martedì 19 aprile 2011

Nucleare: ko tecnico. - di



Gli italiani non vogliono il nucleare. Ora è ufficiale. La notizia porta il timbro del governo Berlusconi, un governo che al suo attivo ha un punto di forza indiscusso: conosce l’arte dei sondaggi. Dopo il ko del 1987, quando il fronte nucleare finì al tappeto con il referendum post Cernobil, nel match di ritorno uno dei due contendenti annuncia il ritiro per manifesta inferiorità tecnica.
E la ragione è semplice: l’indagine sugli umori degli italiani ha dato un risultato netto. L’idea di vedersi piazzata una centrale nucleare vicino a casa è capace, in un’epoca di crescente disaffezione per le urne, di fare il miracolo di trascinare al voto tante persone. Che poi magari, visto che ci sono, potrebbero mettere una croce anche sulla domanda sul legittimo impedimento, cioè sulla possibilità di dare a qualcuno uno status al di sopra delle leggi, situazione gradita all’attuale maggioranza ma considerata improponibile dal senso comune.
La formula di ritiro dal ring referendario è però ambigua e prova ancora una volta a lasciare la porta aperta a un futuro nucleare, non precisato nel tempo. Ma stavolta sembra finita l’epoca delle giravolte sull’atomo. A gennaio i più autorevoli rappresentanti del governo lo definivano tanto «sicuro e affidabile» da poter garantire il 25 per cento dei nostri consumi elettrici. Anche all’indomani del disastro di Fukushima il ministro dell’Ambiente assicurò «naturalmente il piano nucleare va avanti». Adesso si dichiara forfait. Per riesumare domani i progetti imbalsamati? Visto che dispone di tanti esperti nucleari, il governo può chiedere loro se l’atomo può essere trattato come un paio di jeans: si può tirar fuori a seconda delle stagioni, magari cambiando il format delle centrali e aggiornando gli spot pubblicitari? Dopo mezzo secolo di esperienze un po’ più collaudate, a Fukushima ora la pensano diversamente.



Le firme false oltre quota mille 300 nella lista del Pdl a Milano.


Gli indagati non rispondono: il pm potrebbe chiedere il giudizio immediato a loro carico
Il radicale Cappato: "Il governatore Formigoni ha mentito agli elettori, adesso si dimetta"

di WALTER GALBIATI

Qualcuno si è avvalso della facoltà di non rispondere, altri si sono difesi. Gli interrogatori dei consiglieri e sindaci indagati per la vicenda delle firme false della Lista Formigoni sono partiti ieri e sono proseguiti a ritmi serrati. Tre consiglieri provinciali milanesi e un consigliere provinciale di Varese hanno deciso di non rispondere alle domande del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nei giorni scorsi ha notificato loro un invito a comparire con l'accusa di falso ideologico.

Formigoni: "Ma i lombardi hanno scelto me"


In particolare, il consigliere provinciale milanese Massimo Turci si è presentato in Procura, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere, mentre gli altri due consiglieri provinciali di Milano, Marco Martino e Nicolò Mardegan, non si sono nemmeno presentati. Ha declinato l'invito anche il consigliere provinciale di Varese, Franco Binaghi, mentre l'unica a rispondere alle domande degli inquirenti, difendendosi, è stata Barbara Calzavara, anche lei consigliere della Provincia di Milano. Scena muta per Gianluigi Secchi, della provincia di Pavia, e di Massimo Vergani, della provincia di Monza e Brianza. Nell'inchiesta sono indagate in totale 14 persone, tra sindaci, consiglieri provinciali e comunali della Lombardia, che sono accusate di avere autenticato le firme ritenute palesemente false dagli inquirenti. In questi giorni sono previsti altri interrogatori degli indagati, al termine dei quali il pm potrebbe anche chiedere il giudizio immediato, vista la solidità della prova, costruita ascoltando uno per uno i firmatari delle liste, che puntualmente hanno disconosciuto la propria sigla.

