Mentre i conti della compagnia assicurativa sprofondavano, Salavatore e i figli incassavano compensi stratosferici e spostavano i gioielli del gruppo nelle proprie aziende
Lo sberleffo è arrivato lunedì 2 aprile. Proprio mentre gli azionisti della Fondiaria-Sai, un colosso delle assicurazioni con 7 milioni di clienti, si ritrovavano alle prese con un bilancio in profondo rosso e con la necessità di approvare un duro piano di salvataggio, i figli di Salvatore Ligresti hanno incassato stipendi d'oro per il loro lavoro nel gruppo. L'elenco dei loro compensi per l'anno nero di Fondiaria è il seguente: Jonella Ligresti, presidente della compagnia, ha avuto 2,5 milioni; Paolo, consigliere, 1,6 milioni; Giulia, vice-presidente, appena 837 mila euro. Il totale fa 5 milioni: l'ultima goccia in un fiume di un miliardo che, negli ultimi anni, si è riversato sulla famiglia.
Chi invocasse una riforma di un articolo 18 qualsiasi per poter cacciare i dirigenti incapaci, avrebbe però torto. Perché l'ingegner Salvatore e i tre figli, in questi anni, non si sono certo comportati da scansafatiche. Tutt'altro. Esagerando un po', si potrebbe dire che abbiano lavorato durissimamente, che non sia passata settimana o mese che non abbiano fatto qualcosa per perseguire con tenacia il loro compito: trasferire ricchezza a se stessi e alle loro società personali. A prescindere dagli effetti sul gruppo Fondiaria, di cui saranno ancora per poco gli azionisti di maggioranza relativa.
Chi ama i personaggi un po' luciferini, infatti, non può esimersi dal leggere un documento di 98 pagine che il collegio sindacale di Fondiaria, la prima linea dei controlli di una società, dopo anni spesi a mettere foglie di fico sull'operato dei dirigenti, si è ritrovato costretto a stilare per rispondere alla denuncia di un azionista, il fondo d'investimento Amber Global Opportunities.
I sindaci hanno messo in fila tutte le operazioni che hanno comportato un esborso di risorse dal gruppo Fondiaria verso i Ligresti. Ed è qui, in questa analisi ufficiale, che l'efficienza della famiglia mostra le vette che è stata in grado di raggiungere: tra consulenze plurimilionarie all'ingegnere, retribuzioni, contratti di sponsorizzazione alla scuderia ippica di Jonella, acquisti di terreni di proprietà delle loro società personali, appalti per la costruzione di alberghi, tra i quali uno di lusso - poi abbandonato quando le fatture già correvano - battezzato Gilli, il marchio di moda di Giulia, centri commerciali e maxi progetti immobiliari, dalle casse della compagnia assicurativa negli ultimi sono usciti 755 milioni di euro mentre altri 73 ne usciranno per contratti in corso (http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2178194 ).
E non è finita. Perché nel 2008 e nel 2009, quando la crisi avrebbe imposto di mettere fieno in cascina, Fondiaria ha deciso di attingere alle riserve per distribuire lo stesso un dividendo ai propri soci. E l'indebitatissima Premafin, da tempo alle prese con le pressioni delle banche creditrici, ne ha incassata la fetta maggiore. Per finire, ci sono le perdite della società alberghiera dei Ligresti, la Atahotels, che con sprezzo del pericolo la Fondiaria ha acquistato nel 2009, quando era in profonda crisi. Da allora, scrivono i sindaci nella risposta a Amber, sono stati necessari tre aumenti di capitale per un totale di 78 milioni, e altri ne serviranno.
Alla fine del catalogo dei capolavori compiuti da Salvatore e dai figli, dunque, si può calcolare che negli anni presi in considerazione, tra pagamenti effettuati, lavori affidati, somme già contabilizzate ma ancora da versare, esborsi per tenere in vita le società di famiglia, per la Fondiaria il costo dei suoi proprietari sia stato di circa un miliardo di euro.
Se in tutto questo ci siano stati dei comportamenti illeciti, cercheranno di appurarlo i magistrati. Si sa che, nell'inchiesta condotta dalla procura di Milano, l'ottantenne ingegnere di origine siciliana, per tanti anni uno degli uomini più potenti del capitalismo italiano grazie alle quote di partecipazione che, con i soldi della Fondiaria, si era conquistato in diverse primarie aziende, è l'unico indagato. Ed è noto che i magistrati, partiti ipotizzando il reato di ostacolo agli organi di vigilanza, hanno poi vagliato una serie di altri crimini che potrebbero essere imputati, dall'aggiotaggio al falso in bilancio all'insider trading.
