martedì 4 gennaio 2022

Il Pd e gli ex: pochi posti, tanti in corsa. - Antonio Padellaro

 

Pochi sono i chiamati perché pochi saranno gli eletti: il detto evangelico rovesciato può essere la vera (e poco confessabile) ragione delle rispostacce piovute dal Pd sul figliol prodigo Massimo D’Alema. Che nell’auspicare il ritorno al Nazareno di Articolo 1, la frangia di sinistra uscita quattro anni fa perché bullizzata da Matteo Renzi, ha usato la frase giusta al momento sbagliato.

Infatti, affermare come ha fatto l’ex leader Maximo, che il renzismo era stata la malattia da cui fuggire, proprio perché vero ha suscitato la finta indignazione dei renziani rimasti nel Pd. In realtà finalizzata a molestare, una volta di più, il segretario Enrico Letta. Ma è stata soprattutto l’occasione di un vade retro, poiché il possibile rientro armi e bagagli dei fuoriusciti accrescerà l’affollamento degli aspiranti candidati quando, presto o tardi, arriveranno le elezioni.

Un sempiterno problema acuito dal robusto taglio dei parlamentari che riguarda adesso l’intero arco partitico. Comprensibile quindi che i numerosi trasferimenti in atto di girovaghi e frontalieri della politica – ex forzisti alla corte della Meloni, ex italovivi ed ex grillini dove capita – in genere non venga accolto nei luoghi di approdo con entusiasmo per le stesse motivazioni di cui sopra. Un si salvi chi può che nel caso di Articolo 1 porterebbe nel Pd pochi voti, ma alcuni nomi piuttosto ingombranti.

Se nel caso di D’Alema parliamo di un personaggio che si è ritagliato un meritato ruolo di padre nobile della sinistra, e da lì non si muove, un rientro di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza potrebbe creare seri problemi di competizione interna. Il primo per la notevole popolarità che ha saputo conservare, per la schiettezza tutta emiliana con cui dice pane al pane assai apprezzata nei decisivi salotti tv (in confronto allo stile non proprio frizzante di Letta). Come ministro della Salute che ha combattuto la pandemia, il secondo è molto salito in visibilità e sondaggi e nel governo non c’è ministro Pd capace di tenergli testa. Si chiama concorrenza, altro che malattia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/04/il-pd-e-gli-ex-pochi-posti-tanti-in-corsa/6444508/?fbclid=IwAR1WAs5u1H3X1aqd6PFGQhBiqK48d3fBrlLcaFMtyqOSyfwhz0Gg65eYjuE

domenica 2 gennaio 2022

I Nordisti dell’anno da Letizia-Quirinale all’Orietta “naziskin”. - Gianni Barbacetto

 

E a fine 2021 incoroniamo dunque i “Nordisti dell’anno”, i personaggi che hanno meglio (o peggio?) rappresentato quella che è considerata l’area più ricca e propulsiva del Paese.

Letizia Moratti. Dopo essere stata sindaco di Milano, ministra, presidente della Rai, è riemersa come vicepresidente della Regione Lombardia e assessore al Welfare, chiamata per far dimenticare i disastri di quel buontempone di Giulio Gallera. Ha varato una riformetta della sanità regionale che non risolve alcuno dei problemi messi in evidenza dalla pandemia. E adesso è candidata a tutto: a succedere ad Attilio Fontana come presidente della Regione, ma anche a Mattarella come presidente della Repubblica: l’ha lanciata per primo Luigi Bisignani, dall’alto delle sue condanne e del curriculum P2. Non l’aiuta l’inchiesta in corso sul petrolio “sporco” della famiglia Moratti (con soldi finiti perfino all’Isis) e il brutto conflitto d’interessi di quand’era presidente Ubi e finanziava l’azienda del marito.

Attilio Fontana. Il presidente della Lombardia ha finanziato invece l’azienda della moglie e del cognato: è la brutta vicenda dei camici e altro materiale di protezione anti-Covid in cui Fontana si è incartato, prima trasformando un acquisto in donazione e poi pagando con soldi suoi: ma arrivati da conti milionari all’estero che nessuno conosceva e che il tapino ha così rivelato al mondo.

