lunedì 26 novembre 2012

Nuove regole Imu sotto lente di Bruxelles.



Agevolazioni di alcuni enti non commerciali, in particolare la Chiesa, sarebbero considerati come aiuti di Stato illegali.

BRUXELLES - Il nuovo regolamento sull'Imu pubblicato in Gazzetta Ufficiale sabato è ora sotto la lente di Bruxelles, che deve verificarne la compatibilità con le norme Ue e valutare quindi se chiudere la procedura d'infrazione aperta contro l'Italia. "Stiamo studiando le misure adottate", ha assicurato il portavoce del commissario Ue alla concorrenza Joaquin Almunia, precisando che l'analisi della Commissione si situa "nel quadro della procedura sugli aiuti di stato in corso".

Le agevolazioni fiscali di cui hanno finora goduto in Italia gli enti non commerciali, e in particolare la Chiesa, possono, secondo le norme europee, essere considerate come aiuti di stato illegali. Il contenzioso con l'Antitrust Ue risale al 2007, quando erano partite le prime richieste di informazioni a Roma. Almunia aveva deciso di riaprire il dossier dell'esenzione dell'allora Ici nei confronti della Chiesa nel 2010, dopo le denunce ripresentate dal deputato radicale Maurizio Turco e dal fiscalista Carlo Pontesilli, che si erano rivolti alla Corte di giustizia Ue per impedire l'archiviazione. Dopo avere definito lo scorso febbraio un "progresso sensibile" l'emendamento proposto dal governo Monti, i servizi antitrust Ue sono rimasti in attesa del testo legislativo finale, che ha ricevuto uno stop dal Consiglio di stato. Con il regolamento pubblicato ora sulla gazzetta Ufficiale, i servizi di Almunia hanno gli elementi necessari per poter compiere la loro valutazione, che dovrà essere completata in tempi utili perché le nuove norme possano o meno partire con l'anno nuovo. In ogni caso l'Italia, allo stato attuale, non rischia multe, ma solo l'ingiunzione da parte di Bruxelles di procedere al recupero presso i beneficiari degli aiuti illegali precedentemente percepiti. Solo nell'ipotetico caso in cui l'Italia ricevesse l'ingiunzione e non procedesse nei tempi stabiliti al recupero, allora Bruxelles potrebbe aprire un'altra procedura d'infrazione che, una volta giunta nella fase finale, potrebbe a sua volta terminare con una multa da parte della Corte di giustizia Ue.

“In California ho creato il social network per trovare lavoro in Italia”. - Paola Guarnieri


“In California ho creato il social network per trovare lavoro in Italia”


Jacopo Chirici, 27 anni, ha vissuto tra Svezia e Usa. Poi, attraverso la Startup School in Silicon Valley ha creato Rysto, impresa online che aiuta camerieri e gestori di alberghi e ristoranti a incontrarsi per rispondere alle rispettive esigenze. Ed è tornato.

Per sei anni ha fatto di tutto per restare fuori dall’Italia. Finchè ha trovato una buona ragione per tornare. Jacopo Chirici, 27 anni, una laurea in Economia all’Università di Firenze, ha vissuto a lungo tra la Svezia e gli Stati Uniti, accumulando esperienze di studio e di lavoro molto diverse. “Il mio percorso internazionale è partito con l’Erasmus, sei mesi in Svezia, a Goteborg. Mi sono trovato talmente bene che una volta rientrato in Italia ho fatto le valigie, compilato una domanda per un master in Innovation management nella stessa università e sono ripartito. Mentre ero a Goteborg sono stato ammesso ad un Mba alla University of North Florida dove ho trascorso un anno e mezzo”.
Finita l’esperienza negli Stati Uniti Jacopo rientra in Svezia e si lancia in una nuova avventura. “Da studente avevo iniziato a fare il cameriere nei fine settimana, per mantenermi. Al termine del master il proprietario del locale mi ha chiesto di diventare suo socio e prendere la gestione del ristorante. Ho accettato e piano piano, col mio lavoro di cameriere, ho ripagato le quote per concludere l’accordo. È stata dura perché per mesi le mie giornate iniziavano e finivano dentro al ristorante e tutto quello che guadagnavo lo investivo in quel progetto”. Dopo essersi messo alla prova come piccolo imprenditore Jacopo decide di declinare quest’esperienza in un settore più vicino al suo percorso di studi. Partecipa alla Startup School organizzata dalla fondazione Mind the Bridgenella Silicon Valley. “In California ho incontrato tanti ragazzi che erano partiti come me in cerca di fortuna. Ho conosciuto Massimo Fabrizio che è diventato socio nel mio nuovo progetto. In realtà è stato lui ad avere l’idea, ma la mia conoscenza nel settore del project management e l’esperienza in quello della ristorazione sono state fondamentali. Così è nato Rysto”.
Rysto è una startup che aiuta camerieri e gestori di alberghi e ristoranti a incontrarsi per rispondere alle rispettive esigenze. Un social network geolocalizzato che consente ai primi di trovare lavoro, agli altri di reperire facilmente personale anche all’ultimo momento. È questo il motivo che convince Jacopo a rientrare in Italia, per sviluppare la piattaforma insieme ad altri ragazzi. “I miei soci fondatori sono italiani, la startup è italiana e ne siamo fieri. Vogliamo testare il prodotto qui e poi portarlo all’estero, principalmente Stati Uniti e Inghilterra che sono mercati più attivi”. Come in ogni social network anche chi entra in Rysto si crea un suo profilo e può dare la sua disponibilità. Così il lavoratore si costruisce un livello di esperienza incrementato dalle referenze che lasciano i gestori sul sito. Partito lo scorso settembre, Rysto ha già raccolto 2600 iscritti. La maggior parte hanno dai 25 ai 35 anni e non fanno altri lavori. “La vera sorpresa è stata ricevere delle iscrizioni da parte di persone di 40 o 50 anni. Sono poche ma ci sono, alcuni hanno già un’occupazione e lo fanno per arrotondare”. A giudicare dai risultati e dall’interesse degli investitori, la piattaforma arriva al momento giusto, complici forse la crisi e la disoccupazione in aumento. “A volte mi sveglio la notte con il pensiero del lavoro da fare, ho l’impressione di essere entrato in una realtà più grande di me. Da una parte fa paura, dall’altra è affascinante perché ogni giorno imparo cose nuove. Però devi chinare la testa, studiare, imparare e accettare i tuoi limiti”.

