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Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 18 marzo 2022
Raccontare non è mai stato così difficile. - Ettore Zanca
giovedì 17 marzo 2022
Guerra Russia-Ucraina, dalla normalizzazione fallita alla nuova crisi: i 5 mesi di colloqui Mosca-Washington prima dell’invasione.
L'inizio di questo processo, che ha anticipato di pochi mesi l'escalation militare con l'invasione russa dell'Ucraina, può essere individuato nell'incontro di metà giugno a Ginevra tra Joe Biden e Vladimir Putin. A questo sono seguiti il viaggio a Mosca del 'falco' Victoria Nuland e del direttore della Cia, William Burns. E' in questo lasso di tempo che, forse, il conflitto poteva essere evitato: ma i colloqui non hanno portato a risultati concreti.
16 giugno, 11 ottobre, 2 novembre 2021. Tre date che corrispondono ad altrettanti incontri di vario livello tra rappresentanti americani e russi e che, in poco meno di 5 mesi descrivono la breve parabola di un tentativo di riavvicinamento tra Washington e Mosca conclusosi, però, con un’escalation militare senza precedenti in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. È una storia di meeting di alto livello tra presidenti che non hanno mai nascosto la reciproca avversione, tra ‘falchi’ ai quali è stato chiesto di trasformarsi, senza successo, improvvisamente in ‘colombe’ e di spie inviate come ultimo tentativo di riallacciare rapporti (o a lanciare un ultimatum) con quello che, nel frattempo, era diventato, di nuovo, il principale avversario a livello internazionale.
L’inizio di questo processo, che ha anticipato di pochi mesi l’escalation militare con l’invasione russa dell’Ucraina, può essere individuato nell’incontro di metà giugno a Ginevra tra Joe Biden e Vladimir Putin. Il presidente americano era in carica da appena 6 mesi, ma i rapporti con Mosca si erano deteriorati già dall’inizio del suo mandato, dopo la stagione di distensione nell’era Trump. A marzo, il capo della Casa Bianca aveva definito il suo omologo “un killer”, mentre tra i due Paesi si stava ormai consumando una crisi diplomatica che aveva portato a espulsioni di diplomatici e soprattutto a un pericoloso, dal punto di vista americano, avvicinamento della Russia alla Cina di Xi Jinping. Un incontro che portava sul tavolo anche altri temi fondamentali, dal Nord Stream 2 alla vicenda Navalny, dall’Ucraina, appunto, agli attacchi cibernetici fino, ovviamente, alle sanzioni alla Russia imposte da Washington. Un tentativo di iniziare a ricucire i rapporti gravemente deteriorati, dopo il ritorno al governo dei Dem americani, che da quanto era trapelato al tempo si era concluso senza trionfalismi.
Appuntamento a 4 mesi dopo, l’11 ottobre, quando a Mosca vola la sottosegretaria di Stato Usa, Victoria Nuland. Non un nome qualsiasi. Nuland è considerata un ‘falco’ tra le file democratiche, sostenitrice della linea della fermezza nei confronti della Federazione russa. Fu lei, da Assistant Secretary of State dell’amministrazione Obama con incarico diplomatico in Ucraina, nel 2014, a pronunciare quelle parole poi finite in un leak diffuso poco dopo in cui sbottò con un “Fuck Eu”, “fanculo la Ue”, parlando con l’allora ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt. Il riferimento era proprio all’indecisione, dovuta alle divisioni interne, dell’Europa sull’assumere un atteggiamento duro nei confronti di Mosca nell’ambito della crisi politica in Ucraina seguita alle proteste di EuroMaidan.
Ma il suo arrivo nella capitale russa venne visto in quei giorni come un importante segnale di distensione. Dal 2019, infatti, Nuland era stata inserita nella blacklist del Cremlino che le era costata un divieto di viaggio nel Paese. Questo travel ban è stato cancellato proprio per permetterle di recarsi in Russia a novembre, dove nell’arco di tre giorni ha incontrato Yuri Ushakov, ex ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergei Ryabkov, viceministro degli Esteri, e Dmitrij Kozak, vicecapo dello staff presidenziale. Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano compiuto il proprio passo in avanti togliendo dalla lista dei russi colpiti dalle sanzioni diversi cittadini della Federazione proprio pochi giorni prima dell’arrivo di Nuland nel Paese, come comunicò al tempo la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova.