Giuseppe Sala. Rieletto sindaco di Milano al primo turno. Ma, a ben guardare le cifre, con la più bassa partecipazione elettorale mai vista in città. Ora è alle prese con la grana San Siro: la vicenda dello stadio Meazza, da abbattere per permettere a un fondo Usa e una società cinese di salvarsi dal fallimento con una mega-speculazione immobiliare su terreni pubblici. Come finirà?

Massimiliano Fedriga. A Roma era “il leghista gentile”. Poi è tornato a Trieste a fare il presidente del Friuli Venezia Giulia. Fedriga non ha mai cercato di assomigliare al capo del suo partito, Matteo Salvini, ha sempre preferito i toni pacati e la sua autonomia, in politica e nello stile di comunicazione. Nella Trieste diventata capitale dei no vax, si è più volte dichiarato favorevole alla vaccinazione anti-Covid e all’adozione del Green pass rafforzato. Risultato: minacce, lettere minatorie, scritte ostili sui muri. Così ora è costretto a vivere sotto scorta. In campagna elettorale aveva fatto un paio di promesse (“Due disastri a cui dovremo porre rimedio”) che aspettano di essere mantenute: aumentare i posti letto e l’assistenza sanitaria sul territorio; e azzerare la riforma degli enti locali che aveva trasformato quattro province in 18 Uti, Unioni territoriali intercomunali, accrocchi politici non elettivi.

Anonimo No-Tav. Dopo che il Frecciarossa ha iniziato a competere con il Tgv francese per unire Milano e Parigi ad alta velocità sulla linea già esistente, qualcuno ci spiega a che cosa serve il tunnel che vorrebbero scavare in Val di Susa?

Orietta Berti. Non ho mai capito se ci è o ci fa, ma l’Oriettona merita un posto in questa classifica. Dopo un’onorata carriera al suono di Fin che la barca va, ha lampi di genio quando chiama “Naziskin” i Måneskin e “Baby Gay” Baby K. Tutt’altro stile, l’Orietta, rispetto a un’altra collega emiliana, quella Iva Zanicchi che dopo aver fatto la pasionaria berlusconiana è riuscita a tornare in tv e a stonare in maniera clamorosa “Prendi questa mano, zingara…”. Orietta riesce invece a dare ancora il meglio di sé in trio con il Fedez e l’Achille Lauro, cantando una canzoncina (Mille) che piace tanto ai bambini ma a ben ascoltare è un inno gioioso e trasgressivo alla droga e al sesso (fluido, com’è di moda oggi).

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/12/31/i-nordisti-dellanno-da-letizia-quirinale-allorietta-naziskin/6441700/

L’ultima intervista a Borsellino e i dubbi che ancora restano. - Peter Gomez

 

Inutile girarci intorno. La vera storia dell’ultima, o meglio della penultima, intervista a Paolo Borsellino in cui il giudice parla di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e del boss Vittorio Mangano è da sempre l’anello mancante nelle indagini sulle stragi di mafia del 1992.

In questi anni, mentre Berlusconi e Dell’Utri venivano messi sotto inchiesta e poi archiviati, pm, investigatori e giornalisti si sono spesso chiesti se quell’intervista, mai mandata in onda fino al 2000, abbia rappresentato la miccia che convinse Cosa Nostra a uccidere Borsellino solo 57 giorni dopo Falcone. Un’accelerazione, decisa da Totò Riina e confermata da molti pentiti, insensata dal punto di vista logico. Perché far saltare in aria Borsellino meno di due mesi dopo la morte del suo amico Giovanni, come era perfettamente prevedibile, avrebbe spinto lo Stato a reagire con forza inaudita e a instaurare il 41-bis, il cosiddetto carcere duro per i mafiosi. Detto in altre parole, gli investigatori si sono domandati se per caso qualcuno nella primavera-estate del ’92 abbia avvertito il gruppo Berlusconi dell’esistenza del filmato (l’intervista a Borsellino è del 19 maggio, Falcone muore il 21) e se poi Dell’Utri o altri abbiano parlato di quelle dichiarazioni con qualche esponente dei clan.