Ilva, ancora arresti a Taranto. Nelle carte una telefonata di Vendola con Archinà. - Francesco Casula


Ilva Taranto


Associazione a delinquere, disastro ambientale, concussione. Sette persone arrestate, quattro ai domiciliari e tre in carcere. Indagato Bruno Ferrante, Fabio Riva destinatario di un'ordinanza di custodia cautelare. Il governatore ad Archinà: "Tranquilli, non mi sono defilato". Il gip: "Regia Vendola su pressioni ad Arpa".

Il nucleo operativo della Guardia di finanza di Taranto ha dato il via alle 6 di questa mattina all’esecuzione di tre ordinanze di custodia cautelare emesse dal Tribunale ionico nell’ambito dell’indagine denominata “Ambiente svenduto”. Quattro persone sono finite ai domiciliari e tre in carcere. Tra loro Fabio Riva,vicepresidente di Riva Group, che è tra i destinatari delle sette ordinanze di custodia cautelare emesse. Il provvedimento nei confronti del figlio del patron dell’Ilva Emilio ai domiciliari dal 26 luglio, non è stato ancora eseguito. Anche il presidente dell’azienda Bruno Ferrante e il direttore generale dell’azienda, Adolfo Buffo, hanno ricevuto altrettanti avvisi di garanzia.
Nel mirino delle fiamme gialle, guidate dal capitano Giuseppe Di Noi, è finito il “sistema Archinà”, ex consulente dell’Ilva, e i suoi contatti con le istituzioni locali e nazionali per garantire immunità allo stabilimento siderurgico ionico e “tenere tutto sotto coperta”. Tanti gli indagati a piede libero tra i quali anche le autorità politiche di ogni livello che in questi anni non avrebbero controllato i danni arrecati dall’inquinamento prodotto dalla fabbrica tarantina. Ci sono anche politici locali come l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva (dimessosi alcuni mesi fa proprio per questa vicenda come anticipato da ilfattoquotidiano.it). E poi funzionari amministrativi e imprenditori operanti nel settore dei rifiuti. Tre i provvedimenti emessi: il primo dal gip Patrizia Todisco riguarderebbe i vertici Ilva e il sistema di relazioni gestito da Girolamo Archinà, pizzicato dalla guardia di finanza il 26 marzo 2010 mentre incontrava l’allora perito della procura in un’indagine sull’Ilva per consegnargli, secondo la procura, una tangente di diecimila euro, per ammorbidire una perizia. Dalle intercettazioni telefoniche, oltre diecimila conversazioni, il nucleo operativo delle fiamme gialle avrebbe ricostruito il modus operandi dell’ex addetto alle relazioni istituzionali. C’è anche Lorenzo Liberti, ex consulente della  procura. Giornalisti compiacenti, funzionari amici e politici sottomessi avrebbero contribuito ad occultare il disastro ambientale oggi contestato ai vertici dello stabilimento.
Il secondo invece, emesso, dal gip Vilma Gilli, riguarderebbe la concessione da parte dell’amministrazione provinciale guidata da Gianni Florido delle autorizzazioni alle discariche, tra le quali anche la Mater gratiae che si trova all’interno dell’Ilva. In questo provvedimento sarebbe stato coinvolto anche Gianpiero Santoro, tecnico scelto dall’ente provinciale come rappresentante nella commissione che ha appena rilasciato l’Autorizzazione integrata ambientale. Il terzo provvedimento, secondo le prime indiscrezioni, riguarda il sequestro della produzione dell’Ilva che le autorità potrebbero ‘commissarriare’ e sarebbe finalizzato alle operazioni di risanamento. 
L’indagine inizialmente è stata condotta dal sostituto procuratore Remo Epifani ed è in parte confluita nell’inchiesta per sisastro ambientale coordinata dal pool formato dal procuratore Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero e Giovanna Cannarile. Alla base di questi nuovi provvedimenti ci sarebbe il lavoro svolto dagli uomini del capitano Di Noi raccolto in una informativa di pltre 700 pagine.
Il gip: “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”
“Numerosi e costanti contatti di Girolamo Archinà, direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici tra cui il governatore della Puglia Nichi Vendola“. Parola, anzi penna del gip di Taranto nell’ordinanza di custodia cautelare per i vertici dell’Ilva. Un documento in cui emergono rapporti quanto meno ambigui tra il presidente della Regione e i vertici sel siderurgico. Tutta da leggere una mail del 22 giugno 2010, che Archinà invia a Fabio Riva e con la quale lo informa di un incontro avuto a Bari con il governatore. Incontro che è successivo al documento dell’Arpa Puglia del giugno 2010, in cui si sottolineavano i livelli di inquinamento prodotti dall’azienda. Nella mail, Archinà “comunicava che il presidente Vendola si era fortemente adirato con i vertici dell’Arpa Puglia, cioè il direttore scientifico Blonda e il direttore generale Assennato, sostenendo che loro non devono assolutamente attaccare l’Ilva di Taranto e piuttosto si dovevano occupare di stanare Enel ed Eni che cercavano di aizzare la piazza contro l’Ilva”. Sempre secondo quanto scrive Archinà a Riva, inoltre, “Vendola aveva pubblicamente dichiarato che il ‘modello Ilva’ doveva essere esportato in tutta la regione riferendosi, chiaramente, alla famosa ‘legge sulla diossina‘ la cui gestazione era stata evidentemente frutto della concertazione tra la Regione e l’Ilva che aveva sempre osteggiato il cosiddetto ‘campionamento in continuo’, ottenendo, appunto, in tale legge che ciò non fosse imposto”. Altro “elemento di rilievo” scrive ancora il gip, è rappresentato dalla promessa “del presidente Vendola di occuparsi personalmente della questione Arpa al suo ritorno dalla Cina”. Un intendimento che “veniva mantenuto” tanto che Vendola “appena tornato… contattava personalmente l’Archinà rassicurandolo di non aver dimenticato la promessa fatta nella riunione precedentè”. 
