sabato 24 marzo 2018

Trovato un gene per riparare il cuore dopo un infarto.

Trovato un gene per riparare il cuore dopo un infarto
Gabriele D'Uva e Mattia Lauriola 

La scoperta è di un team internazionale di scienziati guidato dal ricercatore Gabriele D’Uva, con il contributo di una giovane scienziata dell'Ateneo di Bologna.

BOLOGNA - Identificato un gene chiave capace di riparare il cuore danneggiato da un infarto. A effettuare la scoperta è un team internazionale di scienziati, guidato dal ricercatore italiano Gabriele D’Uva, laureato all'Alma Mater, nel laboratorio del professor Tzahor del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele. Lo studio, pubblicato il 6 aprile sulla rivista Nature Cell Biology (e ripreso oggi in Nature - News & View), ha individuato il motivo per il quale il muscolo cardiaco non riesce a rigenerarsi e scoperto un gene chiave che, una volta attivato, consentirebbe di “aggiustarlo”. Hanno contribuito alla scoperta la dottoressa Mattia Lauriola del dipartimento di Medicina specialistica, diagnostica e sperimentale dell’Università di Bologna, lo Sheba Medical Center (Israele) e l’Università del South Wales.

Durante un infarto miocardico le cellule del muscolo cardiaco muoiono e sono sostituite da tessuto cicatriziale, il quale, non avendo la capacità di contrarsi, determina una funzione ridotta del cuore e spiana la strada per l’insufficienza cardiaca, purtroppo spesso letale. Le "malattie cardiache sono una delle principali cause di morte in tutto il mondo, in parte perché il nostro organo più importante non è in grado di rigenerarsi", spiegano i ricercatori. Gli autori di questo studio hanno scoperto che l’incapacità del muscolo cardiaco di rigenerarsi sarebbe dovuta alla scarsa presenza di un gene, chiamato ERBB2, che è necessario per la proliferazione delle cellule muscolari del cuore durante lo sviluppo embrionale, ma che si riduce drasticamente dopo la nascita.


Trovato un gene per riparare il cuore dopo un infarto

I ricercatori hanno ipotizzato che l’induzione del gene ERBB2 potesse spingere le cellule cardiache del topo adulto a proliferare. Un’idea avvalorata dal fatto che il gene è anche ben noto nel campo dell’oncologia, perché promuove la crescita cellulare in svariati tipi di cancro. “Perché non imparare dai tumori?”  ha suggerito la dottoressa Lauriola – Dopotutto una delle caratteristiche chiave dei tumori è proprio la proliferazione incontrollata”. Si è applicato dunque uno degli stimoli più potenti, responsabile della proliferazione dei tessuti tumorali, in un contesto come quello cardiaco in cui la proliferazione cellulare è pressoché assente.

L’induzione di ERBB2 nel cuore di un topo adulto, grazie a sofisticate tecniche di biologia molecolare, ha infatti determinato la regressione delle cellule muscolari cardiache a uno stadio embrionale. L’effetto è stato cosí forte che ha portato alla “gigantizzazione” del cuore, più grande del normale di 2-3 volte. Successivamente, il team di ricercatori ha riattivato provvisoriamente il gene in alcuni topi che avevano subito un infarto, per il tempo sufficiente a indurre la giusta quantità di proliferazione di cellule muscolari cardiache necessaria per riparare il cuore. Al termine, è emerso che il segnale indotto da ErbB2 era riuscito, nel giro di poche settimane, a rigenerare il muscolo cardiaco.

”Secondo questi risultati, le persone colpite da infarto cardiaco potrebbero migliorare le condizioni del cuore - spiega Gabriele D’Uva - se nel futuro si riuscisse a trovare un modo per aumentare i livelli di ERBB2 nelle cellule muscolari cardiache”. Come? Questa è la sfida successiva, che potrebbe aiutare milioni di pazienti in tutto il mondo.


http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/04/23/news/scoperto_un_gene_chiave_per_riparare_il_cuore_dopo_un_infarto-112643227/

venerdì 23 marzo 2018

Tiziano Renzi non risponde ai pm e se la prende con i giornali: ‘Stop stillicidio, urlo mia innocenza, processatemi ovunque’.

Risultati immagini per tiziano renzi e moglie

I genitori dell'ex premier si avvalgono della facoltà di non rispondere nell'inchiesta che li vede indagati a Firenze per presunte fatture false. L'avvocato del padre dirama una nota in cui Tiziano accusa la stampa, professa la sua innocenza e anticipa che non risponderà mai più ai magistrati: "Non ho niente da temere, non avendo commesso alcuno dei reati che mi sono stati contestati".

