nome e cognome del sostituto che indaga. Lui no, un ex ministro dell’Interno, allievo di Paolo Taviani, che si vanta di avere un suo personale servizio di intelligence e che sicuramente ha ancora gente amica in organi di polizia e dei servizi, parla libero e sciolto come se recitasse il “Salve Regina”, ignaro di eventuali ascolti. Possibile? L’uomo non è mai stato un genio, ma mi pare un po’ troppo anche per lui.
Ma poi, che bisogno c’è di fare quella telefonata, visto che, come si sente nella conclusione, la donna deve incontrarla dopo qualche ora? Che bisogno c’è di fare quella sparata? E poi, cosa è quell’enfasi sul “Sto lavorando molto, molto, molto, molto bene” ripetuto almeno altre tre volte? La moglie avrà capito già dalla prima. Sembra invece che lui voglia attirare l’attenzione di altri su qualcosa.
Poi c’è quell’esplicito “faccio scoppiare un casino che non avete idea” che fa pensare ad un vero e proprio ricatto al Berluska, ma per avere cosa? La candidatura alle europee per l’immunità? Sembrerebbe di si, ma forse si parla anche d’altro. Comunque, è anche chiaro che la candidatura non l’ha ottenuta, come, peraltro, non sembra aver ottenuto nulla. Ed allora il “casino” di cui di diceva, come mai non è scoppiato? Solo una sparata a salve?
Difficile crederlo: l’uomo non è un pivello e non sta minacciando le Figlie di Maria: è tutta gente navigata, con foreste di peli sullo stomaco, che non si impressiona per una minaccia a vuoto e uno come Scajola lo sa perfettamente, perché è uno come loro. Ma allora, cosa è successo di mezzo sino al suo arresto? Evidentemente c’è stato tutto uno sviluppo che ignoriamo e su cui ameremmo sapere di più.
Peraltro, anche se l’ex Cavaliere lo avesse candidato, non avrebbe evitato l’arresto che è avvenuto 4 giorni dopo quella telefonata. Magari, se fosse stato eletto, poi sarebbe uscito (ma non prima di qualche mese fra campagna elettorale, verifica poteri, proclamazione…). Forse gli è stato promesso (ma da chi ed in che modo?) che comunque sarebbe uscito prima. Magari, dopo il tempo di qualche verbale…
Infine quello stranissimo accenno agli americani che ce la avrebbero con lui per la storia della Crimea: che c’entra lui con la Crimea? Cosa può aver fatto da fare arrabbiare lo zio Sam?
Allora, tiriamo le somme:
1. con ogni probabilità, Scajola sapeva perfettamente di essere intercettato e voleva dire quelle cose a chi era in ascolto, perché le riferisse ad altri (un’offerta di collaborazione? O altro?)
2. l’allusione al casino probabilmente è l’offerta di succose rivelazioni, evidentemente sul suo capo, che starà cercando di cautelarsi diversamente
3. L’insistenza sullo stare lavorando “molto, molto, molto bene” potrebbe anche indicare l’offerta non solo di parole, ma di supporti cartacei e qui casca a fagiolo la vanteria sul proprio servizio segreto personale
4. L’accenno alla Crimea fa pensare anche ad una dimensione internazionale dell’intrigo, che porta verso Putin e, forse quello che avrebbe più da temere dallo zio Sam non è lui ma proprio l’ex Cavaliere
5. E qui salta fuori la questione dell’archivio personale, così pieno di carte dei servizi, che alcuni dicono essere già stato saccheggiato da diverse Procure, altri dicono per buona parte finito in casa di uno 007, altri ancora giurano ancora essere ben succoso… gli archivi sono sempre stati la mia passione: quanto mi piacerebbe vedere questo!
6. Concludendo: se tanto mi dà tanto, occorre che lo Scajola si sbrighi a parlare prima che gli arrivi un caffè corretto. Sapete quel caffè così buono che chi lo beve parla con gli Angeli…
Comunque, ci sarà da seguire le prossime puntate. Caso appassionante e solo all’inizio.
Aldo Giannuli