”State tranquilli, non e’ che mi sono scordato!!… Il presidente non si è defilato” dice Vendola il 6 luglio 2010 al telefono con Archinà. Parole finite nell’ordinanza e che ora sono al vaglio della magistratura tarantina. In quella chiamata, scrive il gip, il leader di Sel “proseguiva nel discorso con Archinà dicendo che ‘col mio capo di gabinetto… Siamo rimasti molto colpiti… Siccome ho capito qual è la situazione… Volevo dire che… Mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere… State tranquilli, non è che mi sono scordatò”. Nel corso della conversazione, poi, Vendola ribadiva questa posizione “allorquando affermava chiaramente di non volere rinunciare a una realtà industriale qual è l’Ilva, invitando Archinà a comunicare a Riva che lui non si era defilato”. “Va bene, va bene – dice il governatore – noi dobbiamo fare… Ognuno fa la sua parte… E dobbiamo però sapere che… A prescindere da tutti il procedimento, le cose, le iniziative… L’Ilva è una realtà produttiva… cui non possiamo rinunciare… E, quindi… fermo restando tutto dobbiamo vederci… dobbiamo ridare garanzie… Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che.. il presidente non si è defilato”.
Le pressioni di Vendola sull’Arpa
Ci sarebbe ”la regia” del governatore della Puglia, Nichi Vendola, nelle “pressioni” per “far fuori” il direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, autore della relazione sulle emissioni inquinanti prodotte dall’Ilva. Lo scrive il gip di Taranto Patrizia Todisco nell’ordinanza d’arresto per i vertici dell’azienda, in cui sono riportate anche alcune telefonate che proverebbero la tesi del giudice. Il 30 giugno 2010, ad esempio, vengono intercettati Archinà e il segretario provinciale della Cisl di Taranto Daniela Fumarola, nella quale l’ex funzionario dell’Ilva sostiene che “l’avvocato Manna (allora capo di gabinetto del presidente della Regione) e l’assessore Fratoianni fossero stati incaricati dal presidente Vendola di ‘frantumare Assennato’”. In un’altra telefonata, del 2 luglio del 2010, a parlare sono invece l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso e uno degli avvocati dell’Ilva. Quest’ultimo, annota la Guardia di finanza, “riferisce che Archinà ha avuto contatti con il capo di gabinetto di Vendola il quale ha riferito che sono contro Assennato e che cercheranno di farlo fuori”. “Il complesso delle intercettazioni relative alle pressioni sul professor Assennato – scrive il gip – è da ritenersi, oltre ogni ragionevole dubbio, assolutamente attendibile, così come è altrettanto evidente… che il tutto si era svolto sotto l’attenta regia del presidente Vendola e del suo capo di gabinetto avvocato Manna”.
La preoccupazione di Clini: “Preoccupato che venga bloccata Aia”
”Non sono disponibile a subire una situazione che avrebbe effetti terribili: sono preoccupato che questa iniziativa blocchi l’Autorizzazione integrata ambientale con effetti ambientali gravissimi e sociali devastanti”. Parola del ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, sugli sviluppi del caso Ilva dopo gli arresti e i sequestri di oggi.  ”Chi dice che la chiusura dell’Ilva risolva i problemi dice una cosa falsa – ha aggiunto – Stiamo giocando sulla pelle della gente. La magistratura fa bene a perseguire gli illeciti. Senza l’Aia la situazione sarebbe più comprensibile ma con questo documento che è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, altre iniziative rischiano di diventare conflittuali e che il governo rischia di subire”.
Landini a Monti: “Si assuma responsabilità”
“Il presidente del Consiglio convochi immediatamente un incontro a Palazzo Chigi, come già richiesto unitariamente il 20 novembre scorso dalle organizzazioni sindacali”. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini si rivolge direttamente al capo del governo per cercare di risolvere una volta per tutte una vicenda, quella dello stabilimento siderurgico di Taranto, che continua a ingarbugliarsi sempre di più. ”A questo punto – ha detto Landini – il Governo in prima persona che deve assumersi la responsabilità la salvaguardia della salute e dell’occupazione, non solo a Taranto, ma in tutto il Gruppo”. Il leader della Fiom, poi, ha parlato dell’importanza economica della questione Ilva, sottolineando che “il settore siderurgico è un’attività strategica per un Paese che vuole avere un’industria all’avanguardia, innovativa e ambientalmente sostenibile”.
Ferrante: “Resto presidente, contestazioni strumentali”
Rimane presidente perché le accuse nei suoi confronti sono infondate. Bruno Ferrante rispedisce al mittente le contestazioni della procura tarantina e annuncia che rimarrà al suo posto come se nulla fosse nonostante la sua iscrizione nel registro degli indagati. “Non ho alcuna intenzione di rinunciare all’incarico di Presidente di Ilva S.p.A., assunto nel luglio scorso – ha detto l’ex prefetto di Milano– Le contestazioni che mi sono state rivolte dal pm di Taranto appaiono inconsistenti e strumentali. Proseguirò nel mio compito nell’interesse dei tanti lavoratori e dell’Azienda, convinto sempre che è possibile e doveroso coniugare ambiente, salute e lavoro”.
Il coinvolgimento di un ispettore di polizia: informò l’azienda
C’e’ anche un ispettore di Polizia in servizio alla Digos di Taranto, Cataldo De Michele, tra le persone che l’ex dirigente Ilva Girolamo Archinà avrebbe utilizzato per avere informazioni riservate che riguardavano l’azienda siderurgica. E’ quanto si legge nell’ordinanza dalla quale oggi sono scaturiti gli arresti. In particolare, nelle carte si riferisce che l’ispettore di polizia “forniva ad Archinà informazione circa un incontro riservato che il procuratore di Taranto aveva avuto il 7 giugno 2010 presso la questura di Taranto con il professor Giorgio Assennato”. L’ispettore, scrive il gip, riferiva ad Archinà che “il procuratore aveva chiesto al direttore dell’Arpa Puglia ulteriori notizie circa gli esiti delle rilevazioni sulle emissioni di benzoapirene da parte dell’Ilva spa, aggiungendo inoltre di aver captato che nel termine di 30 giorni era stata chiesta un’ulteriore relazione, in quanto erano ipotizzabili reati di disastro ambientale ed il procuratore intendeva identificarne le persone fisiche responsabili”. 

