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mercoledì 11 giugno 2014

Usura, indagati vertici Bnl, Unicredit, Mps. Ci sono anche Tarantola e Saccomanni.

Usura, indagati vertici Bnl, Unicredit, Mps. Ci sono anche Tarantola e Saccomanni

L'inchiesta è stata chiusa dalla Procura di Trani. Tra le 62 persone alle quali la Guardia di Finanza di Bari sta notificando l’avviso di fine indagine ci sono l'attuale presidente della Rai, all'epoca dei fatti capo della Vigilanza di Bankitalia, e l'ex ministro dell'Economia, allora dg di via Nazionale. La lista comprende anche Luigi Abete, Alessandro Profumo, Federico Ghizzoni, Giuseppe Mussari, Francesco Gaetano Caltagirone.
I tassi applicati erano più alti di quelli concordati. Per questo la procura di Trani contesta ai vertici di alcuni importanti istituti di credito italiani il reato che di solito si applica alla criminalità comune o anche organizzata: l’usuraNella fattispecie si tratta però di concorso in usura bancaria: quella che consiste nell’applicare tassi di interesse sui prestiti superiori rispetto alle soglie fissate ogni tre mesi dalla Banca d’Italia. Così nel registro degli indagati della piccola procura pugliese – già protagonista di inchieste clamorose come quelle sulle agenzie di rating –  sono finiti non solo i vertici (in alcuni casi ex) di Bnl, Unicredit, Mps e Banca popolare di Bari (Bpb), ma anche il presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, in qualità di ex capo della Vigilanza di Bankitalia, e il ministro dell’Economia del governo Letta Fabrizio Saccomanni, ex dg di via Nazionale. Sessantadue, in tutto, i destinatari dell’avviso di fine indagine.
Nel registro degli indagati i vertici di Bnl, Mps, Unicredit. Hanno ricevuto l’avviso di fine indagine per usura il presidente del cda di Bnl Luigi Abete, l’ad Fabio Gallia, l’ex vicepresidente Piero Sergio Erede e il presidente del collegio sindacale Pier Paolo Piccinelli. Per quanto riguarda Unicredit sono sotto inchiesta l’ex ad Alessandro Profumo, ora presidente di Mps, l’attuale ad Federico Ghizzoni, il vicepresidente vicario Candido Fois, l’ex presidente Dieter Rampl e il dg Roberto Nicastro. Coinvolti anche Paolo Savona, ex presidente del cda di Unicredit Banca di Roma, Mario Fertonani, ex presidente di Unicredit Banca d’Impresa, e Piergiorgio Peluso, figlio dell’ex Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, nella sua precedente qualità di ad di Unicredit Banca d’Impresa. Per Mps sono indagati l’ex presidente Giuseppe Mussari e il suo vice Francesco Gaetano Caltagirone, per la Banca Popolare di Bari l’attuale presidente del cda e ad, Marco Jacobini, l’ex presidente Fulvio Saroli e il dg Pasquale Lorusso.
Per il ruolo avuto in Bankitalia sono indagati anche l’ex direttore generale Vincenzo Desario e gli ex capi della Vigilanza succedutisi nel tempo: Francesco Maria Frasca, Giovanni Carosio, Stefano Mieli e Luigi Federico Signorini. Per il ministero dell’Economia è indagato Giuseppe Maresca, a capo della quinta direzione del dipartimento del Tesoro. A loro, oltre che a Tarantola e Saccomanni, viene contestato di avere – tra il 2005 e il 2012 – adottato consapevolmente determinazioni amministrative in contrasto con la legge sull’usura fornendo un “contributo morale necessario” ai fatti-reati di usura “materialmente commessi dalle banche”.
Vittime dei tassi usurai imprenditori del barese. Il reato di usura (bancaria) continuata ed aggravata sarebbe stato commesso dalle banche ai danni di alcuni imprenditori del barese nell’ambito di finanziamenti concessi prevalentemente sotto forma di anticipazioni su conto corrente. Per il pm inquirente, Michele Ruggiero, il reato di usura è stato compiuto dagli organismi di governance e di controllo delle banche con il concorso morale degli ex vertici di Bankitalia e del dirigente del ministero del Tesoro Maresca. Secondo l’accusa questi ultimi, contravvenendo alle disposizioni della legge sull’usura, prescrivevano alle banche di calcolare gli oneri dei finanziamenti concessi in rapporto al credito ‘accordato’ anziché (come richiesto dalla legge) a quello effettivamente ‘erogato/utilizzato’ dal cliente. Queste indicazioni – su cui del resto anche la Corte di Cassazione si è espressa, nel 2013, smentendo le circolari di via Nazionale – permettevano alle banche di elaborare tassi effettivi globali (i cosiddetti Teg) falsati. Cioè più bassi di quelli effettivamente praticati. Di conseguenza, stando alle indagini della Guardia di Finanza, gli interessi applicati dalla banche alla clientela per determinate categorie di finanziamenti (in forma di anticipazioni su conto corrente) risultavano sempre entro i limiti dei ‘tassi soglia’  pur essendo in concreto superiori e, come tali, usurari. Bnl, secondo i conteggi della pubblica accusa, avrebbe lucrato in questo modo oltre 53mila euro, il gruppo Unicredit più di 15mila, Mps circa 27mila euro mentre la Banca Popolare di Bari solo 296 euro.
Unicredit: “Infondato l’impianto accusatorio”. 
“Unicredit ritiene infondato l’impianto accusatorio“. Così l’istituto di credito replica al provvedimento della Procura di Trani che vede tra gli indagati per usura anche il suo amministratore delegato Federico Ghizzoni. La banca sottolinea quindi di riporre “piena fiducia nell’operato dell’organo giudicante e confida che, come è avvenuto in casi analoghi che hanno interessato e interessano l’intero settore bancario, venga riconosciuta l’assoluta correttezza dell’operato”.