Per Tiziano Renzi la colpa è dei giornali. Specie di quelli che hanno raccontato i suoi affari e le indagini dei magistrati nei suoi confronti. La versione del padre dell’ex premier è arrivata oggi, in una lunga nota diramata dal suo avvocato Federico Bagattini. I tempi contano: la lettera di Renzi senior è arrivata dopo che il diretto interessato e sua moglie Laura Bovoli si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande dei pm fiorentini Luca Turco e Christine von Borries, che hanno iscritto i coniugi Renzi nel registro degli indagati ipotizzando il reato di fatture false. Il padre e la madre dell’ex sindaco di Firenze, nella fattispecie, avrebbero dovuto chiarire i loro rapporti con Luigi Dagostino, imprenditore di origini pugliesi molto attivo nel settore degli outlet di lusso ed ex socio di Tiziano Renzi.

Il padre dell’ex segretario del Pd, però, ha deciso di tacere, almeno davanti ai magistrati. Molto articolata, invece, la presa di posizione che emerge dalla nota diffusa dal suo legale. “Da quattro anni la mia vita professionale e personale è stata totalmente stravolta – si è lamentato Tiziano Renzi – Dopo anni di onorata carriera, senza alcun procedimento penale mai aperto in tutta la mia vita nei miei confronti, mi sono trovato improvvisamente sotto indagine in più procure d’Italia per svariati motivi”. I motivi? Per Renzi non ce ne sono: “All’improvviso e del tutto casualmente dal 2014 la nostra vita è stata totalmente rivoluzionata – ha spiegato – da cittadino modello a pluri-indagato cui dedicare pagine e pagine sui giornali. Alla veneranda età di 67 anni confesso la mia stanchezza. Ribadisco con forza e determinazione che non ho mai commesso alcuno dei reati per i quali sono stato – e in alcuni casi ancora sono – indagato“.

Tiziano Renzi, poi, ha passato in rassegna le indagini in cui è coinvolto, rispedendo al mittente le accuse ma non spiegando i motivi della sua convinzione: “Non ho mai fatto bancarotta fraudolenta come finalmente dopo anni di indagine Genova si è stabilito con l’archiviazione del procedimento; non ho mai commesso il reato di traffico di influenza per il quale sono stato messo sotto indagine a Napoli prima e a Roma poi; non ho mai fatto fatture false come si ipotizza a Firenze”. Poi l’appello e l’accusa ai giornali, colpevoli di aver scritto articoli su di lui: “Urlo con forza la mia innocenza che peraltro nessuno ha mai potuto negare in questi anni – ha sottolineato Tiziano Renzi – Ma dopo quattro anni di processi sui giornali con uno stillicidio di anticipazioni, notizie, scoop senza che mai ci sia un solo responsabile per le clamorose e continue fughe di notizie, adesso dico basta. Sono io – ha detto – che chiedo che si facciano i processi. Ma si facciano nelle aule di tribunale, non sui giornali. Ho il dovere di difendere la mia dignità e la credibilità professionale della mia azienda”.
Successivamente Tiziano Renzi ha anticipato quella che sarà la sua strategia processuale: “D’ora in avanti ho deciso che in tutti i procedimenti in cui sono coinvolto mi avvarrò della facoltà di non rispondere – ha spiegato – Non ho niente da temere, non avendo commesso alcuno dei reati che mi sono stati contestati. Ma voglio essere processato davanti alla Giustizia italiana per ciò che ho fatto, non sui giornali per il cognome che porto. Ancora oggi – ha raccontato – dovevo essere interrogato a Firenze e ore prima dell’appuntamento con i magistrati le redazioni dei giornali erano già state allertate”. “Sono un cittadino italiano – si legge ancora nella nota – stupito da ciò che è avvenuto nei procedimenti giudiziari che mi riguardano a cominciare dalla evidente falsificazione di presunte prove nei miei confronti, falsificazione così enorme da suonare paradossale”: chiaro, in questo caso, il riferimento all’inchiesta Consip e alla questione Scafarto. “Ma credo nella giustizia e nelle Istituzioni italiane. E dunque mi auguro che si celebrino i processi – ha detto ancora – Chiedo che si celebrino i processi: quelli in cui sono indagato e quelli in cui ho chiesto risarcimento danni per tutelare la storia professionale mia e della mia azienda. Se devo essere processato, che mi processino. Che mi processino il più velocemente possibile, se possibile. Passerò i prossimi anni della mia vita nei tribunali per difendermi da accuse insussistenti e per chiedere i danni a chi mi ha diffamato. Ma almeno – ha concluso Tiziano Renzi – potrò dire ai miei nipoti che la giustizia si esercita nelle aule dei tribunali e non nelle fughe di notizie e nei processi mediatici“.
Avvalersi della facoltà di non rispondere equivale ad una tacita ammissione dei reati ascritti.
Gli avvocati della difesa, infatti, consigliano di utilizzare questa formula quando temono che l'imputato, rispondendo alle domande della pubblica accusa, possa, in qualche modo, ammettere le colpe attribuitegli per non dichiarare il falso e commettere, per conseguenza, l'ulteriore reato di falsa testimonianza o spergiuro.