L’interrogativo è diventato ancora più pressante in questi ultimi anni dopo che, nel 2016, il boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato in carcere, si è lasciato sfuggire con un amico l’ormai celebre frase “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”. Adesso, grazie a uno scoop de L’Espresso, sull’intervista sappiamo qualcosa in più. Fabrizio Calvi, che con Jean Pierre Moscardo incontrò Borsellino per conto della pay-tv francese Canal plus, ha raccontato ai colleghi del settimanale quanto gli confidò, con imbarazzo, Moscardo. Secondo Calvi, un emissario di un manager del gruppo Fininvest offrì 1 milione di dollari per avere quel filmato e altre 50 ore di girato che dovevano far parte di un documentario su Berlusconi e la mafia. Calvi e Moscardo oggi sono morti. Non è insomma possibile sapere se l’offerta (sempre che ci sia realmente stata) risalga al ’92 o agli anni successivi, quando le parole di Borsellino rappresentavano un tassello importante delle indagini che avrebbero portato alla condanna di Dell’Utri per fatti di mafia. E nemmeno si può sapere se la proposta sia stata accettata.

In attesa che le Procure tentino di fare chiarezza, noi però ci facciamo un’altra domanda. Meno da questurini e più da giornalisti. Ma come diavolo è possibile che Canal plus abbia deciso di non mandare in onda l’intervista? Nell’estate del ’92, in tutto il mondo, tv e giornali non parlavano d’altro che degli attentati di Cosa Nostra contro Falcone e Borsellino. Ovunque venivano mandati in onda servizi su servizi. La scelta di tenere quell’intervista in un cassetto, sebbene in quel momento rappresentasse uno scoop mondiale, è qualcosa che cozza contro qualsiasi logica editoriale e giornalistica. Per questo contiamo che nei prossimi giorni qualche collega chieda a Canal plus una spiegazione ufficiale. E per ora ci limitiamo a questo commento: gli scoop non vanno mai tenuti nei cassetti. Perché altrimenti chiunque è autorizzato a pensare che quello non sia stato giornalismo, ma solo una manovra oscura o peggio ancora un ricatto.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/12/29/lultima-intervista-a-borsellino-e-i-dubbi-che-ancora-restano/6439842/

Mattarella, un addio esplicito e solare. - Antonio Padellaro

 

“Eravamo così poveri che a Natale il mio vecchio usciva di casa, sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa e diceva: spiacente ma Babbo Natale si è suicidato”.

Jake LaMotta

In una notte di San Silvestro, se possibile più mesta del Natale descritto da Jake LaMotta, abbiamo provato viva solidarietà e un pizzico di sincera compassione per i colleghi costretti a chiosare il messaggio presidenziale che da quando viene celebrato riserva le stesse sconvolgenti sorprese della cerimonia del Ventaglio, con la differenza che in quel periodo dell’anno fuori fa caldo.

Infatti, venerdì sera, la diretta dal Quirinale non ha fatto che confermare la mirabile sintesi “testo breve, bandiere e sobrietà” con cui i giornali avevano titolato alla vigilia, sbadigliando. La colpa non è naturalmente di Sergio Mattarella (o dei suoi predecessori) ma di un’attesa assolutamente fuori luogo poiché nel redigere l’augusto testo gli amanuensi addetti alla bisogna avranno cura di espungere qualsiasi riferimento al mondo delle cose reali, fosse pure una virgola malandrina. Onde evitare, il giorno successivo, quelle puntute precisazioni con cui l’ufficio stampa del Colle è impegnato a scoraggiare qualunque goffo tentativo di trovare il classico peluzzo nell’uovo.

Faremo dunque preventiva ammenda per esserci scossi dal benefico sopore dopo quell’invito di Mattarella all’unità nazionale, alla solidarietà, e al patriottismo che avevamo incautamente inteso come un possibile viatico per l’elezione di Mario Draghi. Un plebiscito, insomma, che unisse i buonisti di Fratoianni ai patrioti della Meloni, un po’ come la grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa. Niente da fare perché prima ancora che potessimo articolare una supposizione il tuono rimbombò di schianto e tra capo e collo ci giunse la preventiva smentita degli uffici.

