lunedì 5 ottobre 2015

INDIGENI RIFIUTANO UN MILIARDO DI DOLLARI DAL GIGANTE PETROLIFERO PER UN NUOVO GASDOTTO IN CANADA. - Francesca Mancuso

gasdottoindigeni

Una storia da leggere con calma, staccandosi per un momento dagli impegni del quotidiano. Una testimonianza di amore incondizionato e di attaccamento per Madre Terra. Voliamo virtualmente al confine tra Canada e Alaska, dove vivono gli indigeni Lax Kw’alaams: nelle loro terre verrà costruito l'impianto per la produzione di gas naturale liquefatto Pacific Northwest. È stato offerto loro un mega risarcimento di un miliardo di dollari da parte della società petrolifera Petronas, ma i Lax Kw’alaams hanno rifiutato.
L'offerta comprendeva esattamente un miliardo cash in 40 anni e altri 108 milioni in terre, pari a 320mila dollari per ogni indigeno. Un NO che suona ancora più forte se si pensa che è il simbolo della Natura contro i veleni umani, dell'amore per la terra contro quello delle multinazionali per il denaro.
Bastano le parole del grande capo Stewart Phillip a far capire come il denaro sia nulla se rapportato al valore degli ecosistemi naturali, di cui gli indigeni si porgono a tutela:
I nostri anziani ci ricordano che il denaro è come la polvere che viene soffiata via velocemente dal vento, mentre la terra è per sempre” ha detto al quotidiano canadese The Globe and Mail.
Facciamo un passo indietro e ripercorriamo la storia che si snoda attorno al progetto del gruppo Pacific Northwest Lng (Pnw Lng), un piano che prevede un investimento da 11,4 miliardi di dollari per la realizzazione di una struttura dedicata alla trasformazione del gas naturale in gas naturale liquido e poi al trasporto in Asia via mare lungo un gasdotto di 950 chilometri. Non è un errore: quasi 1000 km.
La struttura partirebbe dall'isola Lelu e dal Flora Bank, un banco di sabbia che la marea a volta nasconde sull'estuario del fiume Skeena. E qui si aggancia la vicenda dei Lax Kw’alaams che rivendicano queste aree come indigene. Il fiume Skeena è l'antichissima casa di questa comunità formata da 3.600 persone, che hanno accesso esclusivo alle risorse naturali.
firstnation
Spiegano gli indigeni che il significato della foce del fiume Skeena non può essere sottovalutato e che i Kw'alaams Lax sono vincolati dalla legge tradizionale che coinvolge anche le altre comunità a proteggere le risorse naturali per le generazioni future.
In base alla legge canadese, Petronas, proprietario di maggioranza del gruppo Pacific Northwest Lng, doveva avviare le consultazioni con la comunità indigena. Così ha fatto. Ma i Lax Kw’alaams hanno rifiutato all'unanimità l'enorme risarcimento offerto, rivendicando il diritto sancito dall’articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite. E in un comunicato spiegano:
“ Speriamo che il pubblico riconosca il consenso unanime della comunità (dove l'unanimità è l'eccezione) nei confronti di un progetto in cui alla comunità stessa è fatta un'offerta al di sopra di un miliardo di dollari. Non è un problema di soldi ma una questione ambientale e culturale”.
Per il progetto, gli indigeni saranno esclusi dall’isola Lelu, da cui ricavano tradizionalmente piante e medicine tradizionali. Non si tratta solo di diritti delle popolazioni indigene ma di un'intera comunità che non vuole sacrificare i propri luoghi per gli interessi delle multinazionali. La consultazione per il progetto è stata rivolta a cinque gruppi indigeni ma solo i Lax Kw’alaams hanno rifiutato ogni compromesso pur essendosi detti aperti al dialogo e al confronto.
Peccato però che intanto il governo provinciale abbia rinnovato il proprio impegno nel progetto, firmando un accordo con Pacific Northwest Lng per uno dei 19 progetti nella Columbia Britannica. L'ultima parola spetta ora alla Canadian Environmental Assessment Agency, che si pronuncerà in autunno.

domenica 4 ottobre 2015

Afghanistan: bombe Usa su ospedale Kunduz. Per Msf almeno 20 morti. Pentagono: "Indagine insieme a Kabul".

© EPA


Il bombardamento sull'ospedale afghano sarebbe stato lanciato per errore.