Risorge il Cnel con le 48 nomine del governo Gentiloni. - Concetto Vecchio

Risorge il Cnel con le 48 nomine del governo Gentiloni

L'organo consultivo delle Camere e dell'esecutivo in materia economica è sopravvissuto al voto referendario del 2016 e si appresta a riunire il suo parlamentino di 64 esperti. Il presidente Treu: "Tutti a dire che non serve a niente ma poi c'era la fila ad entrare".

Dato per morto durante la campagna referendaria ("voglio essere chiaro sul Cnel: anche basta!", diceva Matteo Renzi prima del voto del 4 dicembre 2016), al punto che a poche settimane dal voto gli uffici di Villa Lubin a Roma erano ingombri degli scatoloni di chi si apprestava a fare un trasloco, risorto nella notte del No, festeggiata con pasticcini e champagne, il Cnel ha celebrato oggi la sua definitiva resurrezione con le 48 nomine varate dal governo Gentiloni in uno dei suoi ultimi atti.
 
L'organo consultivo del Parlamento e del governo in materia economica, che da un anno è retto dal professor Tiziano Treu, che fu ministro del Lavoro nel primo governo Prodi, e ministro dei Trasporti con D'Alema a Palazzo Chigi ("mi sono preso il miglior D'Alema", dice), e che al referendum aveva votato Sì ("ma sul Cnel non ero d'accordo"), quindi riparte: il parlamentino è composto da 64 esperti, dieci dei quali sono di nomina del Quirinale e i rimanenti sei dal Terzo Settore. Ridefinite le regole d'ingaggio: niente stipendi, solo un rimborso spese per chi non vive nella Capitale.
 
Quella del governo Gentiloni è una presa d'atto, nel senso che i nomi sono tutti indicati dalle varie organizzazioni sociali o sindacali. Nel giugno scorso le nomine erano già state decise, ma a quel punto piovvero una trentina di ricorsi di chi si era sentito escluso. "Tutti a dire che non serve a niente - fa notare Treu - ma poi c'era la fila ad entrare". Per sbrogliarne la matassa l'avvocatura di Stato è stata costretta a occuparsene per nove mesi.
 
"C'è la corsa dei renziani a farne parte", denunciava giorni fa il neosenatore leghista Alberto Bagnai. "Suvvia", dice Treu. "E' tutta gente competente, di cui non si conosco la casacca politica. Un tempo ci parcheggiavano i dinosauri, quel tempo è passato. E fa i nomi di alcuni esperti nominati oggi: l'ex ministro montiano Mario Catania; Paolo Peluffo, già sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con Monti; l'ex presidente dei giovani industriali, Marco Gay; Gianna Fracassi, segretaria confederale della Cgil.
 
Il Cnel, la notte del 4 dicembre 2016, fu al centro di molti commenti ironici sui social, dopo che il 60 per cento degli italiani si era espresso a favore del No, a dispetto degli allarmismi di Renzi, che aveva quantificato "in un miliardo in 70 anni", il costo dell'organismo per le casse pubbliche.


http://www.repubblica.it/politica/2018/03/21/news/nomine_cnel_treu-191878843/

Leggi anche: 
http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/cnel-nomine-dell-ultimo-istante-faeef6e2-2d48-11e8-af9b-02aca5d1ad11.shtml

LO SCONFITTO RENZI VUOLE PIAZZARE LA BOSCHI IN VIGILANZA RAI E LOTTI AL COPASIR, LA COMMISSIONE SUI SERVIZI SEGRETI: IL GIGLIO MAGICO NON È AFFATTO APPASSITO E CONTA SULLE POLTRONE RISERVATE ALL’OPPOSIZIONE PER MANTENERE IL POTERE. NONOSTANTE 4 BATOSTE ELETTORALI CONSECUTIVE.




Maurizio Belpietro per La Verità.


Quattro batoste possono bastare? A quanto pare no. Perdere due capoluoghi di regione, tra cui la capitale d' Italia, un referendum, una quarantina di Comuni, tra cui città amministrate dalla sinistra fin dal 1946, e dimezzare i voti evidentemente non è ancora ritenuto sufficiente per arrendersi. E così, non avendo compreso bene la lezione uscita dalle urne, i renziani si apprestano a ripartire, come se il 4 marzo non fosse successo niente di preoccupante.

renzi boschi
Renzi Boschi

Altro che Giglio magico appassito. Approfittando della primavera, dalle parti di Firenze l' ex presidente del Consiglio e i suoi fedelissimi sono pronti a sbocciare di nuovo. Dopo essersi dimesso dalla carica di segretario del Pd, Renzi lavora infatti per mantenere il controllo del partito, dettandone la linea e impedendo che Maurizio Martina corregga le direttive da lui imposte al momento dell' addio.