Dunque per dare un senso a questo scritto formuleremo un apprezzamento e un auspicio. Bene, perché giunto al termine del settennato, il commiato di Sergio Mattarella non poteva essere più chiaro, evidente, esplicito, solare. Il più fermo e cortese “giù le mani” rivolto a coloro che insistono a tirarlo per la giacca (pensiamo che ne abbia diritto, al posto della giacchetta corta di maniche che gli mettono addosso) affinché si faccia rieleggere. L’auspicio riguarda invece il tradizionale pistolotto rivolto ai “giovani”. E qui rivolgiamo un accorato appello al prossimo presidente affinché l’anno prossimo ci risparmi il piagnisteo su ciò che si doveva fare e non si è fatto nei secoli dei secoli per questa categoria quanto mai indistinta e scalognata. Anche perché temo che i “giovani”, la sera del 31, non siano all’ascolto (mentre può darsi che stiano sparando a Babbo Natale).

https://ilfat.to/3JyG5Dc

Nuda proprietà. - Marco Travaglio

 

Siccome dopo le Feste siamo tutti più buoni e soprattutto ieri non uscivano i giornali, abbiamo letto i pensierini per il nuovo anno del direttore dell’Huffington Post, Mattia Feltri, affascinati dal titolo “Solo Berlusconi e Letta possono salvare Draghi (e l’Italia)”. L’idea del tutto inedita che B. possa salvare non solo Draghi, ma financo l’Italia intera, ci ha spronati ad avventurarci nella prosa feltriana. E tutto ci è apparso chiaro già dall’incipit: “Due persone possono salvare il Paese dal disastro di sottrarre il Quirinale a Mario Draghi, con la conseguenza di sottrargli anche il governo…”. Orrore: qualcuno, forse uno spirito maligno, più probabilmente un complotto demoplutogiudaicomassonico, vuole “sottrarre il Quirinale” a Mario nostro e, quel che è più grave, “sottrargli anche il governo”. Ma si può? Che notizia. Noi, gente semplice, ci eravamo abituati all’idea – propalata per tutto l’anno dal gruppo Gedi, editore del sito clandestino – che Draghi dovesse restare a Palazzo Chigi fino al 2023, lasciando sul Colle un Mattarella o un Amato a ore come scaldasedia e scaldaletto. Ma poi anche dopo (previa abolizione delle elezioni), almeno fino al 2028 o meglio ancora a vita. Poi si è scoperto dalla sua viva voce, alla vigilia di Natale, che s’è già stufato di governare, dunque ritiene compiuta la missione. E ambisce a passare a miglior vita, ma sempre su questa terra: traslocando da Palazzo Chigi al Quirinale.

A quel punto i Cavalieri Gedi si sono un po’ disuniti: alcuni lo vorrebbero ancora lì, imbullonato a Palazzo Chigi contro la sua volontà; altri ritengono “un disastro” non accontentarlo aviotrasportandolo al Quirinale che – apprendiamo or ora – è già di sua proprietà. Ma c’è chi vorrebbe “sottrarglielo” col tipico esproprio proletario. Siccome però, non contenti, gli anonimi scippatori vorrebbero pure “sottrargli il governo”, ne deriva che Draghi, zitto zitto, s’è comprato pure Palazzo Chigi. Tutto fra Natale e Capodanno. E noi vorremmo tanto conoscere l’agenzia immobiliare, i compromessi e i rogiti, l’entità degli anticipi, le forme di finanziamento, i dettagli dei mutui (Banca d’Italia? Montepaschi? Antonveneta? Goldman Sachs?), ma soprattutto sapere quale sia la prima casa e quale la seconda. Secondo voci non confermate, la seconda è il Quirinale, che presenta le incertezze tipiche del villino al mare o dello chalet in montagna, dove si va quando capita, in base agli impegni e al tempo che fa. Altri sostengono che Draghi, per Palazzo Chigi, abbia fatto valere l’usucapione (sia pure di undici mesi scarsi) e che del Quirinale abbia acquistato solo i muri, per non insospettire l’anziano inquilino: la nuda proprietà, insomma, rinviando l’usufrutto a tempi migliori. Anzi, Migliori.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/02/nuda-proprieta/6442944/