domenica 25 novembre 2012

L'Ultima Parola : "Grand Hotel Montecitorio" di Monica Raucci.



L'ultima parola 23/11/2012 - Viaggio con telecamera nascosta all'interno della Camera, per raccontare la vita del parlamentare, tra spese e privilegi. Dall'assistenza sanitaria alla sauna.

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=0GwesAkPVlQ#!

LeG: ripartiamo dalla Costituzione per ribellarci al degrado del Paese. - Luca De Vito


L'appello di Zagrebelsky alla platea del Forum di Assago. Saviano bacchetta il centrosinistra: "Il tema della criminalità è rimasto fuori dal dibattito delle primarie". Bonsanti: "La nostra Carta contiene principi non negoziabili, a cominciare dal lavoro". Umberto Eco lancia la proposta dei presìdi sulla Costituzione.

Ripartire dalla Costituzione e dai suoi principi. È stato questo il tema comune degli interventi alla manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia al forum di Assago e intitolata “Per una nuova stagione costituzionale”.  Ma l’appuntamento è stato anche l’occasione per una bacchettata di Roberto Saviano, intervenuto con un videomessaggio, ai candidati alle primarie del centrosinistra sul tema delle mafie: “Mi dispiace che la lotta alla criminalità organizzata sia rimasta a margine del dibattito – ha detto lo scrittore di Gomorra - è stato un errore molto grave, avrebbe dovuto essere il grande tema delle primarie”.