Fra l'altro, il numero delle firme false sarebbe salito a quasi mille, in quanto sarebbero circa 300 le firme non valide presentate a sostegno della lista del Pdl per la circoscrizione provinciale di Milano, sempre per le ultime elezioni regionali. Quelle raccolte per Roberto Formigoni ammontano a circa 800. L'indagine della procura continua ad alimentare la polemica politica. "Crediamo che Formigoni si debba dimettere per il crimine politico di avere mentito agli elettori lombardi. Se si dovesse andare a nuove elezioni l'unico responsabile sarebbe soltanto lui". È quanto ha affermato, Marco Cappato, candidato della lista Bonino-Pannella e autore dell'esposto in procura contro Formigoni.

http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/04/19/news/le_firme_false_oltre_quota_mille_300_nella_lista_del_pdl_a_milano-15127390/




Lassini: "Se mi arrabbio vuoto il sacco lo slogan anti-pm usa frasi del premier".


Parla il candidato del Pdl a Palazzo Marino che è indagato per i manifesti contro i magistrati
"Vogliono escludere me per questo reato di opinione e intanto tengono i ladri in Parlamento"

di FRANCO VANNI

Roberto Lassini, presidente dell’associazione che ha ideato i manifesti “via le Br dalle procure”, come reagisce al fatto che il Pdl le ha chiesto di non presentarsi alle elezioni comunali a Milano?
«Mario Mantovani, coordinatore del partito in Lombardia, è un vecchio democristiano come me. Mi ha solo chiesto di “fare un passo indietro”, e può significare molte cose».

Indagati in tre per i manifesti I manifesti contro i magistrati E il Pd li cancella

Per la verità il messaggio pare chiaro.
«Sono pronto a resistere. E se mi arrabbio ho tanto da raccontare».

Suona come una minaccia...
«Semplicemente, non voglio fare da capro espiatorio. Mi escludono perché sono indagato per un presunto reato di opinione, mentre in Parlamento ci sono ladri condannati. Non parlo solo del Pdl, ma di tutti i partiti. Io sono stato assolto dopo cinque anni di processo ai tempi di Mani Pulite e vengo messo alla gogna».

A stigmatizzare i manifesti è stato anche il presidente Napolitano: non pensa di avere esagerato con quello slogan?
«Mi sono assunto la responsabilità di quanto fatto dai militanti della “Associazione dalla parte della democrazia”. Quello slogan è forte, è vero, ma riprende quanto detto da Silvio Berlusconi sul “brigatismo giudiziario” di certi magistrati».

L’azienda che avrebbe attaccato i manifesti dice che era lei a pagare le affissioni, almeno per una prima serie di poster a fondo azzurro. È così?
«È corretto».

Lassini in tribunale per Berlusconi La protesta a Palazzo Marino

Lei conosce Silvio Berlusconi?
«Gli ho stretto la mano a un pranzo elettorale. Tutto qui».

È vero che lei era sindaco di Turbigo quando ha conosciuto Mantovani, come lui ha raccontato in un’intervista?
«Siamo amici di famiglia, ci conosciamo da una vita. E abbiamo una comune storia politica nella Dc. Io ho seguito le evoluzioni del partito, oggi sono consigliere a Turbigo eletto con l’Udc».

È stato Mantovani a chiederle di entrare nella lista del Pdl a Milano?
«Mi sono proposto io e lui mi ha sostenuto».

Quando è successo?
«Le rispondo da democristiano: in tempi utili».

A Turbigo si dice che lei sia l’avvocato di Mantovani. È vero?
«No. L’anno scorso lui mi ha procurato un paio di piccoli lavori come legale per il Comune di Arconate, di cui è sindaco. Roba da mille euro a causa. È stato un gesto da amico, ne avevo bisogno, non sono milionario e ho anche debiti».

Lei è comparso vicino a Mantovani in una manifestazione “anti-pm” a Palazzo di giustizia. Il coordinatore ha avuto un ruolo anche nella contestata campagna di affissioni?
«Non parlo dei manifesti, c’è un’indagine in corso. E ripeto: è l’iniziativa di alcuni militanti della mia associazione».

Perchè i file dei primi manifesti, a tema “Silvio resisti”, sono sul blog del coordinatore della campagna elettorale del Pdl?
«Non parlo dei manifesti, c’è un’indagine in corso».

Qual è il suo sentimento in questi giorni di bufera?
«Mi spiace che la Moratti mi abbia chiesto di uscire dalla lista, questo è ovvio. Ma non ho nulla contro il sindaco né contro il partito. Rivendico solo il mio diritto di opinione».

http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/04/19/news/lassini_se_mi_arrabbio_vuoto_il_sacco_lo_slogan_anti-pm_usa_frasi_del_premier-15115680/?ref=HREA-1




Berlusconi punta al duello finale "Scontro ormai inevitabile col Colle".