lunedì 3 febbraio 2014

Se..... - Sergio Di Cori Modigliani




"Alla violenza inaudita del potere contro il M5S non si risponde abboccando, ma tramutando la rabbia in azioni intelligenti e inattaccabili che deridono il potere: senza insulti volgari ( perche' loro vogliono insulti volgari ), con uno sberleffo ironico, un sorriso di compatimento, il silenzio di chi li ignora, perche' e' necessario andare oltre. Questa e' una guerra ( prima di tutto psicologica) che si combatte e si vince senza violenza, con l'intelligenza, la forza di volontà, contro-informando. Loro ti danno del "violento"? sii ancora più pacifico; ti danno del "volgare" ? sii ancora più educatamente spietato nel denunciare le loro malefatte.... "

          Matteo Incerti , capo ufficio stampa gruppo parlamentare al senato di M5s




Secondo la presidente della Camera dei Deputati, onorevole Laura Boldrini, io sarei un potenziale stupratore. Ha dichiarato pubblicamente che lo sono tutti i frequentatori del blog di Beppe Grillo. Il che consente, legalmente, al commissario di polizia del mio quartiere, nella città dove risiedo e abito, di poter aprire una cartellina "informativa" sulla mia persona e sulla mia attività, perchè rappresento un pericolo sociale per la comunità. E' a rischio anche la mia compagna, se non altro sono a rischio i suoi nervi, essendo la convivente di un potenziale stupratore ma allo stesso tempo avendo scoperto che le istituzioni della Repubblica considerano anche lei un potenziale stupratore. 
Una new entry sociale esistente soltanto in Italia: da ieri sera hanno stabilito che anche le cittadine italiane di sesso femminile sono potenzialmente delle stupratrici. Una novità sociologica che può aprire una stagione di profondi dibattiti antropologici. E' la modalità con la quale la terza carica istituzionale dello Stato vive e interpreta il Senso delle pari opportunità di genere.

Basterebbe questo per qualificare la nostra Repubblica come un paese anormale.
No comment.

Ma se invece, l'Italia, fosse un paese normale, di che cosa si parlerebbe oggi?
Di che cosa avremmo parlato, discusso, litigato, dibattuto e argomentato nelle ultime due settimane?
Quali sarebbero stati i titoloni, oggi, sulle prime pagine dei quotidiani?.

Ecco come si vivrebbe in un paese normale:
A caratteri cubitali, sulla prima pagina, avremmo trovato la notizia del giorno:


Confindustria: è scontro industriali-governo
Gli imprenditori vanno all'attacco dell'esecutivo, lamentando i mancati pagamenti dei crediti alle imprese e denunciando la violazione della normativa Ue. Giorgio Squinzi dichiara: "O si cambia passo o il governo se ne va e andiamo subito al voto".

Poichè non siamo un paese normale, la dichiarazione del Presidente di Confindustria non ha meritato nessuna attenzione da parte della cupola mediatica, sia cartacea che televisiva. Vanno, invece, a caccia dei potenziali stupratori seriali.

Io scelgo, invece, di fingere di vivere in un paese normale, e quindi mi occupo della questione principale di cui si occuperebbero tutti in Usa, in Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Cekia, ecc.
Da cui la prima domanda: perchè e come mai un solido imprenditore, noto per la sua caratura razionale, moderata, diplomatica, con grande esperienza di gestione dei rapporti industriali con il mondo della politica italiana, fa il salto della quaglia, e annuncia l'autentico teatro dello scontro in atto -preavviso di una furiosa battaglia- facendo intendere che non soltanto è falso sostenere che la crisi è finita e risolta, ma addirittura fornisce cifre, date e dati, in netta opposizione a quelli rilasciati dal governo? Perchè questo attacco frontale?
C'è un motivo.


Ed è l'occhio del ciclone che l'oligarchia al potere non vuole che si veda.
Tantomeno vogliono che se ne parli.
A questo serve l'arma di distrazione di massa (e per le masse) che ha lanciato il nuovo gioco sociale, immediatamente divenuto un trend collettivo sui social network, introdotto dal suo eccezionale testimonial istituzionale: tu a quale categoria di stupratore appartieni?

Giorgio Squinzi è un professionista italiano di successo, un imprenditore "normale". 
Produce oggetti che poi vengono venduti e consumati: si chiama attività industriale. Rappresenta gli interessi di coloro che sono gli unici a poter avviare la ripresa del paese, perchè sono gli unici a essere in grado di inventare ciò di cui l'Italia ha bisogno: lavoro e occupazione. Da cui deriva il profitto -per chi rischia il capitale- e il reddito -per i salariati che lavorano- producendo un meccanismo automatico di circolazione della moneta reale che abitualmente fa ripartire il volano del consumo interno, e quindi alimenta la diffusione di benessere, consentendo la ripresa del ciclo economico. E gli industriali italiani hanno capito che questo governo porterà in brevissimo tempo il paese verso il totale fallimento perchè ha scelto la strada esattamente opposta a quella necessaria da percorrere per far riprendere l'economia: togliere risorse finanziarie alle imprese e spostarle nel campo della finanza.

Un tempo, gli imprenditori italiani erano legati a doppio filo alla classe politica, e le loro sorti erano vicendevoli, con i sindacati e le istituzioni che fungevano da intercapedine per gestire le diseguaglianze sociali, e fare in modo di aumentare la ricchezza collettiva allargandolo a uno spettro sempre più ampio di popolazione. Non è più così.
E' la ragione principale per cui l'attuale classe dirigente governativa non è in grado di prospettare in alcun modo una politica industriale e una strategia di impiego: non le interessa.

Il mondo dell'imprenditoria non è più legato alla politica.
La politica viene ormai foraggiata dalla finanza che si è impossessata del mercato, e ha trasformato le istituzioni governative in mere centrali operative di interessi finanziari decisi altrove, al di fuori dell'Italia. La prova lampante di ciò che è accaduto nelle ultime settimane sta proprio nel varo della nuova legge su Bankitalia, e sulla scelta della presidente della Camera di applicare la cosiddetta ghigliottina, considerandola una "normativa di importanza strategica per il funzionamento dello Stato". 
Come mai questa improvvisa emergenza? 
C'era tutta questa fretta? 
Poteva essere avviato un dibattito in aula, su quella legge? 
Perchè, proprio adesso, invece di rimandarla a dopo e intanto dibattere sulle riforme?