Di fronte a un momento di svolta storico, guardare alla Costituzione come un mezzo per cambiare l’Italia: “Ecco il senso del nostro incontro – ha spiegato Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente onorario di Libertà e Giustizia - rivendicare la Costituzione come strumento per la trasformazione del nostro Paese. Non si tratta di difenderla, ma di usarla per ribellarci al degrado che in questi anni abbiamo visto nella vita pubblica”. Un messaggio rivolto alla politica, prima di tutto. E articolato su più fronti. Davanti a una platea gremita, rappresentanti della cultura e della società civile italiana hanno parlato riportando alla luce temi costituzionali come la centralità del parlamento, la giustizia, il lavoro.

Sandra Bonsanti, presidente dell’associazione, ha richiamato la necessità di un ritorno della politica vera: “A un anno dalle dimissioni di Silvio Berlusconi, viviamo all’interno di una grande illusione: siamo sicuri che la politica sia tornata e che i tecnici stiano per concludere il loro ciclo?”. E poi ha lanciato un monito contro i tentativi di modificare la Costituzione: “Ci sono principi non negoziabili. Vi preparate a colpi di mano per cambiare la seconda parte della Costituzione? Noi non vi seguiremo. Pensate che il primo articolo della Costituzione sul lavoro sia un vano declamare di vecchi costituenti? Noi non vi seguiremo”. Subito dopo Umberto Eco ha richiamato l’importanza di insegnare ai giovani la Costituzione, lanciando un appello: “Diamo vita a presìdi per fare educazione alla Costituzione, magari attraverso le scuole, per dedicare almeno due giorni di discussione a ogni articolo della nostra carta”.

Sul palco si sono poi avvicendati i tre candidati alle primarie del centrosinistra in Lombardia - Umberto Ambrosoli, Alessandra Kustermann e Andrea Di Stefano – e personalità della società civile come don Virginio Colmegna, che ha richiamato all’importanza della solidarietà, e il segretario della Fiom, Maurizio Landini (“Io la Costituzione l’ho imparata con i compagni del sindacato che hanno esercitato quei diritti sui luoghi di lavoro”). Lo storico Paul Ginsborg ha parlato della crisi politica ed economica dell’Europa e Salvatore Settis, ex direttore della Normale di Pisa, è tornato sul tema dei tagli alla cultura (“da Berlusconi a Mario Monti per la cultura non è cambiato niente e tra Maria Stella Gelmini e Francesco Profumo c’è stata perfetta continuità”).
Spazio anche ai giornalisti: Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) ha dedicato il suo intervento alla necessità di garantire la libertà d’informazione (“basta bavagli e conflitti d’interesse”). Lirio Abbate dell’Espresso, Gianni Barbacetto del Fatto quotidiano e Gad Lerner, che ha messo in guardia dal rischio xenofobia per il nostro paese, “la malattia culturale che desensibilizza alla Costituzione”. Una lettera di saluto è arrivata anche dal sindaco di Milano, Giuliano Pisapia (assente per un lutto in famiglia), il quale ha ricordato “quel cambiamento che Milano ha anticipato e che i movimenti come Libertà e Giustizia hanno aiutato a maturare. Noi – ha scritto il sindaco - abbiamo costruito un nuovo modello di governo che ha fatto della Costituzione uno dei suoi punti irrinunciabili”. 
http://milano.repubblica.it/cronaca/2012/11/24/news/leg_ripartiamo_dalla_costituzione_per_ribellarci_al_degrado_del_paese-47351810/?ref=HREC2-1

Quei tre giudici nell'ufficio più costoso del mondo. - Luciano Ferraro


Piazza San Marco: 2,6 milioni annui per affitto e spese
alle Procuratorie, ma sono rimasti solo i giudici di pace.