Così, se il vicesegretario reggente apre alla possibilità che, su richiesta del presidente della Repubblica, il Pd appoggi un esecutivo con i 5 stelle, l' ex premier chiude e lancia l' idea di un referendum tra gli iscritti. Una consultazione che rischierebbe di arrivare fuori tempo massimo e dunque a giochi conclusi.
Che poi è proprio quello che Renzi vuole, ossia lasciar fare agli altri, a pentastellati e leghisti, affinché con il passare dei giorni si brucino o peggio siano costretti a mettersi insieme.

tiziano renzi luca lotti
Luca Lotti Tiziano Renzi

Tuttavia non è solo l' ex segretario a prepararsi a rifiorire, pronto anche a fondare un proprio partito o una propria corrente che almeno nel nome scopiazzi il movimento di Emmanuel Macron. No, a rialzare i petali si preparano tutti i renziani. Non hanno ancora mollato le poltrone occupate in questi anni che già si preparano a coprirne altre. La più lesta di tutti a quanto pare è l' ape regina del Giglio magico, Maria Elena Boschi, che si appresterebbe a volare sul bocciolo della Rai.

Per lei il Pd sarebbe pronto a chiedere la presidenza della commissione di vigilanza sulla televisione pubblica, poltroncina da sempre riservata a un esponente dell' opposizione. Depositare le zampette sull' organo di controllo di Viale Mazzini, garantirebbe, anche senza essere in consiglio di amministrazione, una presa sull' informazione oltre che una discreta visibilità.

RENZI LOTTI
 Renzi Lotti

Il prossimo governo dovrà fare i conti con l' occupazione renziana del servizio pubblico e avere una postazione come quella della presidenza della commissione di vigilanza potrebbe consentire di tenere sotto tiro le operazioni di smantellamento del sistema di potere.

Ma se l' ape regina punta sul polline Rai, per un altro petalo del Giglio magico si aprirebbe la strada del Copasir, ovvero del comitato parlamentare che ha il compito di controllare l' operato dei servizi segreti. Il delicato incarico, che anche in questo caso per prassi spetta all' opposizione, farebbe gola al ministro dello Sport, Luca Lotti. Già nel dicembre 2017, allorquando Renzi fu costretto dalla legnata referendaria a passare il testimone a Paolo Gentiloni, Lotti aveva provato a farsi assegnare le deleghe sugli 007, ma l' operazione non era riuscita.

Marco Carrai con Matteo Renzi
Marco Carrai con Matteo Renzi

Un po' perché un ministro dello Sport che oltre a occuparsi di calciatori abbia le mansioni di tener d' occhio le spie avrebbe rappresentato un' anomalia nel pur insolito panorama politico italiano. E un po' perché lasciare nelle mani di un fedelissimo di Renzi il controllo sulle agenzie di sicurezza era come delegare a un segretario di partito una delle attività più delicata della Repubblica. Risultato, Lotti si dovette accontentare di seguire, oltre allo sport, anche l' editoria e il comitato di programmazione economica.

carrai renzi cybersecurity 5
Carrai Renzi Cybersecurity 5

E il suo mentore, che quand' era a Palazzo Chigi provò a mettere alla guida della cybersicurezza il suo prestacasa, ossia l' imprenditore Marco Carrai, fu costretto al secondo passo indietro. Oggi però Lotti, e dunque Renzi, ritentano il colpo, sperando di riuscire a mettere le mani sul comitato. Ci riusciranno? Difficile rispondere. Di certo Renzi e i suoi nel Pd contano ancora molto. In Parlamento l' ex segretario ha fatto entrare solo uomini di fiducia e in direzione anche. Dunque rovesciare i rapporti di forza non è semplice e per farlo ci vuole tempo.

Insomma, serve pazienza. Per ora prepariamoci a vedere risbocciare il Giglio magico. Il virgulto sarà probabilmente meno infestante di prima, ma per estirparlo serve il diserbante di un' altra batosta.

Gruppo Espresso, i vertici sono indagati per truffa milionaria all’Inps. - Luciano Cerasa e Valeria Pacelli


Corrado Corradi, Monica MondardiniRoberto Moro

Le accuse - Coinvolta Mondardini, oggi Ad di Gedi. I pm: pensioni anticipate per milioni di euro a dirigenti che erano privi del diritto.

Il cuore del Gruppo Gedi, la società che edita il quotidiano Repubblica e il settimanale L’Espresso (estranei alla vicenda), finisce sotto inchiesta. Truffa ai danni dell’Inps è il reato che la Procura di Roma contesta all’amministratore delegato Monica Mondardini, al direttore delle Risorse umane Roberto Moro e a Corrado Corradi, capo della Divisione Stampa Nazionale. Per questo ieri i finanzieri sono entrati nelle sedi della Gedi – il gruppo che oggi edita anche La Stampa di cui è presidente onorario Carlo De Benedetti, presidente il figlio Marco – e della Manzoni Spa, la concessionaria di pubblicità del gruppo editoriale, per acquisire documentazione relativa al prepensionamento concesso, secondo la Procura senza averne diritto, ad alcuni dirigenti di nove società del gruppo.
Il punto è questo: il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall’Olio sospettano che per far ottenere il prepensionamento, ossia il riposo anticipato, ad alcuni dirigenti che non avevano accesso al beneficio, siano stati utilizzati alcuni escamotage come il demansionamento a quadri o i trasferimenti. Da ciò la presunta truffa di milioni di euro. Le contestazioni riguardano fatti dal 2012 a oggi. L’indagine – che ora crea qualche grana al gruppo che nel 2016 vantava 705 milioni di euro di ricavi e 11,9 milioni di utili – nasce da un’informativa dell’Ispettorato del lavoro che evidenzia le anomalie nell’ottenimento dei benefici dei prepensionamenti, e che è stata inviata in Procura.