Caso Biagi, Alfano: “Lo Stato non ha saputo proteggere il giuslavorista”

   

”Noi come Stato non abbiamo saputo proteggere Marco Biagi, questo è il dato reale. 
Non abbiamo ormai solo il dovere della memoria ma abbiamo il dovere della verità”. 
Lo ha affermato il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, intervistato a Sky Tg24. 
E’ comunque “sempre difficile la vicenda della gestione delle scorte - ha spiegato il ministro - perché se ne dai troppe ci si indigna e se ne dai troppe poche metti a rischio le persone”.
Dopo l’apertura di un’inchiesta su Claudio Scajola e sulla decisione, dell’allora ministro dell’Interno, di revocare la scorta al giuslavorista, ucciso poi da un agguato brigatista sotto la propria casa a Bologna, interviene oggi sulla vicenda anche il presidente del Consiglio,Matteo Renzi. “Bisogna capire bene chi è in pericolo veramente. C’è un sacco di gente che ha la scorta ma non ne ha bisogno. La scorta sta diventando uno status symbol per i politici”. Ma il caso di Biagi è diverso, sottolinea Renzi. “Una cosa è garantire la scorta a chi rischia la vita, un altro conto sono le autoblu che, con Biagi, non c’entrano nulla. Io non vedo sottosegretari in pericolo. Io da sindaco la scorta non l’avevo”.
Dal canto suo il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, che guidava il governo in cui Scajola era ministro dell’Interno all’epoca dell’omicidio Biagi, afferma, a proposito dell’archivio segreto attribuito all’ex titolare del Viminale: “Non potevo immaginare nulla di questo, bisognerà vedere quali carte sono, se sono veramente segrete, spero che non lo siano”. E aggiunge: “Rimasi addoloratissimo quando successe l’uccisione di Biagi. Scajola si dimise -ricorda l’ex premier- anche senza che noi lo chiedessimo. Adesso Scajola è da molto tempo fuori dal nostro partito”.

Truffa Carige: perquisizioni e 7 arresti, Berneschi ai domiciliari.

Giovanni Berneschi (foto: ANSA )

GdF, portati in Svizzera 21 milioni di euro
Il vicepresidente dell'Abi ed ex presidente del cda di Carige Giovanni Berneschi è stato arrestato nell'ambito dell'indagine su Carige. Nei suoi confronti sono stati disposti gli arresti domiciliari per una presunta truffa e riciclaggio ai danni della banca. Ai domiciliari l'ex amministratore di Carige Vita Nuova Fernando Menconi.
I reati sarebbero stati compiuti ai danni del comparto assicurativo di Banca Carige. Secondo l'accusa si tratterebbe di patrimoni che venivano riciclati attraverso lo schermo di società finanziarie italiane e straniere. I fatti sarebbero avvenuti a partire dal 2006.
La Guardia di finanza ha eseguito 7 ordinanze di custodia cautelare e perquisizioni a Genova, Milano e La Spezia e il sequestro di beni per 22 milioni.  
Dal 2006 al 2009, secondo la Guardia di finanza, gli acquisti "gonfiati di società facenti capo a persone compiacenti hanno fatto in modo che fossero portati in Svizzera circa 21 milioni di euro". Di questi, "parte è stata impiegati per un investimento immobiliare in territorio elvetico i cui effettivi titolari erano i vertici del gruppo Carige".
Tra i destinatari delle ordinanze di custodia cautelare ci sono anche professionisti e imprenditori immobiliari. Secondo gli investigatori l'indagine dimostra "l'esistenza di un management fortemente condizionato dal carismatico leader ventennale del gruppo bancario assicurativo", Giovanni Berneschi.
Le indagini hanno preso il via dalla relazione della Banca d'Italia depositato in procura nel settembre 2013 e sul quale sono ancora in corso le indagini e gli accertamenti da parte della Gdf.
Per la Guardia di finanza "Giovanni Berneschi, attuale vicepresidente di Abi e della Cassa di Risparmio di Carrara aveva creato un management fortemente condizionato dal carismatico leader ventennale sia del gruppo bancario che assicurativo".
"Abbiamo preso atto delle iniziative intraprese dalla magistratura, nell'operato della quale riponiamo piena fiducia. Da quanto si apprende Banca Carige risulta parte lesa. Ci riserviamo di intraprendere, a tutela del Gruppo, tutte le opportune iniziative" dice il presidente di Carige Cesare Castelbarco Albani riguardo al vecchio management.
Gli arrestati nell'inchiesta su Carige. Giavanni Berneschi (domiciliari) ex presidente di Banca Carige, 77 anni; Ferdinando Giovanni Menconi, ex amministratore di Carige Vita Nuova (domiciliari), 71 anni; Ernesto Cavallini, imprenditore immobiliare (domiciliari), 70 anni; Davide Enderlin, svizzero, 42 anni, avvocato (in carcere); Sandro Maria Calloni, imprenditore, 65 anni (in carcere); Andrea Vallebuona, commercialista di Genova, 51 anni (carcere), Francesca Amisano, nuora di Berneschi 47 anni (carcere).