Il premier risponde al Quirinale: "I pm hanno passato il segno, non io. Se prevalessero i pm, sarei costretto a lasciare l'Italia". E attacca: "Napolitano non ha detto nulla sulle intercettazioni date alla stampa". Letta non media.
di FRANCESCO BEI
ROMA - La scudisciata lo colpisce mentre è in riunione, ad Arcore, con gli avvocati Ghedini e Longo. Gli portano le agenzie con l'intervento di Napolitano e Berlusconi, inforcati gli occhiali da lettura, scuote la testa indignato: "Non ho nulla di cui rimproverami, l'intervento che ho fatto a Milano lo pronuncerei di nuovo. E questo Lassini nemmeno lo conosco". Il premier dà ordine ai suoi di non replicare al Quirinale, silenzio assoluto, ma chi si fa interprete del pensiero del Cavaliere riferisce del duro sfogo contro il "doppiopesismo" che il capo dello Stato avrebbe usato nei suoi confronti. "Se c'è qualcuno che ha superato il limite sono i magistrati e da tempo. Eppure Napolitano non ha mai detto nulla, nemmeno quando hanno passato alla stampa quelle intercettazioni del presidente del Consiglio che avrebbero dovuto essere distrutte".

Insomma Berlusconi, anche se la diplomazia istituzionale gli impone di non commentare la lettera del presidente della Repubblica, in privato non fa nulla per nascondere la sua irritazione. Oltretutto, sebbene giuri di non sapere nemmeno "che faccia abbia" l'autore dei manifesti sui pm "brigatisti", il premier si sente chiamato in causa in prima persona da Napolitano quasi fosse il mandante dell'iniziativa. Per questo stavolta non farà marcia indietro, non abbasserà i toni come pure gli chiedono molte delle colombe del partito, a partire da Gianni Letta. Ormai, anche con il capo dello Stato, la linea scelta è quello dello scontro.

Non che Berlusconi lo cerchi, ma non si tirerà indietro: "Saranno i nostri elettori a rispondere a Napolitano". Il premier è convinto infatti di aver ingaggiato "l'ultima battaglia", quella che deciderà del suo destino senza possibilità di rivincita. "Se i pm dovessero prevalere mi spolperebbero, mi toglierebbero le aziende, dovrei lasciare l'Italia. Ma questo non accadrà mai". Il terreno dello scontro finale Berlusconi lo ha già individuato: sarà la legge sulla prescrizione breve, l'unica arma che lo metterà al riparo dalla sentenza Mills. Il capo dello governo, spiegano i suoi, non si fa illusioni, è convinto che Napolitano non promulgherà il provvedimento rispedendolo dritto in Parlamento. "Lo scontro con il Colle sarà inevitabile - pronosticano gli uomini del Pdl - e allora tanto vale creare il clima giusto. Perché l'intenzione di Berlusconi è quella di riapprovare la legge in quattro e quattr'otto, senza modificarla di una virgola".

La partita sulla giustizia s'intreccia strettamente con quella elettorale. Berlusconi è preoccupato dei sondaggi su Letizia Moratti, che sembra condannata a giocarsi il tutto per tutto al ballottaggio. Così ha deciso di polarizzare la campagna elettorale, giocando la carta del referendum tra sé e i pubblici ministeri. Un modo per mobilitare un elettorato del centrodestra deluso, tiepido verso il sindaco uscente, che potrebbe essere spinto al voto soltanto se sentisse il proprio leader in pericolo. È quello su cui punta Berlusconi, che non fa nulla per attenuare i toni contro i magistrati. "Nell'ultima settimana - riferisce un esponente del Pdl milanese - grazie ai comizi del presidente del Consiglio, la lista Pdl è cresciuta di quattro punti nei nostri sondaggi".