Le premesse erano, quindi, tutt’altro che negative, ma sull’esito dei vertici, ancora una volta, le dichiarazioni finali erano state di basso profilo. Da Washington si era parlato di incontro positivo, ma progressi concreti, di fatto, non sembrano essercene stati. Anzi, secondo alcuni osservatori è stato proprio in quell’occasione che i tentativi di pacificazione tra i due Paesi sarebbero di nuovo naufragati. Lo testimonierebbe anche il terzo e ultimo incontro, di un valore ben diverso, del 2 novembre, nemmeno un mese dopo. In quell’occasione, a volare a Mosca non è stato un diplomatico, bensì il direttore della Cia in persona, William Burns, che, facendo valere il suo passato da alto diplomatico, ha incontrato un alto consigliere del presidente Putin, Nikolai Patrushev, insieme al sottosegretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici Usa, Karen Donfried. Anche in questo caso, i funzionari Usa fecero sapere in maniera informale che si trattava di un incontro sulla scia del processo di normalizzazione avviato a giugno a Ginevra.
Da lì in poi, però, la situazione si è rapidamente deteriorata. Biden e Putin si parleranno un’altra volta il 7 dicembre, ma a quel punto la situazione era probabilmente già arrivata a un punto di non ritorno: la Russia aveva iniziato ad ammassare le truppe al confine con l’Ucraina, lo scambio di messaggi tra i due leader si era fatto più teso col passare dei giorni, fino all’ultimo vertice mai avvenuto tra i due. Joe Biden si era detto disponibile a incontrare di nuovo il presidente russo se questi non avesse invaso il Paese di Volodymyr Zelensky. Era il 21 febbraio, i carri armati russi stavano entrando nei territori autoproclamati indipendenti del Donbass: tre giorni dopo i razzi di Mosca colpivano Kiev e altre città ucraine dando così inizio all’invasione su larga scala del Paese.
Mangino bombe. - Marco Travaglio
Tre giorni fa abbiamo ricevuto un comunicato stampa di Fao, Unicef e World Food Programme (Wfp), che si aggiunge a quelli di Oxfam, sulla situazione in Yemen. Lì dal 2015 si combatte una presunta “guerra civile”, che in realtà è il tipico conflitto per procura che le grandi potenze affidano ai Paesi più poveri. Come in Ucraina. Solo che lì le grandi potenze sono l’Arabia Saudita (quella del Nuovo Rinascimento renziano) e l’Iran. E i morti sono infinitamente più numerosi di quelli ucraini (370 mila, fra vittime di guerra, malnutrizione e malattie non curate): sia perché si combatte da sette anni, sia perché nessuno ne parla (a parte il Papa) né invoca la Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità, dunque si può massacrare indisturbati. Tanto oblio si deve al fatto che gli yemeniti sono un po’ più scuretti degli europei e che gli sterminatori più feroci, la coalizione a guida saudita, sono amici nostri e usano armi nostre, anche italiane (bloccate nel 2020 dal governo Conte-2). Risultato: 4 milioni di profughi (su una popolazione di 29) e 17,4 milioni di affamati, che a fine anno saranno saliti a 19. Le donne incinte e le neomamme che allattano “gravemente malnutrite sono 1,3 milioni” e i bambini addirittura 2,2, di cui quasi mezzo milione in “grave malnutrizione acuta, che mette a rischio la vita”. Quindi – urlano le tre organizzazioni – “dobbiamo agire ora con sostegno alimentare e nutrizionale, acqua pulita, assistenza sanitaria di base, protezione e altre necessità. La pace è fondamentale, ma si possono fare progressi ora. Le parti in conflitto dovrebbero revocare tutte le restrizioni al commercio e agli investimenti per le merci non soggette a sanzioni”. Tantopiù che “la guerra in Ucraina porterà allo choc delle importazioni, spingendo ulteriormente in alto i prezzi dei generi alimentari: il 30% del grano lo Yemen lo importa dall’Ucraina”. Ergo, “senza immediati finanziamenti, avremo carestia e fame generalizzata. Ma, se agiamo ora, c’è ancora la possibilità di evitare un disastro e salvare milioni di persone. Il Wfp è stato costretto a ridurre le razioni di cibo per 8 milioni di persone all’inizio dell’anno per mancanza di fondi”.
Per questo ieri abbiamo aperto il Fatto su questa guerra dimenticata: nella speranza che se ne accorgessero gli indignati selettivi e intermittenti della cosiddetta Europa, così solerte a inviare armi per 1 miliardo a imprecisati “ucraini” (non certo ai civili in lotta, ma a milizie di locali e di mercenari). Fortuna che il cuore d’oro del Parlamento e del governo italiani ha subito raccolto il grido di dolore, aumentando le spese militari fino al 2% del Pil, da 26 a 38 miliardi l’anno. Per la gioia dei bambini ucraini e yemeniti, che non vedevano l’ora.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/17/mangino-bombe/6528350/
CHI E' DAVVERO ZALENSKY? - Saverio Masi
La Lolita “mitra e lecca-lecca”: oscenità bellica a uso dei voyeur. - Daniela Ranieri
Noi eravamo rimasti che il fenomeno dei bambini-soldato era uno dei crimini più osceni delle guerre.