C'è un motivo, ed è quello di cui non vogliono che noi parliamo.
E' una vecchia conoscenza: si chiama Monte dei Paschi di Siena.
Si sapeva che il caso sarebbe finito in parlamento.
E così è stato.
E' avvenuto nella maniera peggiore: all'italiana.

E' iniziato tutto a Bruxelles, circa tre mesi fa, quando la apposita commissione europea ha stabilito che la banca senese doveva rispettare gli obblighi presi con il precedente governo Monti e doveva restituire -con gli interessi dovuti- i 4 miliardi di euro avuti nell'autunno del 2012. Erano i soldi della rata dell'Imu che finirono in Mps. La commissione finanza europea ha inviato una lettera alla Banca d'Italia, una al governo, una specifica al Ministero del Tesoro. Siccome si trattava di una questione formale e sostanziale che era pubblica (non c'era nulla di segreto) ha rilasciato anche una nota ufficiale a disposizione dell'ufficio stampa. 
Lì è intervenuto il governo italiano. 
Gli ha impedito che la nota venisse diffusa.
Ha fatto in modo che la commissione di Bruxelles non rendesse pubblica la vicenda (in realtà apparentemente irrilevante) e hanno cominciato a discutere della vicenda. A Bruxelles si sono insospettiti e hanno avviato una procedura di controllo. Come è andata a finire? 
Ecco la risposta: il governo, il Ministero del Tesoro, il Ministero delle Finanze e il Ministero degli Interni, hanno provveduto a iscrivere l'intera questione patrimoniale relativa alla Banca Monte dei Paschi di Siena sotto la dizione "Segreto di Stato". 
E a Bruxelles sono stati costretti a fermarsi per non provocare un incidente diplomatico.

Va da sè che a nessun italiano è stata detta neppure una parola, nè tantomeno c'è stato nessun giornalista (soprattutto quelli economici) che ha diffuso la notizia. Perchè il buco di Mps si è allargato a dismisura, diventando un gigantesco calderone che ha coinvolto l'intero sistema bancario nazionale. Non solo. La banca avrebbe dovuto dimostrare come dove quando e per quanto aveva utilizzato i 4 miliardi di euro ricevuti dallo Stato, perchè così prevedeva la clausola della commissione europea finanze che aveva consentito a Monti di avviare il prestito. Poichè è diventato un "segreto di Stato", la banca, adesso risponde soltanto al Ministero degli Interni, a quello della Difesa e al Presidente della Repubblica. 
Fine dei giochi.

In un paese normale si sarebbe avviata una interpellanza parlamentare basata sul principio "ce lo chiede l'Europa". 
Non da noi.
Una volta messa la toppa grazie all'imbavagliamento dell'Europa (che cosa ci avranno chiesto in cambio per accettare?) Saccomanni è andato a elemosinare presso le grandi banche. Perchè, oltre alla mancata restituzione dei Monti bonds c'era anche l'aggiunta del fatto (e qui entra in gioco il nostro bravo Squinzi) che dei famosi 40 miliardi di euro "ufficialmente" stanziati nel marzo del 2013, divenuti poi -così aveva dichiarato Saccomanni- "20 immediatamente" il 30 giugno 2013 e poi altri 20 miliardi "entro e non oltre il 30 settembre 2013" da destinare ai crediti dovuti alla piccola e media industria, ebbene....non è arrivato neppure un euro. Nada de nada.
Nel frattempo sono fallite diverse migliaia di aziende e quindi è diminuito il gettito fiscale per lo Stato e le banche hanno iniziato ad accumulare perdite per crediti inesigibili. Poichè il sistema bancario italiano è -per l'appunto- "italiano", cioè anormale, ovvero non esiste la concorrenza tra le banche (nonostante in teoria siano aziende private) ma sono tutte interconnesse tra di loro dato che possiedono giornali, televisioni, fondazioni, e sono i proprietari delle esistenze della classe dirigente politica,  si passano debiti e crediti tra di loro a seconda di come gira il vento. Queste banche sono venute a battere cassa allo Stato che ha avuto la bella pensata di varare il fantomatico decreto legge che ha dato inizio la scorsa settimana alla rissa parlamentare. 
In tal modo, Banca Intesa si è trovata diversi miliardi di euro da poter spalmare tra tutte le banche del consorzio politico e nel calcolo degli azionisti (nuovi proprietari di Bankitalia) ci sono finiti anche il gruppo Allianz (tedesco) e altri importanti gruppi italiani (solo di firma) che appartengono alle banche tedesche.
Che cosa ha fatto Banca Intesa non appena ha saputo che la Boldrini aveva dato il via al decreto legge? Ha dato ordini ai propri dirigenti di avviare il credito alle imprese come aveva promesso a Squinzi?
Nient'affatto.

Si è fatta i conti e ha calcolato che ha un buco di ben 55 miliardi di euro di cui nessuno aveva mai parlato: è la cifra ufficiale (lo ripeto a scanso di equivoci: ufficiale) che la seconda banca nazionale italiana ha accumulato sotto la ipocrita voce "crediti in sofferenza"; questa locuzione drammatica, tradotta in termini reali vuol dire "debiti dovuti da imprenditori che nel frattempo si sono suicidati, oppure sono falliti, oppure sono scappati via oppure sono rovinati".
E così ha deciso di "inventare" una Bad Bank, un'idea diabolica della tecnica bancaria: una banca virtuale che assorbe tutte le perdite sulle quali costruire un bel derivato speculativo, per cui sulla carta il debito scompare perchè lo ha "acquistato" una banca terza.

