Jean-Paul Fitoussi, rileggendosi, s’è spaventato dell’aggettivo usato nell’intervista ad Antonello Caporale per definire Emmanuel Macron: “imbecille”. Ma, per quanti sforzi facciamo, non riusciamo a trovarne uno più appropriato per definire il suicidio del presidente francese, eletto trionfalmente all’Eliseo un anno e mezzo fa e ora già da buttare come un Renzi qualunque. Si è trattato di un suicidio assistito dalle élite non solo di Francia, ma un po’ di tutta Europa e soprattutto d’Italia (quando c’è una causa cretina da sposare, il nostro establishment politico-economico-mediatico-intellettuale è sempre in prima fila). Tutti a magnificare il Genio Transalpino, il nuovo santo patrono dell’Europa dopo San Francesco d’Assisi, l’ultimo baluardo della Ragione e della Civiltà contro la barbarie del populismo sovranista. E lui ci ha creduto, passando i suoi primi 18 mesi a tagliare le tasse ai ricchi e a lasciare a bocca asciutta i poveri, cioè a fare ciò che più o meno tutti i governi di centrodestra e di centrosinistra han fatto negli ultimi vent’anni, convinti com’erano che, con la fine delle ideologie, anzi della Storia, l’unica ricetta possibile fosse quella di lasciare mano libera ai mercati e alle imprese, che avrebbero provveduto a creare sviluppo e posti di lavoro. Purtroppo questa ricetta poteva funzionare (e non sempre) nell’èra della spesa pubblica à go go e della piena occupazione, prima del Fiscal compact, della globalizzazione, della robotizzazione, delle migrazioni di massa e della crisi del 2009. Ma dopo, cioè ora, è un fallimento totale.
L’hanno capito per prime le destre antieuropee, che hanno archiviato le fascinazioni neoliberiste per riabbracciare il protezionismo, il nazionalismo e il welfare, facendo man bassa di milioni di voti delle periferie sociali. Solo in Italia i primi ad accorgersene non sono state le destre, prigioniere dell’incantesimo berlusconiano, ma un comico-attivista, tale Beppe Grillo, e un tecno-guru, tale Gianroberto Casaleggio, che dal 2007 hanno provato a incanalare il malcontento degli invisibili prima verso un Pd rinnovato (un ossimoro), poi verso Di Pietro e infine, respinti su entrambi i fronti, in un nuovo movimento post-ideologico, né di destra né di sinistra per etichetta ma molto progressista per programma. La reazione dell’establishment è nota: prima ha snobbato i 5Stelle come ribellismo fine a se stesso (“il partito del vaffa”, “la protesta”, “il neo- qualunquismo”), poi l’ha demonizzato come fascismo, autoritarismo, giacobinismo, avventurismo e vai con gli -ismi. Anche quando il M5S era ormai il primo partito.
Nel 2013 a pari merito col Pd, nel 2018 da solo al 32,5%. “Siamo l’unica alternativa democratica alle Le Pen e ad Alba Dorata”, ripeteva Grillo. Ma nessuno lo stava a sentire. E giù a ridere sul reddito di cittadinanza, il salario minimo, la legalità, l’ambientalismo, la lotta al precariato, ai privilegi della casta e alle grandi opere inutili. Intanto battaglie simili diventavano le bandiere delle nuove sinistre occidentali: Sanders in America, Corbyn in Gran Bretagna, Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna, i Verdi in Germania. Basta leggere i commenti sprezzanti che i nostri giornaloni, intellettuali, (im)prenditori e vecchi politici riservano tuttora al reddito di cittadinanza. Una misura di puro buonsenso che, chiamata e declinata in vari modi, esiste in tutto il resto d’Europa per colmare un vuoto occupazionale ed esistenziale figlio della globalizzazione, dell’automazione, dell’austerità e della crisi post-2009: i posti di lavoro continueranno a diminuire, perché le imprese preferiranno sempre più i robot e la manodopera a basso costo dei migranti e dei Paesi senza diritti. Dunque, per evitare crolli dei consumi e rivolte sociali che mettano a repentaglio le economie e i governi, sarà decisivo redistribuire risorse e protagonismi dall’alto verso le crescenti masse di nullatenenti e invisibili.
Di questo parlano in tutto il mondo i veri leader politici, i veri economisti, i veri intellettuali (leggete e regalate le strepitose 21 lezioni per il XXI secolo di Yuval Noah Harari, ed. Bompiani). Da noi fa scandalo che il governo Conte destini 7-8 miliardi l’anno – meno di quelli buttati da Renzi per gli 80 euro o per gli incentivi al Jobs Act – per dare un reddito e un volto a 5 milioni di poveri assoluti. Invece non fa scandalo gettare 10-15 miliardi in un buco di 60 km per far passare un treno merci ad alta velocità accanto a quello che già da decenni viaggia vuoto all’80-90%. E si continua a menarla con gli sgravi e gli aiuti alle imprese. Come se non avessimo già regalato abbastanza soldi alla classe macro-imprenditoriale più fallimentare e parassitaria del mondo. Perché Macron, degno spirito-guida dei nostri Micron, scoprisse l’esistenza dei poveri, c’è voluta la rivolta dei gilet gialli. E ora tutti a elogiarlo per quella che viene spacciata per una “svolta” epocale in favore degli invisibili di Francia, mentre è una penosa resa senza condizioni. Chi volesse capire perché gli invisibili d’Italia non scendono in piazza dovrebbe ammettere che siamo l’unico Paese d’Europa che li ha portati al governo, a causa di quel curioso disguido accaduto il 4 marzo e chiamato elezioni. Si può dire e pensare tutto il peggio possibile di questo governo. Ma solo chi non capisce nulla può seguitare a considerarlo un bizzarro incidente di percorso, una stravagante parentesi da chiudere al più presto (per fare che, dopo?). Se 5 Stelle e Lega sono al governo è proprio perché hanno promesso reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni. Ora le élite italiane ed europee devono scegliere: meglio che i giallo-verdi mantengano gli impegni o che anche le piazze italiane si riempiano di gilet, magari non gialli, ma neri?
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