I giudici di larghe intese e B. che si ritira, poi cambia idea. - Marco Travaglio

 

2012, 11 gennaio. Primo scandalo sul nuovo governo Monti: si dimette il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Malinconico per una storia – svelata dal Fatto – di vacanze all’Argentario da 20.000 euro pagate dal costruttore Piscicelli per conto della “cricca”. Qualcosa cambia, nello stile di governo. In Parlamento, invece, tutto come prima.

12 gennaio. La Camera salva dall’arresto per la seconda volta in un anno Nicola Cosentino, per cui i giudici di Napoli hanno di nuovo disposto la custodia cautelare, stavolta per riciclaggio con l’aggravante camorristica: determinanti i voti pro Cosentino dei radicali eletti nel Pd e della Lega Nord. La Corte costituzionale boccia i referendum promossi da Antonio Di Pietro, Arturo Parisi e Mario Segni per abolire il Porcellum e ripristinare il Mattarellum: le firme di 1.210.466 cittadini che speravano di tornare a scegliere i propri parlamentari finiscono nel cestino.

25 febbraio. Processo Mills a carico di Berlusconi per corruzione giudiziaria del testimone: grazie alle manovre dilatorie della difesa e dei giudici, il Tribunale di Milano salva la tregua politica delle larghe intese e dichiara la prescrizione del reato (scattata il 15 febbraio, cioè da appena dieci giorni). Le motivazioni della sentenza saranno firmate dalla sola presidente Giovanna Vitale, segno evidente del dissenso delle due giudici a latere.

2 marzo. Al vertice europeo del Ppe, Berlusconi confida ai suoi che al segretario del Pdl e suo delfino designato Angelino Alfano “manca un quid e soprattutto la storia”.

9 marzo. Anche la Cassazione salva il clima di larghe intese evitando che una sentenza possa turbare la “tregua” e annulla con rinvio a un nuovo appello la condanna di Marcello Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. I giudici ritengono provati i suoi rapporti con Cosa Nostra dai primi anni 70 al 1977 e dal 1982 al ’92, ma non nel quinquennio intermedio. Dell’Utri, fuggito a Santo Domingo alla vigilia del verdetto per paura di finire in carcere, può rientrare serenamente in Italia. Anzi, in Senato.

13 giugno. La Procura di Palermo, a fine inchiesta, deposita gli atti sulla trattativa Stato-mafia e si accinge a chiedere il rinvio a giudizio per 12 indagati. Sei per Cosa Nostra: Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca, Cinà e Massimo Ciancimino. E sei per lo Stato: gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il senatore di FI Marcello Dell’Utri e gli ex ministri Dc Calogero Mannino e Nicola Mancino. Sono tutti accusati di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, tranne Mancino che risponde “soltanto” di falsa testimonianza. Il presidente Napolitano scatena la guerra ai pm, trascinandoli addirittura dinanzi alla Consulta, perché hanno intercettato sui telefoni di Mancino diverse chiamate con l’ex ministro, con il consigliere del Colle Loris d’Ambrosio (trascritte e depositate agli atti) e alcune anche con il capo dello Stato in persona.

23 giugno. La Procura di Milano indaga il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, per corruzione: si parla di tangenti dal gruppo Maugeri (e, in seguito, dal San Raffaele).

27 settembre. Napolitano chiede “provvedimenti di clemenza”: amnistia o indulto.

24 ottobre. Berlusconi annuncia che non si ricandiderà alla presidenza del Consiglio e fissa per il 16 dicembre le elezioni primarie del centrodestra per designare il suo successore. Che, secondo il suo entourage, dovrebbe essere Alfano.

26 ottobre. Nel processo sui diritti Mediaset, il Tribunale di Milano condanna Silvio Berlusconi per frode fiscale a 4 anni di reclusione (3 coperti da indulto) e a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici. L’intermediario-prestanome Frank Agrana è condannato a 3 anni, Fedele Confalonieri assolto. Il Cavaliere tuona: “Condanna politica, incredibile e intollerabile, da Paese barbaro e incivile”.