Ecco perchè era fondamentale per il governo italiano votare quel decreto.
Ecco perchè era fondamentale per il governo italiano che nessuno dibattesse.
Ecco perchè seguita a essere fondamentale per il governo italiano che la cittadinanza si occupi e si preoccupi degli stupratori seriali piuttosto che dei propri conti correnti.
Ecco perchè è fondamentale evitare che esista in maniera attiva un pericoloso gruppo parlamentare come quello di M5s che, all'improvviso, e in un qualunque momento, può rompere le uova nel paniere al sistema bancario italiano legato a doppio filo all'attuale dirigenza politica.
Ecco perchè Squinzi è insorto.
Gli hanno spiegato che l'industria italiana che complessivamente accusa un credito di ben 116 miliardi di euro dovuti non ne vedrà neppure uno, non vedranno neppure un dollaro, neppure una sterlina, neppure uno yuan, neppure una corona danese. 
Lo Stato è al servizio delle proprie Istituzioni politiche, le quali sono alimentate e foraggiate da un circuito di corruttela continua e permanente, gestito dai consorzi bancari attraverso il meccanismo perverso delle fondazioni che le controllano, e quindi i soldi di Bankitalia non finiranno sul mercato dei capitali per avviare l'economia, bensì rimarranno all'interno di un circuito chiuso i cui garanti guardiani sono i deputati nominati che votano a comando.

Di tutto ciò ne hanno parlato soltanto due testate: Il Fatto Quotidiano in Italia (articolo pubblicato in data 2 Febbraio 2014) e il britannico Financial Times che annuncia agli investitori internazionali il varo della Bad Bank di Banca Intesa, grazie ai soldi ottenuti.

Questo è il teatro nel quale ci muoviamo.
Ditemi voi: che cosa c'entrano i potenziali stupratori?

Ecco, qui di seguito, il succinto commento di Marin Arnold e Rachel Sanderson apparso sul Financial Times di ieri che sta provocando in borsa l'emorragia dell'intero sistema bancario nazionale e poi, a seguito, il pezzo -davvero ottimo- a firma Giorgio Meletti, pubblicato l'altro ieri su Il Fatto Quotidiano.

Buona lettura, cari stupratori seriali.



Intesa move reignites ‘bad bank’ debate
By Martin Arnold in London and Rachel Sanderson in Milan. 
February 2nd 2014

Intesa Sanpaolo is working on plans to become the first Italian lender since the financial crisis to set up an internal “bad bank” by setting aside a chunk of its €55bn of gross non-performing loans ahead of banking stress tests by the European regulator. Carlo Messina, Intesa’s new chief executive, and chairman Giovanni Bazoli are expected to discuss the move with shareholders of Italy’s second-biggest bank by market capitalisation in the next few weeks, according to people familiar with the matter. They are due to present their new strategic plan alongside annual results on March 28. Intesa declined to comment.

http://www.ft.com/cms/s/0/d735e96a-8c00-11e3-bcf2-00144feab7de.html#axzz2sG8jhiRw


Monte dei Paschi, il mistero dei bilanci è un segreto di Stato


Monte dei Paschi di Siena

Da due mesi il governo italiano impedisce agli uffici di Bruxelles di rendere nota la decisione con cui la Commissione europea il 27 novembre scorso ha imposto alla banca senese di restituire entro il 2014 tre dei quattro miliardi di aiuti di Stato ottenuti un anno fa. - di Giorgio Meletti