Truffa alla Carige, arresti e perquisizioni: “Portati in Svizzera 22 milioni”

(Foto Infophoto)
La guardia di Finanza ha eseguito sette ordinanze di custodia cautelare nell’inchiesta su una presunta truffa all’istituto bancario Carige. Tra le persone arrestate c’è l’ex presidente del cda di Carige e vicepresidente dell’Abi Giovanni Berneschi: nei suoi confronti sono stati disposti gli arresti domiciliari. Ai domiciliari è finito anche l’ex presidente di Carige Assicurazioni, Ferdinando Menconi. Gli altri arresti riguarderebbero cinque professionisti considerati dagli inquirenti gli “esecutori” delle operazioni contestate. Nei confronti degli indagati le accuse sono a vario titolo di associazione a delinquere, truffa aggravata, riciclaggio e intestazione fittizia di beni.
Sono inoltre in corso perquisizioni a Genova, la Spezia e Milano e il sequestro di beni per un corrispettivo di 22 milioni di euro.
Dal 2006 al 2009 “gli acquisti gonfiati di società facenti capo a persone compiacenti, hanno fatto in modo che fossero portati in Svizzera circa 22 milioni di euro, parte dei quali sono stati impiegati per un importante investimento immobiliare in territorio elvetico, i cui effettivi titolari erano i massimi vertici pro-tempore del Gruppo bancario assicurativo Carige”. E’ quanto emerge dall’indagine della GdF di Genova.
Rilevante, in questo contesto, secondo gli investigatori, il ruolo di mediatore di un avvocato svizzero, attraverso il quale sono transitati i capitali per nasconderne l’illegittima provenienza. Le ispezioni della Banca d’Italia al Gruppo Carige e i mutamenti negli assetti societari e nei rapporti tra Banca e Fondazione, secondo le Fiamme gialle avevano convinto gli indagati a riorganizzare i loro capitali all’estero mediante un intreccio di accordi e atti negoziali, secondo una strategia che avrebbe dovuto consentire di contemperare più esigenze e che avrebbe visto, alla fine, anche il subentro nell’investimento immobiliare di un soggetto con precedenti penali per bancarotta.
Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, le cessioni di quote di società create ad hoc consentivano il passaggio dei capitali a società fittizie residenti in Paesi a fiscalità privilegiata, con clausole contrattuali che avrebbero dovuto dissimulare le reali consistenze e “pulire”, ad ogni transazione, ingenti somme di denaro.

Fusione Unipol-Sai, Fiamme Gialle a Bologna. Indagato Cimbri per aggiotaggio.