28 ottobre. Pessime notizie per il Cavaliere anche dalle Regionali in Sicilia: i suoi acerrimi nemici 5Stelle diventano il primo partito (14,9%), mentre il Pdl perde 20 punti racimolando soltanto il 12,9. Per effetti della legge elettorale regionale, che premia le coalizioni e le liste civetta, diventa presidente il candidato del centrosinistra Rosario Crocetta.

6 dicembre. Berlusconi fa annunciare da Alfano che si ricandida a premier per il centrodestra e che le primarie sono annullate.

7 dicembre. Berlusconi manda avanti Alfano a dichiarare “conclusa l’esperienza del governo Monti”. L’indomani Monti si dimette e Napolitano, anziché rinviarlo al Parlamento per istituzionalizzare la crisi, accetta le sue dimissioni e scioglie le Camere un mese prima della scadenza. Poi anticipa anche le elezioni comunali e regionali di primavera, per tenerle insieme a quelle parlamentari nell’Election Day del 24-25 febbraio 2013. Così avrà ben due mesi per gestire il dopo-voto prima di dover lasciare la poltrona al successore, visto che il suo mandato “scade” a metà aprile.

31 dicembre. Il Parlamento approva definitivamente il decreto anticorruzione della ministra della Giustizia Paola Severino, votato da tutti i partiti: 480 sì e 19 no alla Camera, 256 sì e 7 no al Senato. Contro la corruzione fa poco o nulla di nuovo (anzi, la norma che spacchetta la concussione, scorporandone la fattispecie per “induzione” e trasformandola nel reato minore di “induzione indebita”, finirà per favorire Berlusconi nel processo Ruby). Ma contiene una norma dirompente che dichiara decaduti dal mandato e ineleggibili per 6 anni i condannati definitivi a pene superiori ai 2 anni. È una versione light della proposta “Parlamento Pulito” lanciata al VDay del 2007 da Beppe Grillo e fatta propria dal Movimento 5 Stelle. Berlusconi, dando il via libera di FI alla legge nella speranza di arginare l’avanzata “grillina”, non sa che sarà il primo a farne le spese.

2013, 4 gennaio. Il premier dimissionario e senatore a vita Mario Monti, che aveva sempre negato di volerlo fare, presenta la sua lista di centro, “Scelta civica”, in alleanza con i finiani di Fli e l’Udc di Casini. Napolitano, che aveva pubblicamente escluso una discesa in campo del suo premier tecnico, ora lo sponsorizza. Tuoni e fulmini invece, da tutti i palazzi e i giornali, contro gli arrembanti 5Stelle. Ma anche contro il nuovo movimento di sinistra Rivoluzione Civile, fondato dall’ex pm Antonio Ingroia (che assorbe Idv, Verdi, Comunisti italiani, Rifondazione e Arancioni di De Magistris), che su pressione del Colle si vede negare l’apparentamento dal Pd di Pierluigi Bersani, alleato della sola Sel di Nichi Vendola. Complici i nuovi scandali che mandano in coma il Monte dei Paschi di Siena, è l’ennesimo suicidio del centrosinistra. Che, prima di sposare il governo Monti, era strafavorito in tutti i sondaggi.

(25 – continua)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/02/i-giudici-di-larghe-intese-e-b-che-si-ritira-poi-cambia-idea/6442951/

sabato 1 gennaio 2022

Vaccini, la Befana vien con l’obbligo, vero o mascherato da Super green pass. - Giacomo Salvini

 

L'EREDITÀ DI DRAGHI - È certa l'estensione ai lavoratori della Pubblica amministrazione dell'obbligatorierà del siero. Ieri gli uffici tecnici di Palazzo Chigi e del ministero della Salute si sono messi a studiare la nuova norma. Conte: “Subito i ristori”.