Il documento chiave è secretato. Da due mesi il governo italiano impedisce agli uffici di Bruxelles di rendere nota la decisione con cui la Commissione europea ha imposto il 27 novembre scorso al Monte dei Paschi di Siena di restituire entro il 2014 tre dei quattro miliardi di prestito statale (i cosiddetti Monti bond) ottenuti un anno fa. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni si avvale del diritto di espungere dal testo “informazioni considerate confidenziali”. Un lavoro di sbianchettatura evidentemente laborioso che indica come la vicenda Mps sia ormai affare di Stato.
Il triangolo delle Bermude - Il comunicato emesso lunedì scorso dalla Banca d’Italia lo conferma. Il governatore Ignazio Visco e il direttore generale Salvatore Rossi hanno ricevuto – con un rappresentante del ministero dell’Economia – il presidente di Mps Alessandro Profumo con l’amministratore delegato Fabrizio Viola e il presidente della Fondazione Mps (azionista di controllo della banca) Antonella Mansi con il direttore generale Enrico Granata. Banca, vigilanza e governo – intorno a un tavolo triangolare sempre più somigliante al triangolo delle Bermude – comunicano la loro compattezza: “L’incontro si è svolto in un clima costruttivo, nella responsabile consapevolezza di tutte le parti che il Monte possa continuare a rappresentare una realtà bancaria importante nell’economia del Paese, a condizione di poter contare su un adeguato supporto patrimoniale e su un assetto azionario stabile”. In termini calcistici lo schema di gioco adottato è il catenaccio. Adesso tenete bene a mente l’espressione “adeguato supporto patrimoniale” per capire che cosa c’è sotto.
Tutto comincia nell’autunno del 2011. Lo spread supera quota 500, nasce il governo Monti. L’Eba (European banking authority) ordina a Mps una trasfusione di capitali freschi da 3,3 miliardi di euro. La banca senese è pesantemente esposta sui titoli di Stato italiani, la cui perdita di valore è misurata dall’impennata dello spread. Scatta l’allarme. Il direttore generale Antonio Vigni viene sostituito con un uomo di fiducia della Banca d’Italia, Viola. Il presidente del Monte, Giuseppe Mussari, prima minaccia un ricorso alla Corte di giustizia europea contro la raccomandazione Eba, ma poco dopo si dimette. I suoi amici del Pd senese e nazionale chiamano Profumo.
Per quasi tutto il 2012 il nuovo vertice tratta la crisi Mps come difficoltà fisiologica. Il 9 ottobre 2012, agli azionisti che invocano l’azione di responsabilità contro Mussari, Profumo replica seccamente: “Non abbiamo elementi”. È vero che già dai primi di maggio il Monte dei Paschi è oggetto di perquisizioni a tappeto per l’inchiesta sulla acquisizione della banca Antonveneta, l’operazione del novembre 2007 che segna l’inizio della fine. Ma il 20 giugno Mussari è stato confermato presidente dell’Abi, l’associazione delle banche, all’unanimità. E, soprattutto, il 9 ottobre Profumo non ha elementi, però il 10 ottobre Viola scova in fondo a una cassaforte in uso al suo predecessore Vigni l’ormai celebre mandate agreement, la prova che inchioderebbe Mussari, oggi a processo per ostacolo alle autorità di vigilanza. Nei giorni scorsi la dirigente della Consob Guglielmina Onofri ha testimoniato al tribunale di Siena che gli uomini di Viola avevano già trovato il 20 settembre – venti giorni prima – copia di contratto, con l’indicazione che l’originale si trovava in quella cassaforte. Elio Lannutti, presidente dell’associazione di risparmiatori Adusbef, ha denunciato Viola per falsa testimonianza.
Per capire tante stranezze va spiegato il mandate agreement. Nel 2009 Mussari sta andando con i conti in rosso sotto il peso della sciagurata acquisizione di Antonveneta, pagata 9 miliardi quando ne valeva forse la metà. Per rinviare i problemi convince Nomura e Deutsche Bank a ricontrattare operazioni che vedono Mps in forte perdita. Le due banche fanno il favore, ma a fronte della ricontrattazione con cui rinunciano ai guadagni di due operazioni (rispettivamente Alexandria e Santorini) ottengono una nuova complicata manovra su titoli di Stato (Btp a scadenza 2034) con cui si rifanno abbondantemente ma a lungo termine, consentendo a Mussari di nascondere per un po’ il buco del bilancio.
Gli ispettori di Consob e Bankitalia notano già a fine 2011 queste operazioni in pesante perdita, ma fare cattivi affari non è vietato. E al processo, incalzati dalle domande della difesa di Mussari, argomentano che senza il mandate agreement, il contratto che appunto lega le due operazioni (Btp 2034 e ristrutturazione Alexandria), l’operazione in Btp restava un’operazione in Btp, anche se somigliava terribilmente a un “derivato sintetico” con perdita automatica incorporata.
Come cambia il pensiero di Profumo - La distinzione è decisiva per capire la portata dell’affare di Stato. L’esistenza del mandate agreement viene rivelata dal Fatto il 22 gennaio 2013, con un articolo di Marco Lillo. Lo scandalo esplode e Mussari si dimette dall’Abi. Due giorni dopo a Siena si svolge un’infuocata assemblea degli azionisti, chiamati a un aumento di capitale da 4,1 miliardi al servizio della eventuale conversione dei Monti Bond. Infatti a dicembre 2012, prima dello scandalo, Profumo ha avuto dal governo Monti un prestito di quell’importo, perpetuo ma convertibile in azioni quando lo decida la banca. Trattandosi di un aiuto di Stato, la Commissione europea dà la necessaria approvazione, provvisoria in attesa di un piano di ritrutturazione della banca. All’assemblea del 25 gennaio, nonostante la fresca scoperta dei derivati nascosti di Mussari, Profumo non perde l’aplomb: “La necessaria richiesta del supporto pubblico si riconduce prevalentemente alla crisi del debito sovrano e solo in misura minore anche alle attività di verifica ancora in corso sulle operazioni Alexandria, Santorini e Nota Italia di cui tutti parlano”. Profumo ha dunque chiesto gli aiuti di Stato lamentando difficoltà esogene, come si dice in gergo, cioè non dovute alla gestione di Mussari ma alla crisi mondiale. Il commissario europeo alla Concorrenza, Joaquin Almunia, se ne ricorderà.