Médecins sans Frontières (Msf) si è ritirata da Kunduz, la città afghana dove ieri l'ospedale è stato distrutto da un raid aereo, condotto dagli Usa secondo Msf, con almeno 19 morti e decine tra feriti e dispersi. Kate Stegeman, portavoce di Msf, ha precisato che parte del personale sta lavorando in altre strutture della città.
ll presidente Usa, Barack Obama, esprime cordoglio per i medici e i civili rimasti uccisi nel "tragico incidente" all'ospedale Msf a Kunduz, ma precisa di voler aspettare i risultati dell'inchiesta del Pentagono "prima di esprimere qualsiasi giudizio". E' quanto si legge in una nota della Casa Bianca.
"Il ministero della Difesa ha lanciato un'inchiesta completa e aspetteremo i risultati prima di dare un giudizio definitivo sulle circostanze di questa tragedia", ha detto Obama. "Ho chiesto al dipartimento di tenermi al corrente delle indagini e mi aspetto un resoconto completo dei fatti e delle circostanze. Michelle e io preghiamo per tutti i civili colpiti da questo incidente, le loro famiglie e le persone care", prosegue il presidente. Obama ha quindi ribadito che "continueremo a lavorare a stretto contatto con il presidente Ghani, il governo afgano e i nostri partner internazionali per sostenere le forze di difesa nazionale afghane che lavorano per garantire la sicurezza al loro Paese".
Bombe americane colpiscono l'ospedale di Medici senza Frontiere (Msf) a Kunduz, in Afghanistan, città sotto il controllo dei talebani e da giorni teatro di scontri con le forze di sicurezza governative: almeno 20 morti il bilancio provvisorio, secondo quanto detto al Guardian online fonti di Msf. I feriti sono numerosi e il bilancio è destinato a salire. Il bombardamento è proseguito per mezz'ora dalla segnalazione alle forze armate Usa e afgane, denuncia Msf su Twitter, aggiungendo che "tutte le parti in conflitto, incluse Kabul e Washington, conoscevano le coordinate delle nostre strutture già da mesi".
Le forze americane, tramite il portavoce delle forze Usa in Afghanistan, colonnello Brian Tribus, hanno detto che l'operazione "potrebbe avere causato danni collaterali ad una struttura medica della città". "Indaghiamo sull'incidente", ha aggiunto. "Le forze Usa hanno condotto un raid aereo sulla città di Kunduz alle 2,15 locali, contro individui che minacciavano le forze".
Mentre Kabul sostiene che nell'ospedale "si nascondevano 10-15 terroristi", tutti "uccisi, ma fra le vittime ci sono stati anche dottori". Circa 80 membri dello staff dell'ospedale, fra cui 15 stranieri, sono stati portati in salvo.
Pentagono, indagine completa insieme a Kabul - "Stiamo cercando di determinare cosa sia successo esattamente e voglio esprimere il mio cordoglio alle persone colpite". Così, il segretario alla Difesa Usa, Ash Carter, dopo i raid aerei Usa che hanno colpito l'ospedale Msf a Kunduz, in Afghanistan, provocando almeno 20 morti. "Un'indagine completa sui tragici fatti è in corso in coordinamento con il governo afghano", ha aggiunto.
Ue deplora morti - "Sono profondamente scioccato nell'apprendere della morte di almeno nove membri dello staff di Msf nel bombardamento" di un ospedale a Kunduz. Così il Commissario Ue per l'Aiuto umanitario e la gestione delle crisi Christos Stylianides in una nota con cui la Commissione Ue "deplora le morti", porgendo "sincere condoglianze".
I talebani hanno condannato "il selvaggio attacco" in cui sono stati "martirizzati decine di medici, infermiere e pazienti". 
    L'Emirato islamico dell'Afghanistan, sostiene il portavoce Zabihullah Mujahid, "condanna questo crimine americano". Questo gesto, si dice ancora, mostra agli afghani e al mondo "la natura spietata ed ipocrita degli invasori e dei loro mercenari".
Emergency esprime la "sua solidarietà a Medici senza Frontiere e condanna fermamente l'attacco. "Bombardare un ospedale dove si curano i feriti è un atto di violenza inaccettabile. Un ospedale è un luogo di cura che come tale va tutelato e ciò è possibile solo se gli ospedali vengono rispettati da tutte le parti in conflitto, come previsto dalle convenzioni di Ginevra".

Oggi pomeriggio Msf trasferirà alcuni feriti all'ospedale di Emergency a Kabul. Emergency resta a disposizione di Msf e della popolazione di Kunduz per curare gli altri feriti che potranno essere evacuati dalla città. Emergency, che in Afghanistan gestisce 3 ospedali, 1 centri di Maternità e 45 posti di primo soccorso, è molto preoccupata dal costante peggioramento delle condizioni di sicurezza: nel Paese si combatte in 25 province su 34 e il numero dei feriti e delle vittime civili cresce di mese in mese. La "violenza e l'instabilità in cui sta precipitando l'Afghanistan rende sempre più difficile garantire l'attività degli operatori umanitari e tutto questo rischia di tradursi in un ulteriore danno a discapito della popolazione afgana", conclude la nota.

venerdì 2 ottobre 2015

Siria: un rovescio geopolitico Usa. Che avrà conseguenze. - Maurizio Blondet

300915

Le bombe russe non avevano ancora toccato il suolo, che già tv e altri media occidentali urlavano la propaganda americana: “Hanno ammazzato dei bambini!”, “Hanno colpito non l’ISIS ma l’opposizione moderata”, (cioè Al Qaeda…). “Hanno sbagliato bersaglio! Usato bombe non guidate, sono schiappe!” (The Aviationist). Praticamente tutti i media americani, dovendo citare Assad, lo fanno precedere da sereni appellativi come: “Il boia di Damasco”, il “Mostro”, colui che “ha gassato il suo popolo” (accusa comprovata falsa già da due anni: nel 2013 furono i ‘ribelli moderati’ a gettare il gas nervino, apposta per provocare l’intervento occidentale).
La Francia “apre un’inchiesta contro Assad per crimini contro l’umanità”. Ha le prove. Come no: un “fotografo del regime”, nome in codice Cesar, incaricato dal regime medesimo di fotografare i morti e torturati dal suddetto e medesimo regime, è fuggito a Parigi con 55 mila foto di cadaveri straziati. Proprio adesso. Tutto vero: il Corriere lo mette a pagina 2.
Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov, Ministro degli Esteri di Mosca, s’è stupita coi giornalisti della rapidità con cui sono comparse foto dei civili feriti. “Sappiamo come si fanno queste foto”, ha detto ricordando “Wag the Dog”, il film del ’97 con De Niro e Dustin Hoffman (in Italia, “Sesso e Potere”) che narra della fabbricazione di una guerra degli Usa contro l’Albania, tutta fatta al photoshop e con effetti speciali elettronici tv.
E’ tutto un gran dispiacere perché, come ha   ammesso un think tank di Londra, “la Russia sta danneggiando Al Qaeda, il che è una brutta cosa” (a bad thing). Il think tank che s’è lasciato sfuggire il disappunto è il Royal United Services Institute (RUSI), una emanazione dei servizi. Al Qaeda (oggi Al Nusrah) è adesso “l’opposizione moderata”. Il noto generale Petraeus, solo due mesi fa’ ha apertamente spiegato al Senato che Al Qaeda è oggi l’alleato migliore degli Usa per  “ debellare l’ISIS” (leggi: cacciare Assad) e va’   quindi armata ben bene.
Cosa un po’ difficile da far ingollare all’opinione pubblica americana, per quanto manipolata: scusate, ma non è Al Qaeda che – come ci avete detto voi – ha ucciso 3 mila americani nelle Twin Towers l’11 Settembre? E adesso dovremmo allearci con questi? Ma qualcuno l’ha pur ingollata: per esempio Radio Radicale, che mai come oggi s’è rivelato un asset neocon americanista, leggendo religiosamente solo i giudizi del New York Times, del Washington Post, ma soprattutto del Wall Street Journal, senza dimenticare l’organo francese dei Rotschild, Libération, il più scatenato (si sa, Putin è omofobo..).
La tesi generale della propaganda è: Putin, bombardando Al Qaeda, “aiuta l’ISIS” invece di combatterlo. “Getta benzina sul fuoco della guerra civile”, ha lamentato Washington (che ha gettato benzina sul fuoco di tutte le guerre civili che le piacciono, dall’Ucraina alla Libia, dall’Irak alla Somalia…).
In realtà, la ragione tattica delle  prime azioni russe è trasparente: anzitutto,  ha “ripulito gli angolini” attorno alla propria base aerea, l’aeroporto di Jableh. La prima ondata ha neutralizzato centri di comando, depositi di carburante e munizioni, nidi d’artiglieria e blindati di Al Qaeda (diciamo Cia) a Ghmam e Deir Hana, due città del governatorato di Latakia, a 25-30 chilometri da Jableh. La seconda ondata ha centrato Latamneh et Kafr Zita, nel governatorato di Hama, a 30-40 chilometri dal “suo” aeroporto. La terza ondata ha colpito bersagli nel governatorato di Homs, a 30-50 chilometri a sud-est diJableh. Così, Al Qaeda (o la Cia, diciamo) non potrà più curiosare o insidiare le seguenti operazioni.
Da qui il dispetto generale. 
Del resto è comprensibile. La decisa azione russa ha denudato l’ipocrisia americana che, a capo di una “coalizione” che comprende i sostenitori dei terroristi takfiri (Sauditi, Katar, Erdogan) “bombarda l’ISIS” da due anni sì, ma  con rifornimenti paracadutati, secondo il governo iracheno che lo sta combattendo davvero. Putin ha visto il bluff, ora ad Obama non resta che in qualche modo accodarsi, a parole, e rassegnarsi alla neutralizzazione dei suoi terroristi; ed accettare in qualche modo una “transizione” che non solo comporta la presenza di Assad (e delle minoranze che garantisce) nella futura sistemazione, ma il mantenimento delle strutture istituzionali. Il tutto, con un prevedibile trionfo non solo militare ma etico e politico di Mosca. In Europa, i tagliagole non hanno acquisito una gran popolarità, con le loro decapitazioni, ed il fatto che Putin li stia cercando di eliminare non può esser fatto passare come una violazione di “diritti umani” o un atto d’inciviltà.
In Medio Oriente, tutti i leader di quell’area hanno visto che Mosca non ha tradito l’alleato pericolante, ma lo sostiene con le sue armi; armi che, si può indovinare, avranno presto una più grossa quota di mercato. L’Iran trionfa, anzi tutto l’asse sciita. La Turchia è mal messa. In Israele si stanno certo chiedendo che fare se Mosca sostituisce Washington come egemone regionale…per fortuna tanti ebrei parlano russo.
Il rovesciamento del dato geopolitico è immenso. Le sue conseguenze si sono appena cominciate a vedere. “Riad non esclude il ricorso alla forza militare per cacciare Assad”, ha proclamato il ministro degli esteri saudita (si chiama Adel al-Jubeir) .