L'assaggio di questa escalation studiata a tavolino l'hanno avuto i corrispondenti delle più prestigiose testate internazionali (prima che apparissero i manifesti di Lassini sui muri di Milano), sui quali il Cavaliere ha "testato" la prima volta l'equazione pm=Br. In un lungo sfogo di quattro ore, che sarebbe dovuto restare off the record, Berlusconi aveva infatti usato parole del tutto identiche a quelle del suo "sconosciuto" attacchino milanese. Racconta uno dei giornalisti testimoni del monologo: "Sembrava indemoniato. Ci disse che le Brigate rosse usavano il mitra come i pm usano oggi il potere giudiziario. Anzi, aggiunse che l'attacco dei pm è persino più pericoloso per la democrazia rispetto a quello delle Br, perché viene portato da funzionari pubblici. Parlò di eversione". Giudizi che lasciarono basiti i giornalisti. Ora i più avveduti nel Pdl, vedendo avvicinarsi un conflitto istituzionale senza precedenti, cercano di gettare acqua sul fuoco. Maurizio Lupi sostiene ad esempio che "il richiamo di Napolitano è rivolto a tutti, non solo a noi. Non dimentichiamoci che il segretario dell'Anm disse che la maggioranza non era legittimata "moralmente" a fare la riforma della giustizia". Su Lassini poi la sentenza sembra già emessa. "Da Alfano a Moratti - dice Lupi - siamo tutti d'accordo nella condanna di quei manifesti". Lassini "se ne deve andare", commenta laconico Paolo Bonaiuti. Ma anche se Lassini - come sembra inevitabile - sarà costretto a lasciare la lista del Pdl, Berlusconi tirerà dritto nel suo attacco: "A Milano ci giochiamo tutto. Se vinco vado avanti fino al 2013".

http://www.repubblica.it/politica/2011/04/19/news/berlusconi_punta_al_duello_finale_scontro_ormai_inevitabile_col_colle-15118086/?ref=HREA-1


La batcaverna. - di Gianni Barbacetto.



Eccola, la Bat-caverna. Altro che laboratorio. Altro che showroom. Il superloft di Gabriele Morattiin via Airaghi 30 a Milano non è più un immobile industriale (come imporrebbe la destinazione d’uso), né è mai stato uno spazio commerciale (come ha tentato di far credere il figlio del sindaco). È l’abitazione ultra-tecnologica del Morattino, con zone soggiorno, cucina, area party, camere padronali, camere per gli ospiti, servizi, giardino, piscina, palestra, poligono di tiro, parcheggio auto e ponte levatoio. Lo dimostra il video-documento che presentiamo: un “rendering”, come dicono gli architetti, cioè una presentazione di Casa Moratti a fine lavori.

Un abuso edilizio è sempre un abuso. Ma se a commetterlo è il figlio del sindaco, allora diventa anche un problema politico. Soprattutto se il primo cittadino prima nega, poi minimizza, infine scarica tutto sul figlio, come se non ne sapesse niente. “Sono stata a casa di mio figlio solo un paio di volte”: così è sfuggito a Letizia Moratti, che si è subito corretta: “Nell’immobile di mio figlio”. In realtà c’è andata più volte. Non solo: l’ha frequentata anche durante i lavori di ristrutturazione. A fine 2009, andava nella casa del figlio a fare il bagno in piscina, perché l’acqua della Bat-caverna è salina e dunque faceva molto bene a un suo polso dolorante. Allora la palazzina era ancora un cantiere ma, quando arrivava l’auto blu del sindaco, i 15 operai uscivano e, per un paio d’ore, lasciavano tranquilla Lady Letizia. A mollo nella Bat-piscina.

L’abuso edilizio, naturalmente, avrebbe dovuto rimanere segreto. Invece è emerso perché l’azienda che ha realizzato una parte dei lavori, la Hilite, ha avviato una causa civile nei confronti di Gabriele Moratti il quale, insoddisfatto dei lavori, si era rifiutato di pagare il conto. È poi seguita un’indagine penale sugli eventuali reati urbanistici, avviata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che in questa vicenda si è assunto il ruolo del Joker e ha chiesto l’azzeramento delle opere ritenute abusive, fino a ripristinare la situazione iniziale del capannone di via Airaghi.

Il titolare della Hilite, Matteo Pavanello, aveva ricevuto da Gabriele Moratti due incarichi: per 380 mila euro attraverso la società Brera 30 e per 250 mila euro attraverso Hilite. Ha ricevuto solo una parte dei pagamenti, attraverso due assegni firmati da Gianmarco Moratti, padre di Gabriele e marito di Letizia. Il valore totale dei lavori della Bat-caverna, dalle opere in muratura agli interventi tecnologici fino agli arredi, si aggira attorno ai 4 milioni di euro.