Il 6 febbraio Mps comunica di aver calcolato in 730 milioni la perdita su Alexandria e Santorini. All’assemblea degli azionisti del 29 aprile successivo torna in ballo l’azione di responsabilità contro Mussari, e Profumo sfodera un argomento opposto rispetto a tre mesi prima: “La rilevazione operata a fini Eba a fine settembre 2011 ha evidenziato per la Banca una riserva AFS negativa per 3,2 miliardi circa (di cui 1,2 miliardi imputabili all’operazione Nomura e 870 milioni imputabili all’operazione Deutsche Bank), costringendo la Banca a ricorrere a onerose azioni di rafforzamento patrimoniale”. Dunque le operazioni di Mussari hanno lasciato in eredità un buco patrimoniale di 2,07 miliardi, che Profumo fino a quel giorno aveva ascritto alla “crisi del debito sovrano”.
Qui parte l’attacco di Almunia. A luglio 2013 scrive a Saccomanni (fino a due mesi prima direttore generale della Banca d’Italia) minacciando l’Italia di una procedura d’infrazione sugli aiuti di Stato a Mps. Ai primi di settembre, a Cernobbio, scopre le carte. Prima dichiara che l’aumento di capitale da un miliardo prospettato da Profumo è insufficiente. Poi concorda con Saccomanni che l’aumento dovrà essere da tre miliardi, finalizzati alla rapida restituzione del 74 per cento dei Monti Bond. Strano. Profumo lavora su un rafforzamento patrimoniale da 5,1 miliardi (4,1 di Monti Bond più un miliardo di aumento di capitale). Almunia invece impone di restituire 3 miliardi di Monti Bond, e, siccome un decimo dell’aumento di capitale da 3 miliardi va in spese, la banca ci deve mettere 300 milioni suoi, mentre svanisce anche il miliardo di maggior patrimonio che Profumo voleva chiedere al mercato. Risultato: il di cui sopra “adeguato supporto patrimoniale” scende da 5,1 a non più di 3,8 miliardi, e per Mps non è una bella notizia.
Le ragioni del castigo inflitto da Almunia a Mps – compreso il ridimensionamento da terza banca italiana a banca regionale – sono scritte nel documento che il governo italiano non vuole rendere pubblico. All’assemblea del 28 dicembre scorso l’azionista Giuseppe Bivona, rappresentante del Codacons, ha sostenuto, logica e Trattato europeo alla mano, che Almunia, imponendone la restituzione, ha di fatto bocciato gli aiuti di Stato ai sensi dell’articolo 108 del trattato europeo, secondo il quale una mazzata simile è ammessa se “tale aiuto e` attuato in modo abusivo”. Ma attenzione: la scelta di rimborsare i Monti Bond, indebolendo la banca e ribaltando una decisione di pochi mesi prima, è tutta italiana. Per Almunia andava bene anche la conversione in azioni dei Monti Bond, che avrebbe nazionalizzato il Monte quasi azzerando gli azionisti attuali, a cominciare dalla Fondazione. Per Bruxelles basta che gli azionisti non risolvano i loro problemi con i soldi di Pantalone. Perché dunque gridare in coro “tutto ma non la nazionalizzazione!”, visto che i soldi dei contribuenti erano stati già versati senza rimpianti un anno fa? Forse per evitare che un giorno emergano altre sorprese che – trattandosi di banca controllata dallo Stato – gravino sui conti pubblici. Qui si può solo formulare un’ipotesi, visto che il documento ufficiale è segretato nell’evidente imbarazzo di banca, vigilanza e governo.
Fino a che Mussari era presidente dell’Abi… - Per tutto il 2012 Profumo e Viola, in sintonia con Bankitalia e Consob, non hanno visto i perniciosi derivati del presidente dell’Abi in carica, continuando a battezzarli come operazioni in Btp. Così anche dopo la scoperta del mandate agreement Mps ha continuato a contabilizzare quelle operazioni esattamente come le contabilizzava Mussari, che è sotto processo per ostacolo alla vigilanza ma non per falso in bilancio. Lo ha confermato Viola il 28 dicembre scorso: “In data 10 dicembre 2013, la Consob ha di fatto confermato il trattamento contabile applicato dalla banca, che risulta conforme ai principi contabili IAS/IFRS ed è stato concordato con i revisori esterni Kpmg sino al 2010 e Ernst & Young dal 2011”. È quel “di fatto” a segnalare una continuità quantomeno sospetta. Infatti, a dimostrazione di una situazione confusa, la stessa Consob ordina a Mps anche di allegare al bilancio i cosiddetti prospetti pro-forma, che mostrano il bilancio come sarebbe se quelle operazioni in Btp fossero considerate derivati: con miliardi di euro che vanno e vengono da una partita all’altra. Adesso l’unico obiettivo del triangolo Mps-Bankitalia-governo è portare a casa al più presto l’aumento di capitale da 3 miliardi: eviterebbe le insidie della nazionalizzazione e coprirebbe tutto, prima che dal nuovo esame europeo di fine anno (in gergo asset quality review) emerga un nuovo fabbisogno di capitale. O che dal documento secretato di Almunia i mitici mercati scoprano qualche scomoda verità.