Tra stucchi cinquecenteschi illuminati d'oro e d'azzurro, c'è l'ufficio giudiziario più costoso del mondo (se si calcola il rapporto tra numero di occupanti e spese). Ci lavorano tre giudici di pace, si occupano di beghe condominiali e infrazioni stradali contestate. Le loro stanze si affacciano su San Marco, a Venezia, e ogni giorno si riempiono della musica dei Caffè storici. Si trovano nelle Procuratorie vecchie, l'edificio delle 100 finestre, lungo 152 metri, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr, costruito nel dodicesimo secolo e rinato dopo un'incendio nel 1538. Queste tre scrivanie costano prima al Comune, poi allo Stato, tra canone d'affitto e spese, 866 mila euro l'una. In totale 2,6 milioni l'anno. 
A sinistra, il Palazzo delle Procuratorie (Ap)A sinistra, il Palazzo delle Procuratorie (Ap)
Il padrone di casa, le Assicurazioni Generali, incassa il canone da un decennio. Il conto è lievitato, anche se gli uffici sono stati progressivamente liberati. Il pasticciaccio inizia nel 1991, quando il Tribunale di Rialto, con vista sul Canal Grande, viene chiuso per carenza di misure di sicurezza. Il Comune cerca, con urgenza, una sede per evitare la paralisi dei processi e delle indagini. Generali mette a disposizione l'enorme ala marciana. Era stata la base della compagnia dal 1832. Alla fine degli anni Ottanta, sulla scia di un esodo di abitanti e posti di lavoro che sembra non finire mai, anche le Generali si trasferirono in un quartier generale in terraferma, a Mogliano Veneto. Nuovo di zecca, accessibile e molto meno costoso di un edificio storico, tra acqua alta e necessità di continui interventi di restauro. 
Il 18 novembre 1991 il Comune si accorda con la compagnia del leone: 1,4 milioni di euro l'anno per 6 anni. La giustizia riparte. Pubblici ministeri e giudici traslocano da Rialto alle stanze di San Marco, nei due splendidi piani poco adatti ai processi. Quando sono di scena imputati o testimoni eccellenti si assiste a inseguimenti dei fotografi tra turisti e piccioni, come capita nei giorni caldi di Tangentopoli a Gianni De Michelis, con la folla che fischia e urla. La distanza dall'imbarcadero costringe poi a far sfilare i detenuti portati dal carcere al palazzo tra vacanzieri e cittadini.
Dopo mesi dal trasferimento, Procura e Tribunale tornano a Rialto: le Fabbriche Nuove del Sansovino sono di nuovo agibili. Ma il gruppo dell'Antimafia rimane nell'edificio. Resta anche la polizia giudiziaria, assieme ai giudici di pace. E il canone intanto non si abbassa. Alla fine del 2003 il Comune chiede una proroga «in attesa della realizzazione della Cittadella della giustizia».
Il sogno è trasferire nella Cittadella, a piazzale Roma, tutte le sedi della magistratura del centro storico. I lavori sembrano interminabili. Se ne parla dagli anni Ottanta. «Il progetto è finanziato e gli appalti assegnati, ma a stralci - spiega con amarezza il sindaco veneziano Giorgio Orsoni, avvocato amministrativista - mancano i fondi statali per l'ultima fase». Nel 2010 il primo «miracolo»: una parte dello scuro e cupo edificio della Cittadella della giustizia è pronta, il team dell'Antimafia ha traslocato con la polizia giudiziaria. Ma il contratto d'affitto per San Marco resta lo stesso del 1991, quello della fuga da Rialto.
Se tutto filerà liscio, il 2013 sarà l'anno in cui Venezia potrà evitare di versare 2,6 milioni l'anno per i tre giudici di pace. «Abbiamo già trovato i nuovi uffici a Riva de Biasio, presto il caso sarà risolto - assicura il sindaco -. Certo, siamo stati vittime di un meccanismo folle: abbiamo dovuto anticipare milioni per far funzionare uffici statali, e l'amministrazione centrale ce li ha restituiti con ritardo di 3-4 anni, solo all'80 per cento. Ma fra qualche settimana tutto questo finirà».
Nel frattempo i tre giudici di pace e gli otto impiegati potranno continuare ad ascoltare i valzer dei Caffè che, dal '700 ad oggi, hanno accolto da Goethe ad Hemingway. «Il miglior fondale per l'estasi» come ha scritto Josif Brodskij, il poeta di «Fondamenta degli Incurabili».

sabato 24 novembre 2012

Call center, affare ‘ndrangheta e il boss cita Cuccia: le azioni non si contano si pesano. - Davide Milosa


Call center, affare ‘ndrangheta e il boss cita Cuccia: le azioni non si contano si pesano


All'alba 23 arresti tra Calabria e Lombardia. Nel mirino la potente cosca Bellocco. Nel 2011 ha conquisto un'azienda lombarda leader nel settore delle telecomunicazioni. A Rosarno intercettati le preparzioni di una faida con i Pesce e dove le donne insistono per "uccidere tutti anche le creature".