Anche se l'inchiesta va avanti ormai da tempo, negli ultimi giorni nei corridoi del palazzo di giustizia c'è stato un incessante viavai di persone chiamate a rispondere alle domande del pubblico ministero, Luigi Orsi, che sta tentando di circoscrivere il contesto delle varie operazioni e i diversi protagonisti. Sono passati, fra gli altri, il presidente del collegio sindacale, Benito Giovanni Marino, l'altro sindaco Mario Spadacini, Flavia Mazzarella, vice direttore dell'Isvap, l'autorità che vigila sulle assicurazioni, e numerosi ulteriori protagonisti più o meno minori della vicenda.
Tra i vari fronti dell'indagine, ce ne sono due che sono particolarmente utili per mettere in evidenza due fattori cruciali: il meccanismo perfetto dei conflitti d'interesse dei Ligresti e la loro capacità di giocare su diversi tavoli, allo scopo di ottenere vantaggi per se stessi.
Il primo fronte è quello dei quattrini investiti da Fondiaria in operazioni societarie e immobiliari della famiglia. Un esempio è proprio quello degli alberghi Atahotels. Come hanno ricostruito i sindaci, Fondiaria ha speso circa 260 milioni di euro per acquistare dalla famiglia i muri di quattro delle strutture, nel milanese alla nuova Fiera e a San Donato, a Varese, nella maremmana Bagni di Petriolo. Alla fine del 2008, però, l'allora amministratore delegato Fausto Marchionni si presenta in consiglio di amministrazione e propone di acquistare da Ligresti & Co. direttamente la società che gestisce l'ospitalità degli alberghi, appunto la Atahotels. Lo scopo? "L'integrazione verticale nel turismo", è la formula di Marchionni che convince gli amministratori senza grandi difficoltà.
Naturalmente tutte le formalità del caso vengono rispettate. La società di consulenza Kpmg Advisory non nasconde che il turismo va male e la Atahotels peggio, e che negli anni successivi si renderanno necessari ulteriori esborsi di capitale. E sui conflitti d'interesse si spende lo studio legale d'Urso Gatti e Associati che rassicura gli altri amministratori del fatto che negli accordi con i Ligresti ci sono "pattuizioni non inusuali né diverse da quelle che potrebbero essere verosimilmente e ragionevolmente negoziate tra società non correlate (ovvero non in conflitto d'interesse, ndr.) in analoghe fattispecie". Bene. Dopo qualche tiramolla, il 29 maggio 2009 il contratto viene alla fine firmato e la famiglia incassa 25 milioni di euro.
Passa poco tempo, però, e le previsioni fatte al momento dell'acquisizione si rivelano troppo ottimistiche. Con il risultati già detti: tra il 2009 e il 2011 Fondiaria deve iniettare in Atahotels 78 milioni. E altri 40 ne serviranno da qui al 2014.
Oggi che tutti ci tengono a far vedere di voler prendere le distanze dai Ligresti, il collegio sindacale conclude la risposta al fondo Amber dicendo che i periti che hanno contribuito a stabilire il prezzo degli alberghi acquistati dai Ligresti o dei canoni d'affitto "ove emergessero elementi di responsabilità", potrebbero essere oggetto di "opportune iniziative giudiziali".
Peccato che, nel baratro economico del 2011, l'intero consiglio di amministrazione ne sia uscito con compensi d'oro. Jonella, Gilia e Paolo, con i loro 5 milioni totali. Fra gli altri altri, Marchionni ha ottenuto una buonuscita di 11 milioni; il consigliere e avvocato Carlo d'Urso, quello del parere legale, ha staccato parcelle professionali per altri 1,8 milioni.
Il secondo fronte dell'indagine è quello che riguarda le quote della holding Premafin, occultate per anni ma in realtà di proprietà dei Ligresti, che la Consob è riuscita a stanare nei paradisi fiscali più lontani. Dopo mesi di studio, la stretta è partita nelle scorse settimane, quando l'autorità che vigila sui mercati ha reso noto di aver ricostruito una serie di passaggi di pacchetti azionari in vari paradisi offshore, producendo un fascicolo che è stato trasmesso all'attenzione dei magistrati. In estrema sintesi: il sospetto è che Ligresti abbia sparpagliato nei paradisi fiscali di mezzo mondo una quota superiore al 20 per cento della Premafin, facendo finta di averla ceduta ma in realtà mantenendola sempre nella sua piena disponibilità.
Perché queste acrobazie? Le possibilità sono diverse. In procura si lavora all'ipotesi che siano servite per influenzare le quotazioni del titolo. Con che scopo? Mistero. Forse l'obiettivo era gonfiare il valore borsistico di Premafin, in modo che i pacchetti azionari dati in pegno al sistema bancario valessero di più e i creditori non fossero tentati di estromettere la famiglia per rientare dei prestiti. Se fosse così, e se davvero i manager delle banche - Mediobanca e Unicredit in primis - che hanno prestato a Ligresti oltre 2 miliardi di euro si sono fatti prendere per il naso dall'anziano ingegnere, sarebbe un bel colpo. Fregati da uno che, in prima persona o attraverso i figli, sedeva nei loro consigli di amministrazione.
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