Le ispezioni della Direzione Vigilanza dell’Inps, da cui si sono avviate le indagini della Procura di Roma, hanno avuto impulso da una notizia del Fatto del settembre 2016, in cui si riportava il carteggio interno tra la presidenza, la direzione generale e alcune direzioni dell’Istituto scaturito da alcune email di denuncia, inviate al presidente Tito Boeri a partire dal maggio precedente. Una figura evidentemente a contatto con la società editoriale e poi ascoltata dagli inquirenti capitolini, segnalava a Boeri una presunta truffa per decine di milioni di euro ai danni dell’Inps operata dal gruppo editoriale tra il 2012 e il 2015.
La questione si rimpalla per diverso tempo tra gli uffici fino a quando Boeri decide di inviare una ricostruzione di quanto accertato dalle sue direzioni al ministero del Lavoro e incarica il direttore generale pro tempore, Massimo Cioffi – dimessosi di lì a poco per i forti contrasti con il presidente sulla gestione dell’Ente –, di stendere una lettera da inviare al ministro del lavoro, Giuliano Poletti. In questa lettera, Cioffi racconta che in occasione di due operazioni di ristrutturazione aziendale – la prima che si è conclusa nel 2012 e la seconda nel 2015 –, la società Manzoni Spa avrebbe chiesto 117 esuberi: poco prima lo stato di crisi però aveva assunto altro personale, proveniente – ipotizza l’Inps –, da società appartenenti al medesimo gruppo e in qualche caso anche dall’esterno.

Cioffi scrive così che nell’ambito dei citati 117 esuberi sono stati segnalati all’istituto 7 nominativi di dirigenti, trasformati in quadri per poter essere prepensionati.
Sempre secondo le segnalazioni pervenute all’Inps, tutti i dipendenti assunti non sarebbero neppure usciti dalle aziende di origine. Dalla banca dati ministeriale delle comunicazioni obbligatorie sono emerse 248 segnalazioni di inizio di attività lavorativa nei 4 mesi che hanno preceduto la dichiarazione di esubero e la conseguente messa in cassa integrazione straordinaria dei dipendenti, con il prepensionamento di poligrafici e giornalisti.
Tra il 2011 e il 2015 sono stati concessi per decreto ministeriale al gruppo editoriale Gedi e alla Manzoni spa 187 prepensionamenti di poligrafici e 69 di giornalisti, mentre per altri 554 lavoratori sono stati attivati contratti di solidarietà. Il direttore dell’Inps accludeva anche la scheda di ciascuno dei dirigenti che sarebbero stati demansionati a quadro per permettere loro di accedere al pensionamento anticipato.

L’iniziativa di Cioffi arrivava dopo una serie d’informative interne che gli organismi centrali e regionali dell’Inps si scambiano fin dall’aprile del 2012. Tra silenzi e solleciti di verifiche, il rimpallo all’interno dell’istituto va avanti da anni. Le ispezioni avviate hanno investito anche altri gruppi editoriali, come la Mondadori, il gruppo Riffeser e del Sole 24 Ore (gruppi estranei all’indagine).
A dare notizia della presenza dei finanzieri nelle proprie sedi, ieri, è stato lo stesso gruppo Gedi. “L’ufficio del personale del Gruppo – scrivono in una nota – sta fornendo piena collaborazione agli inquirenti per consegnare copia dei fascicoli dei dipendenti demansionati e trasferiti. La Società fa sapere di avere piena fiducia nell’operato della magistratura e si dice certa di dimostrare la assoluta regolarità delle pratiche di accesso alla cassa integrazione e al prepensionamento”.

giovedì 22 marzo 2018

Perché Franco Gabrielli sbaglia a difendere chi ha coperto i torturatori di Genova. - Giovanni Drogo


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Il sostituto procuratore di Genova Enrico Zucca accusa i vertici della Polizia di difendere chi coprì i torturatori del G8 di Genova, il capo della Polizia risponde che non ci sono torturatori nella Polizia e che le parole di Zucca sono oltraggiose. Gabrielli però dimentica troppe evidenze per potersi offendere.