L’ultimo affare: i call center. Sì perché quella della potentissima cosca Bellocco di Rosarno, è una ‘ndrangheta che diversifica. E se in Calabria i boss regnano da imperatori e preparano faide in cui, sentenziano le donne di mafia, a morire dovranno essere “tutti, anche i minorenni”, in Lombardia si dedicano al business. Legale e milionario. Come dimostra la vicenda della Blue call srl, azienda specializzata nella gestione di call center con il centro direttivo a Cernusco sul Naviglio e sedi operative in tutta Italia (anche in Calabria, naturalmente). Un’impresa florida che solo nel 2010 ha chiuso un fatturato da 13 milioni di euro, facendosi segnalare come leader del settore. Un gioiellino, dunque. Gestito da Andrea Ruffino, il quale, agli inizi del 2011, apre le porte a un emissario dei boss. Finirà per cedere le quote. Regalando ai boss un vero bancomat cui accedere in ogni momento, ma soprattutto la possibilità di controllare un ampio consenso sociale attraverso le assunzioni. Un’arma formidabile anche per la gestione di pacchetti elettorali. Insomma affari al nord e controllo del territorio al sud. Il tutto sulla rotta Rosarno-Milano e ritorno. Questa la fotografia scattata dalle procure di Reggio Calabria e Milano che all’alba di questa mattina hanno dato esecuzione a 23 arresti tra Calabria per associazione mafiosa e Lombardia per intestazione fittizia di beni, accusa quest’ultima aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso. Tra questi anche i soci della stessa Blue call.
“LE AZIONI NON SI CONTANO, SI PESANO E LE MIE PESANO DI PIU’”
Per comprendere il disegno basta leggere i capi d’imputazione. A Rosarno la mafia è armata. Mentre a Milano, questa stessa ‘ndrangheta (ben diversa da quella rappresentata dall’inchiesta Infinito) non spara, usa il computer e si appoggia a veri e propri intermediari del crimine. Gente insospettabile che, come in questo caso, prende contatti e mette in comunicazioni gli imprenditori con i boss. Carlo Antonio Longo, originario di Galatro (Reggio Calabria), è, infatti, il referente dei Bellocco al nord. Mega villa in Svizzera, titolare di un’azienda edile (chiusa nel gennaio scorso) schermata da un limited londinese, Longo è un uomo di mafia, violento e deciso, ma è anche un broker, capace di trattare con gli imprenditori del nord. Talmente sottile da minacciarli, citando a memoria una delle storiche frasi di Enrico Cuccia, per decenni eminenza grigia della finanza italiana. Dirà Longo all’imprenditore: “Le azioni non si contano, ma si pesano, e le mie pesano di più!”. Gli uomini del Gico guidato dal comandante Marco Menegazzo, ascoltano queste parole il 16 settembre 2011, periodo in cui la ‘ndrangheta si accinge a fare il passo definitivo: prendersi tutta l’azienda che in quel periodo conta oltre mille dipendenti.
L’IMPRENDITORE: “HO PRESO LE BOTTE, QUEL BASTARDO, CON IL COLTELLO ANCHE”
L’atto finale solo quattro giorni dopo, quando Andrea Ruffino (anche lui destinatario di un mandato di cattura, ma attualmente irreperibile) convocato da Longo e soci nella sede operativa di Cernusco sul Naviglio. Nella saletta ci sono una decina di persone, gente vicina alla cosca Bellocco, persone assunte in società senza le minime credenziali. In questo momento Longo regola i conti o, come dice lui, “taglia i rami secchi”. L’imprenditore di Ivrea viene massacrato di botte, dopodiché, con il coltello puntato alla gola, verrà “convinto” a cedere tutte le sue quote a una società preparata ad hoc dalla ‘ndrangheta. Uscito da quell’incontro, la vittima chiama subito la sua fidanzata per sfogarsi. “Ho preso le botte (…) mi ha dato una botta che sento malissimo adesso. Quel bastardo, guarda. Con il coltello anche, guarda (…) quello che dovevo raggiungere l’ho raggiunto ma fanno schifo. Sono uomini di merda. Ti giuro non sto sentendo da un orecchio”. L’imprenditore è stato massacrato. Però è sollevato, perché ha ottenuto la promessa di un minimo pagamento delle sue quote. Pagamento, che, alla maniera calabrese, non arriverà mai. Le conversazioni dei giorni successivi confermano il quadro agli investigatori. Un impiegato delle sue società vedendo l’imprenditore con l’occhio pesto gli consiglia di andare in ospedale. “Sì – risponde – e cosa dico che Longo mi ha fatto un’estorsione”. Il vaso è pieno. Lo sfogo arriva subito dopo: “Basta con questa ‘ndrangheta – dice l’ex titolare della Blue call – che si pigliassero tutto”.
UMBERTO BELLOCCO, IL PICCOLO PRINCIPE DELLA ‘NDRANGHETA
Eppure, mesi prima, l’imprenditore piemontese non la pensava così. Tutto inizia nel dicembre 2011, quando Emilio Fratto, commercialista con conoscenze importanti in ambito mafioso, pensa di rientrare da un credito che ha con l’imprenditore piemontese proponendo l’ingresso di nuovi soci nella Blue call. In questo modo, lo stesso Fratto crede di potersi liberare di un debito a sua volta contratto con la cosca Bellocco. Succede tutto velocemente. “C’è da fare questa cosa”, dice Fratto a Longo che prende tempo e riporta la possibilità a Umberto Belloco, il giovane e capriccioso principe del clan, il quale entrerà con entrambi i piedi nella vicenda fino ad essere il regista ultimo e questo senza aver la minima professionalità. Farà di più durante la latitanza terminata nel luglio scorso – sarà arrestato a Roma nel luglio scorso – il giovane Bellocco, da fuggiasco, percepirà un regolare stipendio dalla Blue call, oltre naturalmente ai vari benefit per allietare la latitanza.