esecuzioni quotidiane
esecuzioni quotidiane

Patetico. L’orribile monarchia saudita che decapita e crocifigge giovani per reato d’opinione (strano che Parigi non apra un dossier per i crimini contro l’umanità per la crocifissione di Ali Al-Nimr: http://rhubarbe.net/blog/2015/09/18/ali-al-nimr-lislam-le-sabre-et-la-croix/ deve guardarsi dal nemico interno.
Anzi più che interno: la rivolta cova nel Palazzo.
Un nipote del fondatore della dinastia Abdulaziz Ibn Soud,  anonimo ma sicuramente influente (e quasi certamente sostenuto dai “servizi” britannici) , ha scritto una lettera pubblica e pubblicata dal Guardian per chiedere la detronizzazione del re in carica, l’ottantenne Salman (“in condizioni instabili”, ossia moribondo) e per colpire il suo successore preferito, il figlio Mohammed ibn Salman, che il vecchio morente ha nominato ministro della difesa e insieme dello sviluppo economico: due cariche che dovrebbero dargli tranquillamente la successione, ma oggi sono invece due pietre al collo.

il principe ed erede
il principe ed erede Mohammed bin Salman

E’ infatti lui, come ministro della difesa, il responsabile della vergognosa guerra che la Saudia, lo stato più ricco della zona, ha sferrato contro lo stato più povero, lo Yemen, con grandi stragi (lì sì) di bambini musulmani. La diffusione sul web di foto di cadaverini yemeniti spiaccicati, maciullati, smembrati dalle bombe saudite sta provocando urti di vomito anche nel regno. Strano che La Stampa di Torino, che ha pubblicato la foto del piccolo profugo per commuoverci e  farci accettare i migranti, non pubblichi queste, per farci urlare di indignazione verso la monarchia più mostruosa della storia. Non tutte sono impubblicabili.

Era una bella bambina yemenita
Pubblica anche questa, direttore Calabresi…
Come ministro “dello sviluppo”, l’erede designato è il colpevole anche delle due stragi di fedeli pellegrini musulmani avvenute a La Mecca in rapida successione. Prima, la caduta della gru (200 morti, si dice) e poi, l ‘inimmaginabile eccidio prodotto, alla Mecca durante la Festa del Sacrificio: ufficialmente quasi 800 morti, secondo l’Iran fino a quattromila.

bulldozer alla mecca
I buldozer alla Mecca

 Certo è che i morti sono stati raccolti coi bulldozer. Erano iraniani (almeno 400), nigeriani, pakistani, egiziani , la cui morte diffonde nel mondo islamico la pubblicità meno auspicabile per la monarchia petrolifera e la sua gestione dei luoghi santi.
Tutti ormai sanno in Oriente che la calca dei pellegrini “é stata causata dall’improvviso passaggio del corteo di Mohammed bin Salman al-Saoud, Ministro della Difesa di Riyadh, che, accompagnato da un ‘codazzo’ di 200 militari e 150 poliziotti ha ‘tagliato’ la folla dei pellegrini con una carovana di numerose automobili e furgoncini”, ossia lo stupido arrogante erede. E come fece Nerone quando la voce popolare lo accusò di aver incendiato Roma, lui incolpò i cristiani e li crocifisse, l’erede  ha incolpato gli esecutori e i tecnici.  Laddove tutti gli arabi  sanno che la mostruosa e titanica  ristrutturazione-distruzione della Mecca è un enorme affare con mazzette e bustarelle, per cui i fondi stanziati  non arrivano alle  maestranze.  E la famiglia reale  c’è dentro fino al collo.
Si aggiunga che il protettore americano ha stretto il noto accordo con l’Iran, e dunque la sopravvivenza dei Saud non è più una necessità geopolitica primaria per Washington.
Si aggiunga la caduta dei prezzi del barile, inizialmente voluto da Casa Saud contro gli sfruttatori dello shale in Usa e per tagliare le gambe al concorrente Russia, ma oggi inarrestabile – e che ha costretto la monarchia a mettere mano alle riserve, e i cui conti sono in deficit (secondo il FMI) per 107 miliardi di dollari, pari al 20% del Pil. Il che può obbligare la numerosa e dilapidatrice Famiglia a tagliare le “spese sociali” (diciamo) con cui i Saud comprano il consenso della popolazione, distribuendole in parte i benefici dell’introito petrolifero. Siccome nonostante queste regalie il 40 per cento della popolazione del paese più ricco del mondo arabo vive in povertà e il 40 per cento dei 20-24 enni sono dichiarati disoccupati, la rivolta contro i monarchi (e probabili dunmeh) cova. Il boia, con le sue 175 esecuzioni in otto mesi, riesce a raffreddarla. Ma adesso la rivolta è esplosa nella famiglia reale stessa, col pronunciamento dell’anonimo principe pubblicato dal Guardian  – si noti la maligna astuzia – anche in arabo, per il consumo locale e rinfocolare le discordie.