Manifesti giudici-Br pagati dal PdL?


La procura indaga: sotto accusa Giacomo Di Capua, braccio destro del coordinatore locale Mantovani. E un sospetto sul reale committente

Roberto Lassini e Giacomo di Capua: al momento sono il presidente della misteriosa Associazione dalla parte della democrazia, autodenunciatosi, e il capo della segreteria di Mauro Mantovani, coordinatore del PdL lombardo, gli indagati per la vicenda deimanifesti “Fuori le Br dalla Procura” che hanno tappezzato Milano fino a provocare la reazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera ci spiega però che l’ipotesi dei magistrati è più complicata:

Di Capua è stato infatti indagato, per l’ipotesi di reato di «vilipendio all’ordine giudiziario», dopo che a indicarne il ruolo nelle recenti campagne pubblicitarie firmate dalla misteriosa «Associazione dalla parte della democrazia» è stato uno dei due titolari dell’azienda di comunicazione politica che la Digos e il pm Armando Spataro avevano interrogato sabato, la «Bergomi&Falcone». Il gioco del cerino ha fatto ricostruire a ritroso il percorso dei manifesti: gli attacchini hanno indicato una ditta, questa ha spiegato che aveva operato, come spesso avviene in questo mercato, dietro mandato di u n ’ a l t r a a z i e n d a , l a «Bergomi&Falcone» (dal nome dei due titolari), che in passato aveva fatto diverse campagne per il Pdl. Falcone ha spiegato che il materiale per le affissioni della fantomatica «Associazione dalla parte della democrazia » (e cioè i precedenti manifesti Silvio resisti e Toghe rosse, ingiustizia per tutti, escluso però a suo dire proprio il manifesto sui pm «brigatisti» riecheggiante alcune esternazioni del premier) era arrivato da una certa tipografia.

Analoga la spiegazione iniziale di Bergomi, che però, di fronte all’esito dei primi accertamenti, ha modificato quanto aveva detto fino a quel momento agli inquirenti. E soprattutto, si pensa che anche quei manifesti, come altri, siano stati stampati con l’accordo che alla fine a pagare sarebbe stato il PdL:

E ha rivelato che l’incarico per la campagna pubblicitaria di affissioni siglate dall’«Associazione dalla parte della democrazia» gli era stato dato venti giorni fa in un incontro nella sede del partito in viale Monza da Di Capua, capo della segreteria del coordinatore regionale pdl, con l’intesa che a pagare sarebbe stato come le altre volte il Pdl. Bergomi rimarca che non c’erano i manifesti Fuori le Br dalle Procure. Ma le perquisizioni nella società ne trovano uno, che Bergomi sostiene sia stato raccolto per caso da qualcuno e buttato nel cestino; e nella tipografia indicata trovano sia le matrici sia l’ordinativo di 5.000 manifesti, emesso da una società di pubblicità nella medesima orbita. E Lassini? Anche l’autodenunciatosi candidato alle comunali di Milano nella lista Moratti, «presidente onorario» di un’Associazione «registrata 2 mesi fa», è indagato, dopo Di Capua e il tipografo: ma, al momento, solo a causa della sua intervista.

http://www.giornalettismo.com/archives/121961/manifesti-giudici-br-pagati-dal-pdl/



Napoli, se questo è un sindaco. - di Emiliano Fittipaldi e Gianfrancesco Turano


Una fortuna economica con origini misteriose. Una sfilza di fallimenti alle spalle. Una finanziaria in cui compare un fiduciario della 'ndrangheta. Eppure Giovanni Lettieri, candidato del centrodestra, ha sponsor eccellenti nel Pdl. Perché?



Nel 2006 il senatore Emiddio Novi, napoletano e berlusconiano della prima ora, non poteva certo immaginare che cinque anni più tardi Gianni Lettieri sarebbe diventato il candidato sindaco del Pdl. Così in commissione Antimafia non cercava giri di parole. "Ebbene", chiedeva Novi, "mi aspetto che qui ci si spieghi chi è questo Lettieri. Come mai da modesto imprenditore che alloggiava in un modesto appartamento di 120 metri quadri a Salita Arenella numero 9, in pochissimi anni si trasforma in un imprenditore di questo livello... Chi stava dietro questo signor Lettieri? Quali erano i rapporti di questo signore con la politica? Qual era il sistema di potere?".