LA SCALATA ALLA SOCIETA’: QUESTIONE DI PANZA E DI PRESENZA
La vicenda, quindi, nasce per un debito-credito. L’imprenditore, del resto, non si oppone. Anche perché, emerge dalle indagini, già sotto scacco da uomini legati ai clan di isola Capo Rizzuto. Quello che appare chiarissimo è il metodo con cui la ‘ndrangheta prima entra e poi conquista l’azienda. Longo, introdotto da Fratto, e per conto dei Bellocco, porta in società una serie di persone fino ad aver, inizialmente, il 30%. Questo, però, è solo il prologo di una scalata rapidissima. Tanto che lo stesso Umberto Bellocco intercettato dice: “Tu pensa che dove lavoro io ci sono 40 ragazzi…45…A Cernusco gestisco un Call-Center”. Insomma, il progetto mafioso va a gonfie vele e a costo zero. Longo è chiarissimo: “I soldi noi non li abbiamo messi”. E dunque? Prosegue: “Io non metto niente io prendo”. I Bellocco dunque cosa mettono. “La presenza – ribadisce Longo – panza e presenza”. L’espressione tipicamente mafiosa viene tradotta dagli investigatori: “I Bellocco, una volta entrati a far parte della società con un quota minoritaria (30%), stavano cercando di acquisirne il controllo con metodologie che facevano leva solo sul potere di intimidazione derivante dalla loro appartenenza alla ‘ndrangheta”. Panza e presenza appunto. Tanto basta “per prendersi il lavoro di una vita”, si sfoga così uno dei soci della Blue call. “Non è solo, il futuro dell’azienda (….) Stai sotto scacco per tutta la vita! Come dici tu: Non c’è via d’uscita , questi qua… E’ impossibile, capito. Oggi vogliono questo e domani cosa vogliono!? … E dopodomani cosa vogliono, scusami”.
“LORO SONO COME DIO CHE POSSONO DECIDERE TUTTO”
Ruffino un po’ intuisce, un po’ no. Addirittura pensa di estromettere i calabresi, liquidando la loro parte. Non sarà così, naturalmente. E Fratto lo avverte fin da subito: “Per il resto dei nostri giorni non ce li togliamo più dai piedi. Tu pensa di giocare, con loro, sulla lama del rasoio: poi, quando ti tagli, ti renderai conto delle mie parole (…) Io ti sto dicendo che questa razza la conosco, tu no”. L’imprenditore, dunque, sta giocando con il fuoco. Però insiste: “La morte – dice – non è il peggiore dei mali”. Fratto è chiarissimo: “Tu sei un pazzo”. E allora l’altro chiede: “Loro sono come Dio che possono decidere che tutte le persone muoiono no?”
L’imprenditore agganciato sa ma non si sgancia. Diventa complice. Ne è consapevole Ruffno che dice: “Io non voglio andare avanti con queste persone (…) stiamo puliti (…) e non rischiamo nessun 416bis”. Quindi ancora parole in libertà sul come liquidare questi calabresi. “Guarda io ho più soluzioni (…) mi sono rotto i coglioni io voglio stare separato perché voglio comandare io”. Tanto coraggio viene smorzato da una telefonata di Longo, il quale durante le festivita pasquali fa gli auguti a Ruffino. “Volevo salutarti (…) come stai (…) Insieme e alla tua famiglia, tanti auguri…Buona Pasqua, capito, fai una buona Pasqua e vivi felice e contento”.
SCHERMI SOCIETARI E ASSET MAFIOSI
Nonostante tutto l’imprenditore prosegue nel tentativo di liberarsi dei calabresi. Consapevole della mafiosità dei suoi interlocutori, ma ancora non del tutto consapevole della loro intelligenza criminale, chiude la Blue call e splitta l’intero assett (call center e immobiliare) su due società: la Future srl e la R&V. Nel frattempo, però, la ‘ndrangheta ha già creato una sua società schermo, la Alveberg con sede a Milano in via Santa Maria alla porta. Tra i soci c’è la anche la fidanzata di Longo. E’ dentro questa srl che confluiranno tutte le quote dell’imprenditore, dopo il pestaggio del 20 settembre.
NELLA FAIDA UCCIDERE ANCHE DONNE E BAMBINI
Questa è la ‘ndrangheta che colonizza Milano. Una ‘ndrangheta violenta e vorace. Capace di prendersi un’azienda da 13 milioni di fatturato senza fare rumore. E di progettare una faida dove coinvolgere anche donne e bambini. L’incredibile vicenda è narrata nella parte calabrese dell’inchiesta. E nasce da due omicidi di affiliati alla cosca. I sospetti ricadono sul clan pesce, un tempo alleati con i Bellocco. Tanto che il giovane erede del casato mafioso dice, intercettato, “Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro…sennò non è di nessuno”. Il rischio di una faida è concreto. Tanto che Umberto ne parla con la madre Maria Teresa D’Agostino. “Una volta – dice la donna – che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti….dopo, o loro o noi o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni”. E ancora: “Pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”.