Alla Mecca

L’anonimo principe dice che anche i capi tribali stanno dalla sua parte nella critica al re e al suo erede. Notabili vari, e persino elementi della famiglia reale: “un sacco di nipoti, una quantità di seconda generazione sono ansiosi”, ha scritto con scherno. Secondo Khairallah Kairallah, ex direttore del giornale Al Hayat, il sistema di potere saudita non può durare, seduto su questo vulcano, più di un anno o un anno e mezzo. Salvo qualche miracolo come la salita del greggio, che però favorirebbe i nemici (Iran, Russia, gli estrattori del gas da scisto americani).
L’azione di Putin ha ridistribuito le carte in Oriente. Gli americani, a meno che non s’inventino qualcosa, non ne hanno in mano di buone. I mostri sauditi le hanno pessime.

giovedì 1 ottobre 2015

Invita gli amici alla vendemmia, prende una multa da 19.500 euro per lavoro nero. - Valter Manzone, Marisa Quaglia



Doveva essere una festa, si è trasformato in un blitz dell’ispettorato. Il sindaco di Castellinaldo d’alba: «Assurdo, in campagna ci si aiuta da sempre».

È finita con una multa di quasi 20 mila euro quella che doveva essere una festa tra le vigne di Castellinaldo d’Alba, in provincia di Cuneo. Come faceva spesso, Battista Battaglino, 63 anni, pensionato, mercoledì ha invitato alcuni amici nella sua casa, in località Granera, nel cuore del Roero. È una bella giornata, i filari del suo piccolo podere, un ettaro di terreno in collina, sono carichi di grappoli, barbera e un po’ di nebbiolo. Così i quattro decidono di aiutare Battista a vendemmiare. Uve che il pensionato utilizza per produrre il vino per sé, quello che consuma in casa e con qualche amico. Il tutto si dovrebbe concludere con una cena in allegria.  

Ma il finale è ben diverso. Lo racconta Ada Bensa, compagna del pensionato: «Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perché in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero». La multa per Battista Battaglino è di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato.  

LA LETTERA A SPECCHIO DEI TEMPI  
La donna è indignata: «È assurdo. Volevamo aiutare Battista e gli abbiamo procurato un danno enorme. In campagna è consuetudine aiutarsi l’un l’altro. Si è sempre fatto, senza il timore di essere catalogati come evasori, o peggio ancora, ritenuti dei caporali che sfruttano le persone facendole lavorare in nero». Ada Bensa scrive anche a «Specchio dei Tempi» per denunciare quello che per tutti, cittadini e viticoltori, è una vera ingiustizia.  

«Battista coltiva da solo quel pezzo di terra, è in pensione e ci passa il suo tempo - dicono gli amici -. Quando l’uva è matura ci chiede di aiutarlo. Bisogna fare in fretta, altrimenti i grappoli marciscono e lui non potrà fare il suo buon vino. Per quello eravamo lì, come facevamo da anni, a turno non sempre tutti, a seconda dei nostri impegni». 

LE CRITICHE DEL SINDACO  
L’indignazione è quella dell’intero territorio. Il sindaco di Castellinaldo, Giovanni Molino è amareggiato: «Non siamo un paese in cui vige il caporalato. Qui la gente si aiuta, si spacca la schiena tra le vigne, su queste colline. È assurdo che un uomo come Battista, che manda avanti questi pochi filari da solo, con grande sacrificio, venga additato come evasore. Sono terreni che erano già del padre, vigne che avranno 70-80 anni. Lui le cura tutto l’anno ancora con metodi vecchi, quelli di una volta. Non ha neanche i mezzi più moderni per coltivare e raccogliere, tutto viene fatto a mano. È pazzesco che debba pagare una multa del genere».  

Battista è ancora amareggiato e non ha molto da dire su quanto successo: «Lascerò andare tutto, abbandonando le vigne perché non merita lavorare tanto per poi avere questi bei risultati. L’unica cosa che potevo dare a questi amici era una cena per ringraziarli. Purtroppo non abbiamo neanche fatto quella».  

Il sindaco lancia una proposta: «Ho intenzione, a novembre, di invitare questi funzionari del lavoro a una riunione con tutti coloro che coltivano un pezzo di terra, dalle grandi aziende di questo territorio ai piccoli agricoltori. Voglio che ci spieghino cosa dobbiamo fare per lavorare senza la paura di dover pagare multe». Mercoledì Battaglino e i suoi amici saranno a Cuneo, convocati dall’Ispettorato del Lavoro. Ribadiranno la loro posizione. «Speriamo sia usato un po’ di buon senso» conclude Ada Bensa. 

Prima il ponte o prima l'autostrada?




Come ben sappiamo, un pilone dell'autostrada A19 Palermo-Catania, ha avuto un cedimento, peraltro già preannunziato (http://www.lasicilia.it/articolo/pilone-ceduto-anas-e-regione-sapevano-ma-dieci-anni-nessuno-ha-fatto-nulla), che ha, di fatto, diviso la Sicilia in due a danno di chi, per recarsi da Palermo a Catania e viceversa, dovrà prolungare i tempi di percorrenza su strade a dir poco disagevoli, antidiluviane e piene di pericoli, (la sottoscritta ne sa qualcosa per un incidente subito ad una curva per il manto stradale che, con qualche goccia di pioggia, produceva lo sgradevole effetto saponata).
Il pilone, come possiamo vedere, poggia le sue basi su un torrentello e già la cosa insospettisce, ci si chiede: quale ingegnere ha mai potuto progettare un ponte autostradale, pertanto soggetto a molti stress, su un torrente e, quindi, a rischio frana? 