sabato 7 dicembre 2013

Evasione fiscale, il Vaticano non rivela i nomi. E il governo mette la dogana. - Marco Lillo

Vaticano


Da mesi l'Autorità di informazione finanziaria della Santa Sede rifiuta di collaborare, anche sul fronte del riciclaggio. In due anni sono state 3669 le dichiarazioni non presentate. In riposta a un'interrogazione del M5S, seguita a un'inchiesta del Fatto, il ministero dell'Economia annuncia che l’Agenzia delle dogane "ravvisa l’opportunità" di sorvegliare "i punti di entrata e di uscita" con lo Stato pontificio.

Lo Stato Città del Vaticano nasconde all’Italia migliaia di potenziali evasori fiscali o, nella peggiore delle ipotesi, riciclatori di capitali sporchi. Probabilmente all’insaputa di papa Francesco, l’Autorità di informazione finanziaria, Aif, diretta dallo svizzero René Brulhart si rifiuta da mesi di collaborare con l’Agenzia delle dogane e non fornisce all’Italia i nomi delle migliaia di persone che hanno prelevato importi considerevoli in contanti allo Ior e che poi li hanno introdotti nel territorio italiano senza dichiararlo alla Dogana, violando la nostra legge antiririclaggio. Tanto che l’Agenzia sta pensando di rinforzare i controlli alla frontiera.
Il Fatto Quotidiano ha denunciato, senza avere i numeri esatti, questa violazione sotto gli occhi di tutti, da anni, in un articolo del 26 ottobre. Nel silenzio generale, un deputato 27enne del Movimento 5 stelle, Silvia Chimenti, ha presentato un’interrogazione firmata da una dozzina di colleghi del M5S per chiedere al ministero dell’Economia conto di questo scandalo internazionale alla luce del sole. Intanto anche il Fatto Quotidiano ha chiesto all’Agenzia delle Dogane i dati delle dichiarazioni transfrontaliere presentate da chi trasporta contante in entrata sul nostro territorio e in uscita dal Vaticano.
L’agenzia ha risposto al Fatto con un’ammissione sconcertante: in due anni ci sono ben 3669 dichiarazioni non presentate per altrettanti flussi che violano la legge dal Vaticano verso l’Italia. “Il 22 maggio 2013 l’Autorità d’informazione finanziaria della Città del Vaticano ha pubblicato il primo rapporto annuale 2012 sulle attività per la prevenzione e il contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo nel quale è stato reso noto, tra l’altro, il numero delle dichiarazioni valutarie (e non i relativi importi) ricevute, in ingresso e in uscita dal territorio della Città del Vaticano, negli anni 2011 e 2012”. Ecco i dati dell’Aif: nel 2011 ci sono state 658 dichiarazioni in entrata (da Italia a Vaticano) e 1894 in uscita (da Vaticano a Italia) mentre nel 2012 ci sono state 598 dichiarazioni in entrata e 1782 in uscita verso l’Italia.
A questi numeri dovrebbero corrispondere esattamente altrettante simmetriche dichiarazioni alla Dogana italiana. Poiché ogni volta che qualcuno esce dal Vaticano con un importo di contanti superiore a 10 mila euro deve dichiararlo due volte: prima all’Aif dello Stato vaticano poi alla Dogana italiana. E viceversa per i flussi inversi . Come il Fatto aveva scritto, invece, le cose non vanno così: “Presso il competente Ufficio Dogana di Roma I di questa Agenzia – ci ha scritto il direttore dell’Agenzia delle dogane, Giuseppe Peleggi – sono state presentate 3 (avete letto bene: 3 contro 1894, ndr) dichiarazioni in ingresso in Italia nel 2011 e 4 (4 contro 1782, ndr) nel 2012. Mentre le dichiarazioni in uscita sono state 21 (contro 658, ndr) nel 2011 e 13 (contro 598, ndr) nel 2012”. Il direttore Peleggi, rendendosi conto che i due dati dovrebbero essere identici e che l’Agenzia è titolare dei poteri in materia, aggiunge “in relazione alle marcate differenze rilevate dalla lettura dei dati pubblicati a fine maggio 2013, l’Agenzia in data 19 giugno 2013 ha interessato l’Aif per richiedere un incontro, con l’auspicato intervento delle altre amministrazioni nazionali competenti in materia valutaria (Mef, Uif – Banca d’Italia), volto a chiarire gli aspetti legati agli obblighi dichiarativi ed alla connessa azione di monitoraggio e controllo. In risposta, l’Aif ha manifestato interesse riservandosi di far conoscere la propria posizione all’esito dell’esame interno della richiesta”. Poi silenzio.
Ieri il ministero dell’Economia ha risposto, con una nota letta in aula dal sottosegretario del Pd Sesa Amici, all’interrogazione di Silvia Chimenti. E si è scoperto che “l’Agenzia delle Dogane rileva che nessuna ulteriore comunicazione è a oggi pervenuta da parte dell’Autorità vaticana”. In pratica il Vaticano, nonostante l’avvento di papa Francesco, da ben sei mesi non risponde alla richiesta dell’Agenzia delle dogane italiana. I correntisti che hanno prelevato allo Ior valigie di contanti sono stati costretti a riempire il modulo della dichiarazione in uscita perché altrimenti non avrebbero avuto i soldi dalla banca vaticana. Poi in Italia hanno preferito rischiare violando gli obblighi piuttosto che dichiarare il contante. E’ evidente che per il Nucleo Valutario della Guardia di Finanza sarebbe fondamentale avere quell’elenco di 3.660 mancate dichiarazioni in due anni, più quelle che mancheranno nel 2013 ma l’Aif tace. Probabilmente Bergoglio non ha ancora messo mano a quel fortino dei fedelissimi dell’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone. L’Aif è tuttora guidata da un direttore vicino a monsignor Ettore Balestrero(spedito all’estero da Bergoglio) come René Brülhart che percepisce 30mila euro al mese più 5 mila di spese forfetarie, più le note spese, e risiede a Roma solitamente tre giorni alla settimana, mentre il lavoro viene svolto dal suo braccio destro Tommaso Di Ruzza, genero di Antonio Fazio, ex governatore di Bankitalia.
Brülhart, l’uomo che si rifiuta di rispondere alle Dogane italiane, nonostante lo stipendio poco coerente con il nuovo corso francescano e nonostante un potenziale conflitto di interessi (è amministratore di due società estere che non si sa bene cosa facciano) sarà l’uomo decisivo della delegazione del Vaticano alla sessione di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio che da lunedì a Strasburgo farà l’esame alla Santa Sede. La scelta di Brülhart di non consegnare i 3669 nomi dei cittadini italiani o stranieri che hanno evaso il loro obbligo di dichiarazione alla Dogana italiana nel 2011-2012, non sarà certo un bel biglietto da visita. In base al decreto 195 del 2008, tutti i soggetti che trasportano verso l’Italia più di 10 mila euro devono comunicarlo ai funzionari delle dogane. Le sanzioni arrivano fino al 50 per cento dell’importo trasferito senza dichiarazione transfrontaliera.
L’Agenzia auspica che il memorandum firmato il 26 luglio tra l’Aif vaticana e l’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia possa migliorare la situazione. Oggi nessuno rispetta la legge. Tanto che ieri nella risposta all’interrogazione il ministero ha parlato dei controlli più stringenti che stanno per essere adottati alla frontiera tra Italia e Vaticano. L’Agenzia delle dogane “facendo seguito a un’informativa del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza – spiega il ministero – ravvisa l’opportunità di un’attivazione di misure di attenzione nei confronti di tali movimentazioni da attuare sul territorio adiacente i punti di entrata e di uscita con lo Stato del Vaticano, attesa l’assenza di barriere fisiche e di uffici di confine tra i due Stati”.
Silvia Chimenti del M5S ieri in Parlamento ha lanciato un appello al papa: “Il ministero dell’Economia conferma in pieno i nostri sospetti: c’è un disallineamento totale tra il numero di dichiarazioni in entrata e in uscita tra Vaticano e Italia. A questo punto rivolgiamo un appello a papa Francesco che ha già dimostrato la sua volontà di voltare pagina e di improntare il suo pontificato alla massima trasparenza. Chiediamo al pontefice che si adoperi affinché l’Aif fornisca alla nostra Agenzia delle dogane i 1700 nominativi di potenziali evasori che nel 2012 hanno fatto viaggiare indisturbati denaro sporco tra Italia e Vaticano. In questo elenco, vogliamo sottolinearlo, sarebbero stati presenti anche i 456 mila euro di monsignor Scarano: se le autorità italiane ne fossero in possesso, le indagini sarebbero notevolmente facilitate. Il database dell’Aif potrebbe essere girato in pochi minuti alla Dogana o all’Agenzia delle Entrate: con un gesto così semplice il Vaticano fornirebbe un apporto decisivo alla lotta al riciclaggio”.

domenica 25 agosto 2013

Mps-Antonveneta, Mussari spese nove miliardi soltanto con una telefonata. - Giorgio Meletti

Giuseppe Mussari

Nessuno chiese spiegazioni all'allora presidente della banca senese in merito all'operazione che ha affondato la Rocca. Lo stesso avvocato ha detto ai pm di non sapere "come si svilupparono le trattative per l'acquisizione". Dai verbali dell'inchiesta dettagli inquietanti sull'acquisizione: analisi e controlli inesistenti, nomine per opportunità politica. E dirigenti che non parlano l'inglese.