Oggi no, anzi: la foto di una ragazzina ucraina che imbraccia un fucile e mangia un lecca-lecca, postata su Facebook dal padre, e diventata virale, è una bellissima favola per adulti occidentali iperconnessi, contenti di aver trovato nella guerriera in età prepuberale un simbolo tanto potente del coraggio del popolo ucraino.
“La ‘Bambina con la caramella’ icona della resistenza dei bambini di Kiev”, titola HuffPost. “Fucile e lecca- lecca. Un urlo al mondo”, titola La Stampa sotto la foto in prima pagina. Una strana euforia si è impossessata delle redazioni. La semantica aberrante dell’arruolamento di bambini al fine di farli combattere e uccidere altri esseri umani ha cambiato di segno. Quel che fanno gruppi armati in Uganda, Sud Sudan, Afghanistan etc. (dove i bambini vengono usati anche come rilevatori di mine, cuochi, oggetti sessuali) è una barbarie. La piccola ucraina col fucile è glamour: “I capelli castani intrecciati con un nastro che ha i colori giallo-azzurro della bandiera ucraina, la gamba destra distesa lungo il davanzale e lo sguardo volto verso l’esterno, come un soldato che sta di guardia, un soldato di soli 9 anni che non pare affatto terrorizzato” (La Stampa). Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, ha twittato la foto con la didascalia: “Per piacere non ditele che sanzioni più pesanti potrebbero essere troppo costose per l’Europa”.
La bambina così è usata due volte: come combattente (ma la foto era “posata”, dicono i minimizzatori: ma allora non si spiega la retorica resistenziale) e come icona. Romantizzazione ed eroizzazione di un crimine (per la Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia) caricano la foto di un vitalismo incongruo quanto osceno: citazioni iconografiche, Vermeer e Lolita, rendono seduttivo il racconto della fierezza di un popolo che resiste all’invasore mettendo i propri figli sui muretti a sparare. Gli ucraini, dicono gli esperti, sono bravissimi a comunicare: Zelensky chiama il popolo alle armi con le storie di Instagram; il governo ha reso la propaganda di guerra una cosa frizzante, ironica, battagliera, perfetta per TikTok. A questa propaganda si possono sacrificare anche i bambini (come negli antichi riti collettivi di morte e rinascita). (E se la bambina fosse russa?). Lo sciame digitale assorbe cadaveri e bambina, la cui bellezza da copertina incita l’indugio consumistico dello sguardo, che è sempre guidato dal potere snervante del capitalismo. A questa barbarie non opponiamo resistenza.
mercoledì 16 marzo 2022
L’escalation militare cresce, “ma perché ci preoccupiamo?”. - Peter Gomez
Ricapitolando: 30 mila militari Nato stanno svolgendo una esercitazione in Norvegia. È la più grande degli ultimi anni, ma non c’è da preoccuparsi perché le operazioni erano state programmate già otto mesi fa.
Un sedicente ufficiale dei servizi segreti russi ha inviato una nuova lettera in cui sostiene che per Putin “la terza guerra mondiale è iniziata” e che l’autocrate si prepara a lanciare i suoi missili verso le Repubbliche baltiche se non verranno ritirate le sanzioni. Ma non c’è da preoccuparsi, perché la spia potrebbe non essere tale e il contenuto della missiva potrebbe essere falso.
Una circolare del nostro Stato maggiore invita i generali a intensificare gli addestramenti orientati al war fighting, ovvero agli scenari di combattimento. Ma non c’è da preoccuparsi, perché circolari simili vengono inviate ogni volta che sale la tensione internazionale.
Domenica scorsa, l’Iran, in ottimi rapporti con la Russia, ha sparato una dozzina di razzi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, e ha sfiorato il consolato Usa. Ma non c’è da preoccuparsi, perché gli iraniani assicurano di aver mirato a “un centro strategico israeliano” e molti pensano che il lancio sia stato una vendetta per due pasdaran morti durante un bombardamento in Siria. Lunedì, infine, mentre a Roma si incontravano gli emissari del governo americano e cinese, 13 caccia militari di Pechino hanno violato la spazio aereo di Taiwan. Ma non c’è da preoccuparsi, perché il sorvolo è stato un semplice avvertimento.
Così anche noi non ci preoccupiamo. Constatiamo solo che 20 giorni dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, l’escalation militare non accenna a fermarsi. E ci chiediamo cosa accadrà se davvero, come pronosticato dalla Gran Bretagna, i soldati di Putin, dopo aver conquistato al prezzo di terribili massacri le principali città ucraine, dovranno affrontare per anni una resistenza fortemente motivata e ben armata dall’Occidente.