Nessuno ha mai risposto alle sue domande. Al tempo Giovanni detto Gianni era presidente dell'Unione industriale di Napoli. Ma nemmeno ora che è in corsa - da favorito - per il governo della terza città d'Italia di lui si sa molto. Il suo passato, le sue amicizie e le origini della sua fortuna sono ancora misteriose. Si sa che ha sposato Maria Toscano e che ha tre figli (i familiari sono spesso coinvolti nelle sue attività imprenditoriali), che da un pezzo ha lasciato l'Arenella per l'elegante via Petrarca, che ama fare jogging e leggere Ken Follett. Ma in pochi sanno chi sono i veri sponsor della sua discesa in campo, e pochissimi conoscono la sua vera storia imprenditoriale. Nessuno, di sicuro, sa che dentro la sua finanziaria Meridie, quotata in Borsa, compare un fiduciario della 'ndrangheta.

Ma andiamo con ordine. E partiamo dal 1956. Gianni Lettieri nasce dietro la Ferrovia, in una zona popolare chiamata Ponte di Casanova. La famiglia è di umili origini. Gianni si rivela presto un ragazzo scaltro e sveglio, e decide di diplomarsi come geometra. Ci riesce nel 1974, in soli tre anni, frequentando un istituto tecnico. L'anno successivo si iscrive a Economia ma dopo un po' lascia gli studi. Forse lavorava troppo: nel 1975 diventa infatti direttore commerciale di un'azienda di La Spezia specializzata in abbigliamento militare. Il tessile diventa il suo ramo d'azione, e il suo curriculum racconta che fu lui ad aprire, in provincia di Avellino, il primo stabilimento di tessuto "Denim Ring".

Fare jeans gli piace, ma il sogno di farsi chiamare dottore, però, resta un'ossessione. Riuscirà a coronarlo solo nel gennaio 2011, grazie a una laurea honoris causa conferita dall'università privata Parthenope. Il preside di facoltà che propone l'onorificenza per pura coincidenza nominato qualche tempo prima da Lettieri membro del collegio sindacale di una sua società, la Mcm Holding. Le voci dei maligni a Gianni gli fanno un baffo. Anche perché in prima fila quel giorno, ad ascoltare la sua lectio magistralis, c'è nientemeno che Gianni Letta, suo grande amico e patrono. Non è una sorpresa: è da tempo che il sottosegretario e il suo sodale Luigi Bisignani hanno puntato su di lui. Forse abbagliati dai miracolosi successi industriali. Ma sarà tutto oro quel che luccica?

A contestare i suoi meriti professionali ci sono alcuni suoi colleghi di fama, dal suo predecessore Antonio D'Amato all'armatore Manuel Grimaldi, tanto che pochi giorni fa Lettieri ha dovuto spedire ai giornali una lettera in puro stile berlusconiano dove spiccano i 200 milioni di salari distribuiti in 18 anni a 600 dipendenti e il richiamo all'ottimismo. Una virtù indispensabile, perché Lettieri è l'equivalente imprenditoriale di Giobbe. Capitano tutte a lui. Sulle banche dati il suo nome è collegato a una sfilza di imprese liquidate oppure fallite. Oggi il suo salotto buono è la Meridie, quotata a Piazza Affari, finanziaria d'investimenti attiva soprattutto nel Mezzogiorno. Di Meridie Lettieri è presidente e amministratore delegato, anche se le azioni (14 per cento) sono in mano alla figlia più grande, Annalaura.

Per rimanere alle disgrazie recenti, Meridie ha investito 2,8 milioni in Banca Mb: soldi bloccati dopo che l'istituto è stato messo in amministrazione straordinaria da Bankitalia. Ha dato 2,5 milioni al produttore Massimo "Viperetta" Ferrero per acquistare il 25 per cento di una compagnia aerea di charter (la Livingston) che, a novembre, è finita in insolvenza. Ferrero, che il 20 gennaio avrebbe dovuto ricomprarsi la quota, non si è presentato dal notaio. Non è tutto. Una controllata, la Medsolar attiva nel campo dei pannelli fotovoltaici, ha subito una perdita di 2 milioni per la consegna in ritardo dei macchinari.