«Chi ha coperto i nostri torturatori ora è al vertice della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?» così aveva commentato il caso di Giulio Regeni il sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca. Il riferimento era evidentemente alla decisione di nominare Gilberto Caldarozzi ai vertici dell’Antimafia (e di promuovere a questore il vicequestore Adriano Lauro). La tesi è semplice: Caldarozzi è stato condannato a tre anni e otto mesi per falso (mai scontati) con sospensione per cinque anni dai pubblici uffici per aver collaborato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare chi venne pestato dagli agenti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001.
Genova nel 2001 ci fu tortura.
Ma che c’entra Regeni? Il parallellismo tra i torturatori di Regeni e le violenze compiute dalla polizia durante il G8 di Genova riguarda proprio la tortura. Per quello che è successo alla Diaz l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per violazione delle norme sulla tortura. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato l’Italia per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz e le violenze commesse dagli ufficiali di polizia a Bolzanato. Ed è per questo che Zucca ha detto che «Noi violiamo le convenzioni è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici». Secondo Zucca infatti «La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza».
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Nella sentenza la Cassazione scrisse che a Caldarozzi e gli altri condannati “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Successivamente il Ministro dell’Interno Marco Minniti  ha nominato Caldarozzi Vice direttore tecnico operativo della Direzione Investigativa Antimafia. Sempre secondo la Cassazione l’ex capo del Servizio centrale operativo della polizia (SCO) si «è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici». Quando qualche mese fa esplose la polemica per la scelta di nominare Cadarozzi all’Antimafia i vertici della Polizia si giustificarono dicendo che non si trattava di una promozione e che non era stato possibile “procedere ad alcuna forma di destituzione”. La sentenza dice che il comportamento di Caldarozzi fu degno dei peggiori regimi, non è un mistero che in molti considerino l’Egitto un regime antidemocratico. Il parallelismo, con tutti i limiti del caso, è lecito.

Quando Gabrielli diceva che se fosse stato il capo della Polizia durante il G8 di Genova si sarebbe dimesso per il bene della Polizia.

Franco Gabrielli non ha gradito l’uscita di Zucca definendole “parole oltraggiose”: «mi risuonano ancora più oltraggiose le parole di chi non più tardi di ieri ha detto che ai vertici della Polizia ci sono dei torturatori». In realtà Zucca ha detto che ai vertici ci sono persone che “hanno coperto i torturatori” e la sentenza a carico di Caldarozzi parla chiaro. Ogni giorno – prosegue Gabrielli – «i nostri uomini e le nostre donne garantiscono serenità, sicurezza e tranquillità. Ed in nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita, chiediamo rispetto. Gli arditi parallelismi e le infamanti accuse, qualificano soltanto chi li proferisce». Nel frattempo il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, ha avviato accertamenti preliminari sul sostituto procuratore generale di Genova. E il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha dichiarato che quella di Zucca «è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata».

"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso" - Carlo Bonini
"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso"

Il capo della Polizia: "Un'infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato".

ROMA - Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare. Ma il tempo del G8 di Genova è come fosse rimasto ibernato a quei giorni di luglio di sedici anni fa. Lasciando che la ferita torni a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sulla tortura.

La Diaz, Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani sono una scimmia assisa sulla cattiva coscienza del Parlamento, che sui fatti e sulle responsabilità di quei giorni rinunciò a indagare con i poteri della commissione di inchiesta in due successive legislature preferendo pavidamente "attendere" il corso della giustizia penale. Sono un fantasma che non ha mai smesso di abitare il secondo piano della palazzina del Dipartimento della Pubblica sicurezza, gli uffici del capo della Polizia. Dove, in quei giorni di luglio del 2001, era Gianni De Gennaro. E dove è oggi Franco Gabrielli.

"La nottata non è mai passata - dice - A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un'infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori. Dopo dieci anni e dopo le sentenze di condanna definitive per la Diaz e Bolzaneto. Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro".

Vuole metterlo lei "il punto"?
"Diciamo che vorrei provare a dare un contributo. Che, quantomeno, aiuti a creare le migliori condizioni perché questo diventi finalmente possibile".

Magari non è mai stato messo un punto, perché la storia, per diventare tale ed essere consegnata al passato, richiede una memoria condivisa e uno sguardo obiettivo. E il racconto del G8 di Genova non ha né l'una, né l'altro. Non trova?
"Spero non suoni ruffiano, ma il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ebbe a scrivere un qualche tempo fa che l'obiettività, in quanto tale, non esiste. Perché neanche una fotografia riesce ad essere testimone imparziale di un evento".

Dunque?
"Dunque, da capo della Polizia, la sola strada che posso percorrere, la sola obiettività che posso riconoscermi, è dichiarare senza ipocrisie cosa penso di ciò che è accaduto nel luglio del 2001 a Genova e di cosa è accaduto nei sedici anni che sono seguiti. Non fosse altro perché sono nella migliore condizione per farlo".

Perché?
"Perché sono libero".