L’obiettivo della Ue e della Nato del resto è chiaro. Visto che con soli 170 mila uomini è impossibile controllare uno Stato grande il doppio dell’Italia, Europa e Usa armano gli ucraini nella speranza che Putin, per evitare d’impantanarsi in una guerra in stile afghano, si accontenti presto di ciò che gli è già stato offerto dall’eroico presidente Zelensky: la neutralità, l’annessione ufficiale della Crimea, il riconoscimento delle Repubbliche del Donbass. L’idea è che in questo modo Putin potrebbe ordinare il ritiro dicendo ai russi di aver ottenuto ciò che rivendicava e quindi di aver vinto la guerra. Ma se il piano è questo, qualcuno ci dovrà spiegare cosa si spera che accada dopo.
Ciò che Putin sostiene è noto. La Russia afferma di essere stata circondata negli anni da Paesi Nato in grado di ospitare testate nucleari a poche centinaia di chilometri da Mosca. Teme che l’espansione non sia finita e sogna pure che le confinanti Repubbliche baltiche rinuncino a far parte dell’alleanza. Inoltre sa che nel medio periodo le sanzioni economiche occidentali diventeranno un reale problema. È pura utopia, dunque, che quando e se si comincerà davvero a parlare di un possibile ritiro dall’Ucraina, Putin non chieda a Stati Uniti ed Europa di ridiscutere tutto: a partire dall’embargo deciso nei suoi confronti.
A un tavolo di questo tipo non potrà che pretendere di essere presente pure la Cina. Ma non c’è da preoccuparsi. Perché l’operazione è semplice: si tratta solo di riscrivere il nuovo ordine mondiale. Roba da niente. Io, comunque, pur restando tranquillissimo, comincio a cercar casa in Argentina.
Censura democratica. - Marco Travaglio
Da tre settimane il circoletto onanista-atlantista che se la canta e se la suona è alla disperata ricerca di qualcuno che difenda l’armata russa e giustifichi i fiumi d’inchiostro versati contro il presunto “partito italiano di Putin”. Si è provato a iscrivere al Cremlino chi ricorda le responsabilità della Nato nell’accerchiamento della Russia. Ma non ci è cascato nessuno: pure Biden nel 1997 e Kissinger nel 2014 dicevano le stesse cose, tuttora condivise da fior di analisti occidentali; e sono proprio gli atlantisti a dire che la Nato con l’Ucraina non c’entra nulla. Allora si è inventato che chi critica l’invio delle armi alle milizie ucraine (inclusi i ceffi con la svastica del battaglione Azov) sta con Putin. Ma non ha abboccato nessuno: tutti gli esperti spiegano che le nostre armi non ribalteranno l’esito della guerra pro Ucraina, ma contro, allungando il conflitto con più perdite di civili e di territori. Figurarsi il sollievo quando le Sturmtruppen hanno finalmente trovato un intellettuale equidistante fra Ucraina e Russia: Povia (che è pure No vax, quindi vale doppio). Ecco perché i panciafichisti occidentali non si decidono a scatenare la terza guerra mondiale, malgrado gli appelli di Zelensky e della sua moderatissima vice: per via di Povia. Che però non è solo. Ieri Aldo Grasso, il Povia dei guerrafondai, ha smascherato il suo complice: Maurizio Crozza, capofila del “‘neneismo’ oltraggioso della sinistra radicale”.
E dove sarebbe l’oltraggio? Tenetevi forte: Crozza ha financo mostrato la cartina d’Europa con l’avanzata della Nato a Est dopo che nel 1990 il Segretario di Stato Usa Baker aveva promesso a Gorbaciov “non un centimetro più a Est”. Poi la Nato si mangiò dieci Paesi, fino al confine ucraino. Ma questo, spiega Grasso, fu perché quei Paesi “preferiscono vivere, di loro spontanea volontà, sotto l’ombrello della Nato”: lui è convinto che la Nato sia una bocciofila dove paghi la tessera e ti iscrivi: non sa che devi essere invitato, e solo a patto di non compromettere la sicurezza degli altri membri, come invece è avvenuto invitando Paesi che era meglio lasciare neutrali. Per chi non si sentisse abbastanza oltraggiato da una cartina, c’è di peggio: “Per rafforzare il suo antiamericanismo, Crozza ha ricordato che a Cuba nel ’62 gli Usa mica han lasciato che i russi gli mettessero i missili ai confini”. E, siccome Crozza conosce la storia meglio di Grasso, “la sua satira diventa comizio”. È lo stesso argomento usato dai berluscones contro Luttazzi e i Guzzanti che dicevano le verità proibite dal regimetto. Lo stesso argomento usato dai putiniani contro chi dice le verità proibite dal regime. Cose che càpitano nei Paesi democratici che, a furia di esportare la democrazia di qua e di là, hanno esaurito le scorte.
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