Inconcepibile! Ma vero.

Comunque, pare che la ricostruzione verrà affidata a tre imprese diverse: che provvederanno a: demolire il tratto che ha ceduto; controllare che non sia compromesso per poi fortificare il tratto rimasto illeso; costruire una bretella di circa 1 kilometro e 800 metri da allacciare al tratto rimasto illeso. Almeno così mi è parso di capire

Il costo sarà di circa 9 milioni, tanto per cominciare, ma sappiamo come vanno le cose...

Passiamo alle notizie più fresche.
Pare che ad Alfano sia venuta la fregola di riacquistare il terreno perduto porgendo agli amici-scambidi voto-sempreaffamati una leccornia servita in un piatto d'argento: la costruzione del ponte sullo stretto di Messina.
In piena crisi economica.
Ma va da se che i suoi capricci sono prioritari, gli appetiti dei suoi amici insaziabili.

Facendo due conti il ponte verrebbe a costare 10 volte più che in ogni altra parte del mondo, e, oltretutto, verrebbero impiegati materiali scadentissimi come è solita fare l'industria nostrana, con gravi rischi per i viaggiatori.

Non sarebbe il caso di accantonare per sempre o, almeno per il momento,  questa malsana idea?

Non sarebbe il caso di provvedere a migliorare le reti ferroviaria e viaria della nostra meravigliosa regione distrutta da malaffare e corruzione?

Quindi, per i nostri amministratori, non è e non sarà possibile, per chissà quanto tempo ancora, una viabilità sicura e agevole in Sicilia  ma sarà possibile attraversare lo stretto di Messina in auto o in treno....

Non sarebbe più logico rimettere a posto prima l'autostrada e poi, magari, pensare al ponte?


Cetta

E se il “dieselgate” fosse l’anticamera del post-Maya? - Sergio Di Cori Modigliani