Libero? Da cosa? Da chi?
"Nella vita non basta essere capaci. Spesso ci vuole fortuna. La mia fortuna di poliziotto è che al G8 di Genova non c'ero. Da dirigente della Digos di Roma, quale ero nel 2001, sarei dovuto essere lì. E dico di più. Sarei molto probabilmente finito nel cortile della scuola Diaz. Ma non andò così. L'Ucigos stabilì che io rimanessi a Roma per lavorare al dispositivo di sicurezza che doveva garantire la visita di Bush subito dopo il G8 di Genova. Questo significa che, oggi, non ho niente o nessuno da difendere. Che ho la stessa libertà, e spero che il paragone non suoni sproporzionato, che avvertii la mattina del 7 aprile 2009 quando da neonominato prefetto dell'Aquila mi trovai a gestire la catastrofe del terremoto. Avevo testa e sguardo limpido. Non avevo un passato che mi zavorrava".

E da uomo libero cosa vede dunque?
"Se dovessi dare un giudizio lapidario, direi che a impedire quella che lei definiva la "costruzione della memoria condivisa" è stata la rappresentazione abnorme e strumentale, spesso speculare e contrapposta, di quanto è accaduto. Le faccio due esempi, tra i molti che potrei fare. È falso - e sottolineo falso - che nell'accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata. La Polizia italiana non è stata perseguitata dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto pensare un pm che, di fronte ad un verbale firmato da 14 poliziotti, scopriva che ad essere identificabili erano solo in 13? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello Stato ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell'ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito. Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il centro-sinistra. Quindi, il problema, non era politico. Ma di una cultura dell'ordine pubblico che scommetteva sul "pattuglione". Una modalità di polizia transitata dalla stagione del centro-sinistra a quella del centro-destra".

CRONOLOGIA FATTI G8

Ma della gestione dell'ordine pubblico a Genova che giudizio dà?
"Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell'ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei "Disobbedienti" di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l'intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito. Fino alla scelta esiziale dell'irruzione nella Diaz".

"La Macelleria messicana".
"Si ritenne, sciaguratamente, con la stessa logica cui prima facevo cenno, quella del "pattuglione", che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un'irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche "prove" per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell'operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni".

Perché?
"Perché, per sua natura, viva Dio, il processo penale accerta singoli fatti e gli attribuisce singole responsabilità. Al processo penale sfuggono quelle che a me piace definire responsabilità sistemiche. Con un effetto paradossale. Che i latini definivano "summum ius, summa inuria": "massima giustizia per una massima ingiustizia". Vale a dire, che per il G8 di Genova abbiamo assistito a condanne esemplari per la Diaz e a condanne modeste per Bolzaneto, dove l'assenza di una norma che configurasse il reato di tortura e l'improvviso evaporare della catena di comando e di responsabilità che aveva posto le premesse per cui una caserma del reparto mobile della polizia si trasformasse in un "garage Olimpo" ha fatto sì che oggi si continui a parlare di Diaz e pochi ricordino Bolzaneto. Dove, lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. Per altro, parlando di Bolzaneto, il destino è curioso. Quella caserma, molti anni fa, fu la mia prima destinazione da poliziotto".

Se capisco bene, lei sostiene che la dinamica processuale ha finito inevitabilmente per trasformare la ricerca delle responsabilità per i fatti di Genova in un'italianissima fiera del "capro espiatorio". Sono volati gli stracci, insomma.
"È così. Ma non lo dico - e lo ripeto a scanso di equivoci - per censurare quelle sentenze o il lavoro della magistratura inquirente che sono arrivati dove potevano arrivare e dove la fisiologia del processo penale gli ha consentito di arrivare. Lo dico perché, a proposito di responsabilità sistemiche, da capo della Polizia, penso sempre che quando in una piazza viene fatto un uso abnorme della forza da parte di un reparto mobile la responsabilità vada cercata non soltanto e non tanto a partire dal singolo poliziotto che ha abusato del suo manganello ma, al contrario, dal funzionario o dal dirigente che ha ordinato una carica che non andava ordinata. Ecco, se parliamo di responsabilità sistemiche e dunque vogliamo storicizzare finalmente il G8 di Genova, io non penso che il singolo agente o funzionario possano funzionare da fusibile del sistema. E che, dunque, in caso di corto circuito, si possa semplicemente sostituire quei fusibili che si sono bruciati e poi serenamente dire "andiamo avanti". Lo ripeto. Se vogliamo costruire una memoria condivisa su Genova, se vogliamo mettere un punto, va colmato lo spread fra responsabilità sistemica e responsabilità penale. Quello che ha fatto sì che alcuni abbiano pagato e altri no".

Magari facendo il nome del convitato di pietra di questa conversazione. Gianni De Gennaro, allora capo della Polizia.
"Non ho nessuna difficoltà a farlo, anche se ci lega un antico rapporto personale. E tuttavia con una premessa, che non è necessariamente una clausola di stile. È sempre complicato e soprattutto rischia di suonare supponente dire quello che qualcun altro avrebbe dovuto fare. Anche perché non sempre si conoscono il contesto e gli equilibri in cui determinate decisioni sono state prese. Detto questo, siccome non ho nessuna intenzione di sottrarmi, perché sono un uomo e un capo della Polizia libero, le dico che se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia. Perché ci sono dei momenti in cui è giusto che il vertice compia un gesto necessario a restituire la necessaria fiducia che un cittadino deve avere nell'istituzione cui è affidato in via esclusiva il monopolio legittimo della forza. E, contemporaneamente, a non far sentire le migliaia di donne e uomini poliziotto dei "fusibili" sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all'apparato".