Fusione Unipol-Sai, Fiamme Gialle a Bologna. Indagato Cimbri per aggiotaggio

L'ispezione è stata disposta dalla magistratura per i presunti illeciti nella fusione tra Unipol Assicurazioni, Premafin Finanziaria, Milano Assicurazioni e Fondiaria Sai sostenuta da Mediobanca in quanto creditrice di entrambi i gruppi. Guardia di Finanza anche in Consob.
L’amministratore delegato di UnipolSai Carlo Cimbri è indagato per aggiotaggio dalla Procura di Milano nell’inchiesta che riguarda presunti illeciti nell’operazione di fusione tra il gruppo assicurativo delle coop e l’ex polo della famiglia Ligresti che ha dato vita alla società. Sono indagati per lo stesso reato anche altri tre manager: Roberto Giay, già amministratore delegato di Premafin Finanziaria; Fabio Cerchiai, ex presidente del consiglio di amministrazione di Milano Assicurazioni e Vanes Galanti, in passato presidente del consiglio di amministrazione di Unipol Assicurazioni. Per tutti l’ipotesi di reato è aggiotaggioLa notizia è emersa mentre a Bologna, nella sede di UnipolSai, erano in corso delle perquisizioni della Guardia di Finanza che sono state disposte dalla magistratura in relazione a presunti illeciti commessi nel corso della fusione avvenuta tra Unipol Assicurazioni, Premafin Finanziaria, Milano Assicurazioni e Fondiaria Spa che ha dato vita a UnipolSai. Del resto sono tante le criticità che erano emerse sull’operazione fin dalla sua gestazione orchestrata da Mediobanca e si erano via via intensificate a ridosso del suo perfezionamento. Nel silenzio generale delle autorità di vigilanza.
Come per esempio la Consob che, nonostante le intercettazioni telefoniche raccolte dalla Guardia di finanza di Torino su come a Bologna si cercasse in tutti i modi di far quadrare i conti, interpellata in merito da ilfattoquotidiano.it alla vigilia del via libera alla fusione, non si è interessata alla questione e non ha messo in forse l’assemblea che il 25 ottobre scorso ha approvato l’operazione. Eppure il reato di aggiotaggio contestato Cimbri, a Giay, Cerchiai e Galanti si riferisce proprio ai valori di concambio delle azioni delle società coinvolte, cioè il controvalore dell’operazione, al momento della fusione delle società. Tema al centro delle intercettazioni venute a galla alla vigilia dell’assemblea. Tanto che secondo l’ipotesi di reato per la quale procede il procuratore Orsi, i concambi tra le società sarebbero stati valutati in modo erroneo e artificioso.  A viziare i concambi, sospettano gli inquirenti, sarebbe stato il ritocco al rialzo del valore reale degli immobili e dei titoli strutturati in pancia a Unipol, con impatto sul valore effettivo delle azioni emesse da Unipol. Ne sarebbero derivate significative alterazioni dei prezzi delle azioni e riflessi sul “peso” degli azionisti nella nuova società UnipolSai.
Sempre in relazione ai concambi nel corso dell’indagine la Procura ha acquisito, tra l’altro, il Progetto Plinio, il rapporto sui conti del 2011 della compagnia bolognese commissionato dai vertici di FonSai a Ernst & Young nel quadro sulla negoziazione dei concambi per la futura fusione e le cui risultanze erano ben diverse da quelle a cui giungevano i consulenti di Unipol. Secondo lo studio, le valutazioni sul bilancio del gruppo bolognese variavano, di molto, a secondo del consulente di riferimento. Una guerra di valutazioni che, secondo la società di revisione, poteva addirittura comportare per Unipol un patrimonio negativo. Anche su questo punto, all’epoca della diffusione del rapporto, si era registrato un certo immobilismo da parte della Consob che si era mossa solo dopo che le sollecitazioni della Procura di Milano con il pm Luigi Orsi, lo stesso che ha iscritto Cimbri nel registro degli indagati, aveva fatto recapitare una lettera alla Commissione di Giuseppe Vegas in cui chiedeva alla Consob se avesse riscontrato i dati su Unipol evocati dal progetto Plinio che circolavano in rete e se questi avessero potuto interferire con la trasparente formulazione dei prospetti.