Oggi, 30 Settembre, le borse guadagnano e, questa sera, i telegiornali ci spiegheranno che è ritornato l’ottimismo, la crisi Volkswagen è ormai stata assorbita e il presente è sereno e positivo. 
Quantomeno, in Italia. Nel senso che i nostri oligarchi hanno sostituito la psicologia alla buona gestione dell’economia e della politica e sono convinti -almeno questo è ciò che vogliono far credere- che i problemi dell’Italia sono “essenzialmente di natura psicologica e non sono strutturali; il nostro è un paese molto ricco ed è una nazione di risparmiatori paurosi. 
In Italia i cittadini non spendono perché hanno paura, ma i soldi ci sono. Basta educarli al consumo: è quello che stiamo facendo“, così il nostro caro leader presentava la situazione della nostra nazione nel più importante incontro politico internazionale della sua agenda newyorchese: l’incontro nella sede della Black Rock (il più importante fondo di speculazione finanziaria del mondo, presente in Italia da protagonista) con una decina di grossi investitori, e alla presenza dei dieci più importanti e agguerriti giornalisti economici del pianeta. Si trattava di un incontro fondamentale, perché lì, in quanto premier, dotato di delega a rappresentare la nazione, doveva riuscire a conquistare la fiducia -e quindi massicci investimenti- di potenti mega miliardari che davvero contano.  
Il risultato è stato una totale catastrofe. L’esito di questo meeting è stato talmente raccapricciante che il sottoscritto (nel senso patriottico, cioè uno che tifa per l’Italia) si è trovato nella situazione di provare rispettosa nostalgia per Mario Monti. Se non altro, dopo i suoi tre viaggi ufficiali in Usa, era riuscito a ottenere risultati tangibili, visto che nei successivi quaranta giorni erano arrivati complessivamente circa 200 miliardi di dollari che sono stati investiti in bpt nazionali, salvando il paese dalla bancarotta verso la quale ci stavano portando allegramente, con irresponsabile cipiglio i vari Berlusconi, Tremonti, Maroni, Casini, Bossi, Meloni, Bersani, Cicchitto, Alfano, Weltroni, Napolitano, e allegra compagnia danzante. Diamo a Cesare ciò che è di Cesare. Va da sè che stanno ancora tutti lì, tranne Monti che è stato spedito a casa. Ennesimo paradosso italiano.
Neanche a dirlo, in Italia, le riprese televisive di questo meeting (diffuso in tutto il continente americano dall’emittente Bloomberg, ma di sicuro visto anche in Europa dai nostri partner continentali) non sono state nè diffuse, nè adeguatamente relazionate, commentate, documentate. La cupola mediatica, ahinoi, funziona così. In quell’occasione, appunto, mentre venivano rivolte al caro leader diverse domande di economia (semplici, dirette, chiare) lui rispondeva con la psicologia, pensando di avere a che fare con la consueta pattuglia di impiegati dell’informazione, deferenti e servili, sonnacchiosi e complici, cui lui è abituato, nella sua miope ottica provinciale. Spiegando perchè era vantaggioso investire in Italia, il caro leader ha sentenziato: “L’Italia è un paese sano ed economicamente molto forte, in grande espansione. La ripresa è talmente dirompente che posso tranquillamente prevedere che entro la decade, l’Italia, sarà il faro e il vero leader dell’Europa. Saremo più forti della Germania“. A quel punto, prima del parapiglia dei professionisti increduli, sarebbe bastato aggiungere un “mi piacerebbe, magari fosse così” o qualcosa del genere. Pressato, invece, ha confermato. Forse nessuno ha spiegato al caro leader che il nostro pil è pari a circa 1.870 miliardi di dollari l’anno, mentre quello della Germania è di 3.560. Per battere la Germania, quindi, l’Italia dovrebbe -entro la fine di quest’anno- riuscire ad aumentare del 12% il proprio pil, magari assumendo circa un milione di persone a tempo indeterminato. Non solo. Nei successivi cinque anni, dovrebbe aumentare del 20% annuo mentre la Germania cessa di produrre e rimane ferma. Un’ipotesi nè realistica nè probabile, neppure immaginabile a livello di fantasia teorica. Non arriverà, temo, nessun investimento, è bene saperlo.
Tutt’altra cosa per la Germania. Ed è il tema del post del giorno. Vediamo di capire che cosa bolle in pentola. Prima parliamo un po’ di cifre nude e crude, è essenziale per comprendere il nuovo teatro.
Circa tre mesi fa, Herr Martin Winterkorn, allora amministratore delegato della Volkswagen, apriva un convegno della confindustria tedesca in Bassa Sassonia. In quell’occasione (eravamo al 30 Giugno) il manager annunciava con comprensibile euforia che i nuovi dati numerici indicavano la Volkswagen, per la prima volta, come leader nel pianeta, autentico locomotore della grande industria tedesca. In quel momento, mentre lui parlava, il titolo alla borsa di Francoforte valeva 232 euro. In quell’occasione, parlarono anche i responsabili dei fortissimi sindacati che annunciarono di aver chiuso poche ore prima un accordo aziendale: nel nome della “gestione sociale comune” (loro la chiamano così), il management aveva deciso di attribuire al personale, la prima settimana di Dicembre, una super tredicesima comprensiva di bonus, premio di produttività, regalia una tantum, sotto forma di azioni al portatore. Le previsioni dei cervelloni dell’azienda davano il titolo (a quella data) intorno ai 300/350 euro ad azione. Il numero di azioni era stato sancito a fine giugno, così si rischiava tutti insieme. Applausi, lacrime e orgoglio. In quell’occasione, Herr Winterkorn, ci aggiunse qualcosa di suo -eravamo al centro della tempesta Grexit e nel momento della satanizzazione di Yanis Varoufakis- spiegando che mai la Germania avrebbe accettato l’idea di pagare il prezzo di quei fannulloni truffatori dei greci. A conclusione del discorso, specificò (anche se non c’era alcun bisogno) che l’accordo sindacale era talmente forte che consentiva ai potenziali destinatari di farselo scontare in banca perchè la BCE aveva accettato come garanzia l’intera cartolizzazione dei derivati finanziari della Vokswagen, aprendo una linea di credito praticamente eterna. 
Due mesi dopo, l’euforia si era placata e i primi sintomi che qualcosa non stava funzionando giravano già in tutti gli ambienti economici planetari. Segnali arrivavano dagli Usa e dal Giappone che preannunciavano la contestazione poi esplosa. Ma il management scelse di far finta di niente. Dieci giorni fa scoppia il dieselgate, che trascina al ribasso il titolo in borsa, facendolo scendere a 122 euro il martedì 23 Settembre. Non riescono a fermarlo e così, il 29 Settembre, il titolo, alla borsa di Francoforte, viene quotato a 95 euro ad azione, ritornando alla situazione del 2005. La perdita di valore in borsa è di circa il 65%. Tenendo presente che l’indotto raggiunge circa 1.500.000 lavoratori in Germania, circa 4 milioni in Europa, di cui ben 300.000 addetti nella Repubblica Italiana, il dieselgate non è più (giustamente) considerato “uno scandalo” bensì “un evento di importanza strategica geo-politica per l’intera Europa” (la definizione è ufficiale ed è del governo tedesco). Direi del mondo.
L’impatto è molto forte. Angela Merkel si è mossa subito per tirar fuori il meglio della Germania. Ha imposto, con una telefonata, le immediate dimissioni di Herr Winterkorn, ottenendole subito. Hanno affidato alla Saatchi & Saatchi di Londra (la più importante agenzia planetaria nel campo della pubblicità, analisi di big data e di megatrend) una consulenza per avere ragguagli in merito. La prima risposta immediata è stato il suggerimento di togliere la pubblicità. Nella sola giornata di martedì scorso, infatti, sul web si toccava la punta di 100 milioni di scherzi, barzellette, improperi, con la satira e la creatività di tutti gli utenti scatenata nell’attaccare il marchio. Sono stati quindi annullati circa 12 milioni di contratti. Sparita la pubblicità Volkswagen. Rimane quella dell’Audi, Seat e Skoda ma soltanto in territori considerati minori, ovvero quelli in cui l’informazione è molto bassa e la gente ignora che siano della Volkswagen (l’Italia è tra questi). Il contraccolpo ha comportato un abbassamento del 9% in pubblicità che nei prossimi tre mesi provocherà un restringimento del pil europeo di uno 0,4% provocando allarme nella BCE e nel Fondo Monetario Internazionale. Da noi, tanto per fare un esempio, a farci subito le spese è stata Mediaset, che ha perso in una settimana circa il 10% del proprio valore per questo motivo. 
L’effetto domino ha cominciato a serpeggiare dovunque. Il secondo suggerimento londinese (conoscono la mentalità tedesca del loro cliente) attribuisce un valore di 287 punti -la cancellazione della pubblicità sono 234 punti- all’idea di mettere in galera Herr Winterkorn. L’idea è riuscita graditissima al governo Merkel, quelli sono tedeschi, mica italiani. Nel bene e nel male. Il governo teutonico, infatti, sta valutando l’ipotesi di presentarsi parte civile nella denuncia penale per truffa nei confronti dell’ex amministratore delegato che la maggioranza dei tedeschi ha già fatto sapere vorrebbero vedere portato via in manette. Rischia sei anni di galera. E si può anche tenere la sua miliardaria buona uscita, se la godranno i suoi familiari. I tedeschi sono fatti così. In Italia, alcuni giornalisti economici, interpellati da varie televisioni, hanno espresso il loro illuminante parere sul dieselgate, sostenendo che si tratta di far passare la buriana e in un paio di mesi sarà tutto risolto. Contemporaneamente, i giornalisti tedeschi sostengono che ci vorranno “almeno cinque anni, forse addirittura dieci”.  Il carico da undici l’ha messo giù il ministro delle finanze Schauble che qualche ora fa ha dichiarato: “Da oggi, la Germania non sarà più la stessa, non so neppure se la Volkswagen sarà in grado di riprendersi”.