Quanto hanno contribuito l'arrocco di Gianni De Gennaro e le sue mancate dimissioni a quanto è accaduto negli anni successivi? A quel clima di omertà, di dissimulazione nel percorso di accertamento della verità sul G8, che ha allargato il solco tra la Polizia e una parte significativa dell'opinione pubblica?
"Direi in modo importante. E con effetti di lungo termine. Hanno finito con l'imprigionare il dibattito pubblico in un'irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della Polizia e un partito dell'anti- Polizia. Facendo perdere di vista la verità. Che la Polizia italiana è sana. Che lo è oggi come lo era in quel luglio del 2001. E lo posso dire perché io sono cresciuto in questa Polizia. Ne sono figlio. Vede, la maledizione di Genova sta proprio qui. Quel che è accaduto dopo Genova, la mancata risposta alla ricerca delle responsabilità sistemiche ha insieme perpetuato il senso di oltraggio nell'opinione pubblica e alimentato le pulsioni che percorrono ogni apparato di Polizia, a qualsiasi latitudine. Il riflesso istintivo a rifiutare di farsi processare, a immaginarsi o peggio viversi come un "corpo separato". È un livello di "tossicità" assolutamente governabile, proprio di ogni polizia democratica e che, come ripeto in ogni occasione ai miei poliziotti, va sorvegliato. Continuamente. E che, proprio per questo, ha assoluto bisogno che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi. A maggior ragione alla vigilia di mesi in cui una parte di quei poliziotti che hanno scontato le loro condanne, penali o disciplinari, chiederanno di essere reintegrati e si consumerà l'iter del risarcimento dei danni alle vittime delle violenze del G8. A maggior ragione, aggiungo, per come io penso e immagino la Polizia che ho il privilegio di guidare".

Come la immagina?
"Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell'opinione pubblica o di quello della magistratura. Una polizia che non deve vivere la mortificazione o lo stillicidio delle sentenze della Corte europea per i diritti dell'Uomo su quei fatti di sedici anni fa. Perché questa è la Polizia che ho conosciuto e che conosco. Io posso solo dire al Paese e alla mia gente, donne e uomini poliziotto, che del lavoro della Polizia sarò io il primo a rispondere. L'ho fatto in questi anni da direttore dell'Aisi, da prefetto dell'Aquila, da capo della Protezione civile e non vedo una sola ragione per non continuare a farlo. Anche perché non ci sarà una nuova Genova".

È una promessa?
"È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell'ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c'è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia".

Dalle stelle una cascata d'oro nella Via Lattea.

Rappresentazione artistica della collisione di due stelle di neutroni (fonte: University of Warwick/Mark Garlick) © Ansa
Rappresentazione artistica della collisione di due stelle di neutroni (fonte: University of Warwick/Mark Garlick)RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA/Ansa.

Prodotta una quantità fino a 13 volte la massa della Terra.


Una quantità di oro fino a 13 volte la massa della Terra si è riversata nella Via Lattea in seguito alla collisione di due stelle di neutroni, ossia fra due stelle nelle quali la materia è così densa da essere considerate l'anticamera dei buchi neri.
La scoperta, pubblicata sull'Astrophysical Journal, si basa sui dati relativi all'evento che nell'agosto 2017 ha generato le onde gravitazionali osservate da oltre 70 strumenti in tutto il mondo. La collisione, avvenuta alla distanza compresa fra 85 e 160 milioni di anni luce, ha prodotto anche una straordinaria massa di metalli pesanti. E' stata ad esempio generata una quantità di europio fino a cinque volte la massa della Terra.
Elementi preziosi e rari, come l'oro e l'europio, si creano quando avviene il processo chiamato 'cattura rapida dei neutroni', nel quale il nucleo di un atomo assorbe velocemente un gruppo di neutroni in modo da raggiungere una struttura stabile prima che la sua radioattività decada. Finora, però, non era chiaro il processo che alimentasse le fabbriche cosmiche degli elementi pesanti e il dibattito finora è stato molto acceso tra gli studiosi.
Una delle ipotesi additava le possibili fabbriche nelle supernovae, ossia nelle stelle che esplodono quando giungono al termine del loro ciclo vitale; l'altra ipotesi, confermata dalle misure appena pubblicate, indicava invece le fabbriche cosmiche nella fusione di stelle di neutroni. Queste ultime sono stelle estremamente dense e caratterizzate da una rotazione molto rapida. Sono quello che resta dell'esplosione di supernove e
per questo motivo nel momento in cui nascono hanno una temperatura altissima, che gradualmente si riduce fino ad abbassarsi di un milione di gradi dopo 100.000 anni.