Inoltre il magistrato domandava se il piano di risanamento finanziario della holding dei Ligresti, Premafin, fosse stato stato interamente divulgato al mercato o esistessero patti occulti con la famiglia siciliana. Solo a seguito della lettera di Orsi la Consob ha avviato un’analisi sul portafoglio di titoli strutturati di Unipol, che ai tempi della fusione rappresentava circa un quarto degli investimenti della compagnia bolognese. Nel corso della sua analisi la Commissione ha contestato la conformità del bilancio 2011 e della semestrale 2012 ad alcuni principi contabili internazionali nelle modalità di contabilizzazione di alcuni derivati. L’adozione dei principi indicati dalla Consob ha comportato 28,2 milioni di perdite in più nel 2011 e una riduzione del patrimonio netto di 49,2 milioni. Nel 2013 Unipol, riesponendo il bilancio 2011 per accogliere i rilievi, ha inoltre comunicato che l’affinamento delle metodologie di stima dei suoi derivati adottate nel corso del 2012, quando la magistratura aveva acceso un faro sul suo bilancio, aveva determinato un taglio di 240 milioni al fair value (valore di mercato) del portafoglio strutturati. L’analisi della vigilanza si è chiusa senza ulteriori rilievi a fine 2013.
Ma quello della Consob, che giovedì ha ricevuto anch’essa una visita della Guardia di finanza per l’acquisizione di nuova documentazione, non è un caso isolato. Dalle carte dell’inchiesta sul fallimento del gruppo Ligresti del procuratore milanese Orsi, nei mesi scorsi era emerso chiaramente il ruolo dell’Isvap, l’ex organismo di vigilanza delle assicurazioni, per agevolare la discussa fusione che stava molto a cuore a Mediobanca creditrice di entrambi i gruppo. In particolare la Procura aveva preso nota dell’attivismo del vicedirettore dell’Isvap, Flavia Mazzarella in costante contatto sia con il vigilato Cimbri che con Piazzetta Cuccia, Bankitalia e Consob ai tempi del via libera delle autorità all’operazione, nel 2012.
Fatti che non hanno avuto alcuna ripercussione sulla posizione della Mazzarella che risulta ancora dirigente in staff dell’Ivass, l’ente di vigilanza delle assicurazioni che ha preso il posto dell’Isvap. Ma neanche sugli assetti della Consob i cui funzionari erano in confidenza con i vigilati, rassicurandoli sull’esito di decisioni che solo la Commissione poteva prendere. A dimostrarlo, tra il resto, una serie di telefonate del luglio 2012 raccolte dalla Procura di Milano tra il capo della divisione emittenti della Consob, Angelo Apponi e la Mazzarella, nel corso della quale è lo stesso funzionario a raccontare al numero due dell’Isvap di aver incontrato Cimbri che “era preoccupato (per le decisioni in corso sulla fattibilità della fusione, ndr) ma lui lo ha rassicurato”. Pochi giorni dopo arrivò il via libera della Commissione all’esenzione di Unipol dal lancio di una costosa Offerta pubblica di acquisto sulla Milano Assicurazioni, con il conseguente crollo in Borsa (-10,72%) della compagnia dei Ligresti. Un esito che avrebbe fatto ricco chiunque l’avesse saputo prima degli altri. 
Tornando ai giorni nostri, la notizia del nuovo filone di indagine ha avuto ripercussioni immediate sui mercati finanziari. In scia agli eventi il titolo UnipolSai in Borsa ha imboccato la via del ribasso e dopo aver toccato un picco negativo superiore al 6% ha chiuso in calo del 3,8% a 2,27 euro. Peggio ancora è andata alla controllante Unipol Gruppo Finanziario che è precipitata del 7,33% a 4,17 euro. Non va tanto meglio a Mediobanca che sta perdendo il 2,84% a 6,67 euro.  E proprio qui si attacca Unipol che, incurante del paradosso rispetto alle accuse di aggiotaggio, “stigmatizza che la notizia delle indagini” sulla fusione da cui è nata UnipolSai “sia divenuta oggi di pubblico dominio con immediati, conseguenti e gravi impatti sul corso dei titoli del gruppo Unipol”. La società, si legge in una nota, “si riserva ogni opportuna valutazione a tutela propria e dei propri azionisti”.