Non vorrei stare nei panni di Herr Winterkorn.
Non è facile da comprendere per il pubblico italiano, il quale non è certo aiutato dai professionisti della cupola mediatica, che in questi giorni, a mio parere, stanno offrendo uno spettacolo indecoroso di mancanza di informazioni, spiegazioni, dettagli, connessioni.
L’attuale teatro, infatti, fa parte della vera guerra in corso, l’unica guerra in atto, il cui teatro è arduo da presentare agli italiani. Volgarmente, nonché sfacciatamente, i mammalucchi leghisti, fascisti, comunisti, mitomani e analfabeti vari, insistono nel sostenere che siamo “in clima di neo guerra fredda tra Usa e Russia”. Non credo che questo sia vero. Paese fazioso e acritico, l’Italia offre l’indecente spettacolo di commentatori che in questi giorni se la prendono con Obama e/o con Putin perché è il modo più facile per ottenere subito consensi. Roba per palati grossolani. Basterebbe un unico esempio per comprendere che non è così: poche ore fa (a Washington erano le 9 del mattino) Obama ha ricevuto il comandante in capo dell’aereonautica militare statunitense per un colloquio di mezz’ora. Insieme, hanno poi ricevuto l’ambasciatore russo a Washington, il ministro degli esteri Lavrov, e il comandante in capo dell’aereonautica militare russa, intrattenendosi in un colloquio formale. Dopodichè, i due generali -entrambi parlano sia l’inglese che il russo- sono stati accompagnati in un ufficio del Pentagono per gestire una riunione strategica zeppa di agenti della CIA e di agenti della FSB, i servizi americani e russi. Per fare che cosa? Per scambiarsi tutti i piani di volo militari delle due rispettive forze aeree. Ce lo hanno raccontato Obama e Putin, in un comunicato congiunto, spiegando che “in questo momento delicato, l’ultima cosa che vogliamo è quella di correre il rischio di un incidente casuale in aria tra i nostri velivoli militari e quindi abbiamo deciso di muoverci in maniera congiunta”.
Non è quella la vera guerra. Mi dispiace per i refusi e zombie della politica italiana che disperatamente tentano di rientrare dalla finestra fornendo opinioni che usano parametri obsoleti, di un tempo che fu. La guerra non è tra Usa e Russia, tra Usa e Cina, tra Europa e Cina, tra civiltà cattolica e mondo musulmano, tra Iran e Usa, tra Russia e Cina.
Io la vedo così: questa è la prima guerra post-moderna, quella in cui le classi sociali non esistono più ma il mondo si divide in due grandi categorie: produttori e consumatori. Ci sono nazioni che producono molto e nazioni che non producono nulla; ci sono nazioni che consumano ciò che producono e nazioni che consumano ciò che altri producono. 
Ciò che il dieselgate sta (forse) per scatenare -e io me lo auguro proprio- è la guerra vera tra le due parti in causa: i progressisti evolutivi in ogni parte del mondo, da una parte; i conservatori liberisti, dall’altra. Dopo 40 anni di martellante esercizio del potere da parte dei liberisti, oggi settembre 2015, grazie anche all’esistenza del web e quindi all’impossibilità di nascondere con facilità gli eventi reali, appare sempre chiaro a tutti che quell’esperienza è stata un disastro per la collettività planetaria. Nel frattempo però, in questi 40 anni, il pianeta è diventato più piccolo e la consapevolezza delle masse mondiali è aumentata molto. La guerra è tra due concezioni del mondo diverse, tra due parametri distinti. E in Europa (come ben detto da Yannis Varoufakis, l’unico a introdurre questa saggia argomentazione) la guerra è tra la Francia e la Germania. Grazie al dieselgate diventa molto ma molto più facile andare all’attacco di una Europa “troppo tedesca” e di una Germania “troppo poco europea”. 
Lo ha capito subito la Francia, che era la sua occasione d’oro, approfittando per prendere due piccioni, anzi tre, con una fava. 
1). Da sola, contravvenendo ogni dispositivo della giurisdizione internazionale, se ne è andata a bombardare l’Isis in Siria sostenendo ufficialmente “non possiamo perderci nelle pastoie della burocrazia europea che non decide mai nulla”; così facendo ha placato l’opposizione interna di destra: i sondaggi indicano un recupero di 8 punti per Hollande e una perdita di 12 punti di Marie Le Pen, costretta ad approvare la scelta di Monsieur Hollande. 
2). La Francia si presenta come interlocutore quindi ben più solido della Germania, in questo momento, per cambiare le carte dei destini europei vantando la sua egemonia contro “i crucchi truffaldini”. 
3). La Francia si auto-promuove a grande potenza internazionale, rilanciando l’Europa come parte dello scacchiere planetario, lanciando (hanno già fatto l’annuncio) un tavolo di negoziati da tenersi a Versailles dove  siederanno insieme Usa, Russia, Iran, Turchia, Arabia Saudita e Francia per decidere il destino della Siria. Da risolvere il dissidio attuale tra Obama e Putin. Obama pretende che a quella riunione (di fatto accettata e quindi la Francia sta già incassando dal dieselgate) siano presenti i quattro esponenti politici che rappresentano la vera opposizione musulmana ad Assad; Putin, invece, pretende che partecipi anche Assad che rimane presidente della Siria. Presumo che stiano cercando una soluzione.
Nel frattempo, sia Putin che Obama incassano successi per loro importanti. 
Putin fa dimenticare l’Ucraina e quindi dà la guazza ai suoi generali. 
Obama, dal canto suo, prende due piccioni con una fava grazie al dieselgate, non a caso esploso esattamente nella stessa giornata in cui, a Tokyo, i deputati in parlamento si picchiavano a pugni sotto gli occhi allibiti dell’imperatore e del pubblico nipponico. Dopo 70 anni, infatti, il Giappone riarma il proprio esercito. 
Per Obama è un’ottima notizia, che è riuscito a far digerire al congresso. Gli Usa hanno dato il via cancellando la clausola che lo impediva. Il che vuol dire che dal 1 Gennaio 2016, l’amministrazione americana risparmia 850 miliardi di dollari all’anno (questo è il costo per mantenere le forze armate nel Pacifico) perché ci penseranno i giapponesi. 
Così ha trovato i soldi per coprire i costi della sua riforma sanitaria e zittire i repubblicani. Contemporaneamente, l’amministrazione Usa sta valutando il rapporto della General Motors (non a caso se la voleva comprare subito quel furbone di Marchionne) che sta sulla sua scrivania: è pronta a dire addio al fossile come carburante degli autoveicoli e lanciare sul mercato americano vetture a batterie elettriche e a idrogeno. Perché parte dell’accordo militare con il Giappone presuppone il via all’ingresso nel mercato Usa della Toyota con suoi analoghi modelli, e quindi, per amor di patria, si sostiene la propria industria e si seduce l’opinione pubblica ambientalista. 
Gli orientali sono etnie pazienti, lungimiranti, capaci di avere visioni di lungo respiro. Dieci anni fa, per il ventesimo anno consecutivo, la Toyota era la prima azienda automobilistica del pianeta. Ci fu uno “scandalo”. Alcuni modelli vennero considerati difettosi e diverse persone morirono in incidenti stradali in Usa, causati da errori meccanici. Fu un disastro per i giapponesi, che cominciarono a perdere quote d mercato. La Toyota venne letteralmente massacrata dai tedeschi che lanciarono in Usa e in tutta l’Asia una campagna pubblicitaria per spiegare che i tedeschi erano più attendibili dei giapponesi, fino al trionfo del Giugno 2015, con il sorpasso agognato da parte della Volkswagen. E’ durato 50 giorni.
Perché i tempi, intanto, erano cambiati. Le circostanze sono diverse. Mentre i tedeschi (e gli italiani) hanno scelto di investire risorse sul diesel per rilanciare l’economia, i giapponesi e la General Motors hanno scelto il motore ecologico sostenibile. Hanno investito nel futuro. 
La Germania no. E meno che meno l’Italia. Tanto è vero che il caro leader -compiendo un errore marchiano- è andato a sponsorizzare Marchionne che riapre a Mirafiori, con annunci trionfalistici, nuove catene di produzione per il modello “maserati suv turbodiesel” nel segmento lusso. Roba da mitomani. Tra sei mesi, quel piano industriale si rivelerà un colossale fallimento, procurando all’Italia l’ennesima delusione, oltre che inevitabili perdite di quote di mercato.
Ciò che il dieselgate ci sta fornendo è la possibilità e l’opportunità potenziale di andare incontro alla guerra vera contro il liberismo, nel nome di un nuovo paradigma economico, socialmente, economicamente, esistenzialmente, politicamente sostenibile da ogni singola nazione, paese, popolo.
Altrimenti, non se ne esce. E lo sanno tutti.
In conclusione, vi allego un estratto di un articolo pubblicato ieri su Ilsole24ore a firma Andrea Malan. E’ un buon articolo, onesto, puntuale, redatto da un professionista che conosce il suo mestiere e sa di che cosa parla e di che cosa scrivere. Ci regala accurate informazioni vere.