“Abbiamo fatto molte cose buone, auguri a tutti”. Chiudendo il Consiglio dei ministri che aveva appena approvato le nuove misure per contenere il dilagare della variante Omicron, mercoledì sera, Mario Draghi ai ministri ha dato l’impressione di aver concluso il suo compito da capo del governo. Però poi, dopo il duro litigio tra Lega e M5S e il fronte rigorista di Pd, Leu e Forza Italia, il premier ha annunciato un nuovo provvedimento a inizio anno: “Approveremo il Super green pass per il lavoro nel prossimo Cdm”. La data è cerchiata: il 5 gennaio. Intanto se il pass rafforzato per trasporti e ristoranti entrerà in vigore dal 10 gennaio fino al 31 marzo, le nuove norme sulla quarantena (che cessa con un tampone) dovrebbero valere da oggi con la pubblicazione del decreto in Gazzetta ufficiale. Inoltre, sarà introdotto un prezzo calmierato per le mascherine Ffp2. Giuseppe Conte chiede “ristori subito” per le attività colpite e un nuovo scostamento di bilancio.

Draghi però ha fretta: avrebbe voluto inserire l’obbligo del vaccino anche per i lavoratori già mercoledì, ma l’asse tra Giancarlo Giorgetti e Stefano Patuanelli glielo ha impedito. Chi ha partecipato alle riunioni con il premier però ha avuto la netta sensazione che l’estensione massima del certificato verde – o in alternativa l’obbligo vaccinale – sia l’eredità che Draghi vuole lasciare prima di affrontare l’elezione del presidente della Repubblica. Una misura che vorrebbe dire obbligo vaccinale di fatto perché imporrebbe a tutti i lavoratori di immunizzarsi. Il tampone, insomma, non basterà più.

Così da ieri gli uffici tecnici di Palazzo Chigi e del ministero della Salute si sono messi a studiare la nuova norma. Certa è, su spinta del ministro di FI Renato Brunetta, l’introduzione dell’obbligo di vaccino per i lavoratori della Pubblica amministrazione. Oggi l’obbligo vaccinale riguarda il personale sanitario, le forze dell’ordine e il personale scolastico. L’intenzione di Draghi, però, è anche quella di applicare il pass rafforzato anche per i settori del privato. Il timore del premier, mercoledì, era quello di far andare in tilt alcune filiere come quella dell’agricoltura e dell’edilizia ma ieri da Palazzo Chigi facevano sapere che sarebbe difficile distinguere le categorie dei lavoratori. Con ogni probabilità, il decreto del 5 gennaio introdurrà un tempo cuscinetto per dare tempo ai lavoratori di vaccinarsi. Resta aperto invece il nodo dei controlli e delle sanzioni: più facili nel pubblico impiego, più complicati nel settore privato. Su questo e sui dubbi tecnici del provvedimento, da lunedì Draghi parlerà con i sindacati e le imprese per capire come la pensano. Cgil e Confindustria preferirebbero l’obbligo vaccinale tout court. Ipotesi difficile ma non esclusa nel governo. Ieri, su Repubblica, lo ha proposto il segretario del Pd Enrico Letta, a cui ha risposto positivamente la ministra forzista Mariastella Gelmini: “Siamo favorevoli sia all’obbligo che al Super green Pass”. Il M5S preferirebbe l’obbligo vaccinale per non escludere disoccupati e pensionati.

Resta da convincere la Lega. Che, come spesso accaduto in questi mesi, ha una doppia faccia. La prima è quella dei presidenti di Regione guidati da Massimiliano Fedriga e Luca Zaia, che mercoledì mattina erano stati i primi a chiedere al governo di estendere il pass al lavoro; la seconda è quella di Matteo Salvini che ha imposto il suo “no” al suo capodelegazione in cabina di regia Giorgetti. Il numero due del Carroccio però ha precisato che la Lega non è pregiudizialmente contraria ma l’obbligo del pass rafforzato dovrà essere accompagnato da una “lista dei lavoratori fragili esenti”, si dovrà prevedere una forma di risarcimento per danni da vaccino ed “eliminare la manleva”, ossia il consenso informato da firmare per immunizzarsi. Una mediazione, alla fine, si troverà. Forse l’ultima del governo Draghi.

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