Volkswagen, indagato l’ex ceo Winterkorn

……….La procura della Bassa Sassonia ha intanto avviato un’indagine penale sull’ormai ex numero uno Martin Winterkorn; l’accusa è di «frode nella vendita di auto con dati sulle emissione manipolati». La denuncia è stata presentata da una decina di persone fisiche; si aggiunge a quella che la stessa Vw ha presentato contro ignoti e a quella aperta negli Usa dal dipartimento della Giustizia. Secondo «Handelsblatt», anzi, il gruppo potrebbe rivalersi contro l’ex numero uno nel caso in cui fossero accertate sue responsabilità.
L’apertura dell’inchiesta tedesca su Winterkorn rende ancora più delicato il tema della liquidazione da 32 milioni di euro che il manager dovrebbe in teoria ricevere dal gruppo per la sua uscita anticipata. Secondo l’agenzia Bloomberg – che cita fonti vicine al dossier – il presidente ad interim del consiglio di sorveglianza (e sindacalista di IG Metall) Berthold Huber e altri esponenti sindacali sono contrari ad accettarla. Winterkorn, fra l’altro, è ancora (almeno per il momento) al vertice della Porsche SE, la holding attraverso la quale le famiglie Porsche e Piëch controllano il gruppo.
In una lettera ai dipendenti del gruppo Matthias Müller, che ha sostituito Winterkorn al vertice, ha espresso «grande rispetto» per i risultati ottenuti dal suo precedessore e ha detto che nell’opera di controllo in corso «la diligenza è più importante della rapidità». Per ora non ci sono conferme del repulisti ai massimi livelli del settore tecnico del gruppo, ma le voci proseguono insistenti: secondo la Faz Volkmart Tannenberger diventerà nuovo responsabile ricerca e sviluppo della marca Vw, al posto di Heinz-Jakob Neusser che sarebbe stato sospeso dall’incarico. Sul mercato azionario cresce l’impazienza, e la situazione di incertezza anche sulle conseguenze finanziarie dello scandalo ha di nuovo spinto al ribasso ieri il titolo Vw e l’intero settore. Volkswagen ha ceduto il 7,5% chiudendo sotto quota 100 euro (99,3 per le privilegiate), ma tutto il comparto ha vissuto una giornata da incubo: male le rivali tedesche di Volkswagen (Bmw -2,9%, Daimler -3,3%) e male anche le francesi (Peugeot -5,2%, Renault -4,6%). Le azioni Fiat Chrysler sono state sospese per eccesso di ribasso ed hanno poi chiuso a 11,14 euro, con un calo del 4,95%, ai minimi da gennaio. «Il mercato teme l’incertezza – dice Gabriele Gambarova, analista di Banca Akros -. Dopo la vicenda Volkswagen i punti aperti sono ancora numerosi: dall’eventuale scoperta di altri casi di irregolarità all’atteggiamento futuro dei governi. In questa situazione ha buon gioco chi vuole realizzare i guadagni, visto che il settore era andato molto bene fino a qualche mese fa». A numerosi investitori internazionali non è piaciuta la scelta di Matthias Müller come erede di Winterkorn alla guida del gruppo, scelta vista come troppo di continuità rispetto alla precedente gestione: Hans-Christoph Hirt della Hermes EOS ha «seri dubbi» che la necessità di ripartire da zero sia davvero stata capita. L’autorità tedesca sui Trasporti ha dato intanto al gruppo Vw tempo fino al 7 ottobre per pubblicare le date esatte in cui i vari modelli rispetteranno le norme antinquinamento, minacciando in caso contrario di bloccarne la vendita. Il numero uno della marca Vw, Herbert Diess, ha detto che l’azienda sta lavorando a un miglioramento tecnico per le auto interessate. Il dettaglio di quali modelli di quali anni siano interessati non è ancora stato pubblicato; per ora sono emersi solo i numeri delle varie marche comprese negli 11 milioni i cui motori diesel ospitavano il software con il trucco: 2,1 milioni di Audi e 1,8 milioni di veicoli commerciali, che si aggiungono agli oltre 5 milioni della marca Volkswagen. Volkswagen ha sottolineato che i modelli con motore Euro 6, quelli in vendita attualmente, non sono coinvolti. Non è chiaro se si tratterà solo di una modifica al software o se dovranno essere installati dispositivi addizionali, ed è difficile per questo valutare i costi dell’operazione. 
(P.S. Dedicato ai tifosi della serie cinematografica di James Bond, agente 007: Herr Winterkon non vi sembra sia il sosia dell’attore tedesco Gert Frobe, indimenticabile protagonista del film “Agente 007 Goldfinger” uscito nel 1964, interpretato da uno storico Sean Connery?)