Il 28 luglio 2012, verso mezzogiorno, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari, di fronte all’attonito pubblico ministero Antonino Nastasi e agli increduli maggiore Marcello Carrozzo e maresciallo Tommaso Luongo, detta a verbale la seguente dichiarazione: “Non ricordo come si svilupparono le trattative per l’acquisizione di Antonveneta”. E questo è bello, come diceva “Bisteccone” Galeazzi di fronte a certi rovesci di John McEnroe: l’Italia è quel meraviglioso Paese dove viene osannato ed eletto presidente dell’Abi, l’associazione delle banche, un uomo in grado di spendere oltre 16 miliardi (ovviamente non suoi) con tanta spensieratezza da dimenticarsi come arrivò alla decisione.
E invece è importante capire come andò. Perché, notate bene, nel libero mercato non è reato sfasciare una banca come il Montepaschi facendole comprare un altro istituto per il triplo del suo valore; né è vietato portare la terza banca italiana da 20 miliardi di valore a due. La Procura di Siena, infatti, ipotizza a carico di Mussari, dell’ex direttore generale Antonio Vigni e altri una serie di reati commessi dopo l’acquisto di Antonveneta, nel tentativo di attenuare i tragici effetti della gigantesca fesseria originaria.
Caporetto spensierata
Eppure la classe dirigente italiana dovrebbe riflettere sul perverso equilibrio politico-affaristico che ha consentito a Mussari di spendere 16 miliardi (9 per Antonveneta più 7 per i suoi debiti) con un’attenzione inferiore a quella che avrebbe dedicato all’acquisto (con soldi suoi) di un’auto usata. Il tutto nella distrazione generale, Bankitalia compresa. I magistrati cercano di capire e si vedono sfilare davanti i maggiorenti della banca e delle autorità di controllo, e tutti fanno come le tre scimmiette: non vedevo, non sentivo, non parlavo. Mussari faceva tutto da solo, proponeva e disponeva. L’allora capo della Vigilanza della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola, oggi presidente della Rai, andrebbe presa a simbolo di una classe dirigente tanto supponente quanto impalpabile di fronte alle responsabilità. Ai magistrati che le chiedono come mai Bankitalia – l’unica istituzione che poteva fermare Mussari – ha autorizzato l’incauto acquisto di Antonveneta, racconta un colloquio tra i vertici di Palazzo Koch (compreso l’allora governatore Mario Draghi) e quelli di Montepaschi, durante il quale “ci raccomandammo con i vertici di Mps di fare per benel’acquisizione”. Per bene, dice testualmente. Sembra di vederla la Tarantola che a mani giunte si rivolge a Mussari come al nipotino discolo: “Mi raccomando Giuseppe, 16 miliardi sono sempre 16 miliardi”.
Non è l’unico momento grottesco che emerge dagli atti dell’inchiesta senese. Anzi, la dimensione surreale risulta dominante in questa Caporetto della finanza italiana, avvenuta tra il 6 e l’8 novembre del 2007. Ecco il consigliere d’amministrazione Turiddo Campaini, che rappresenta l’azionista Unicoop Firenze, di cui è presidente dal 1974 (sì, da 39 anni). Campaini è l’uomo che disse no a Giovanni Consorte per la scalata alla Bnl, poi ha pensato bene di buttare qualche centinaio di milioni di euro della cooperazione sul Montepaschi. Dice ai magistrati: “Ho saputo dell’acquisizione di Antonveneta in sede di consiglio di amministrazione in data 8.11.2007. Ricordo che il presidente Mussari o il direttore generale Vigni illustrarono l’operazione. Ci dissero anche che bisognava fare in fretta perché vi era il rischio che l’acquisizione non si facesse. Non ricordo se vidi il contratto di acquisto. Non ricordo se ci fu detto che era stata fatta una due diligence su banca Antonveneta”. Non ricorda niente, se non che diceva sempre .
Il mistero della “due diligence”
Parla Francesco Gaetano Caltagirone, uno degli uomini più ricchi d’Italia, allora azionista e vicepresidente di Mps: “Ho saputo dell’acquisto di Antonveneta in sede di Cda tenutosi il dì 8.11.2007. Ricordo che ci fu comunicato tra le varie (…) Tra l’entusiasmo degli altri consiglieri, io e il consigliere Gorgoni sollevammo qualche perplessità. Ricordo che all’annuncio chiesi, prima di votare, di vedere i documenti. Ricordo che fu fatto tutto molto in fretta. Ci furono dati dei documenti e il contratto di acquisto. La delibera, però, fu presa all’unanimità”. Poi aggiunge: “Non ricordo che durante la discussione in Cda fu fatto riferimento a una due diligence. Normalmente, quando si intende acquistare un’impresa la due diligence viene effettuata. Non sono in grado di dire se in quel caso fu fatta, ovvero se ne fu fatta una successiva”. Non sapendo, votò a favore.
Già, la due diligence. Quando si compra un’azienda, normalmente, si fa un contratto preliminare, poi l’acquirente manda i suoi esperti a scartabellare tutta la contabilità dell’azienda in vendita per verificare la congruità del prezzo stabilito. Stavolta il venditore, il Banco Santander, che poche settimane prima ha rilevato Antonveneta dall’Abn Amro per 6,6 miliardi, la mette giù dura: se Mussari vuole l’Antonveneta se la prende a scatola chiusa. Mussari se la prende. Nessuno fiata. Ecco per esempio che cosa racconta Fabrizio Saccomanni, oggi ministro dell’Economia, allora direttore generale della Banca d’Italia: “È molto probabile che Banca d’Italia abbia detto a Mps che il gruppo Antonveneta andava efficientato poiché l’Istituto non era particolarmente soddisfatto della gestione fatta da Abn Amro”. Quindi Bankitalia sa che la banca comprata non è in gran forma. Però autorizza senza chiedere: “Non ci fu segnalato che Mps aveva acquisito Antonveneta senza fare una due diligence. Devo dire che, per prassi, Banca d’Italia caldeggia sempre, in caso di acquisizioni, la due diligence preventiva”. Bankitalia dunque caldeggia in astratto, in stile Tarantola (“mi raccomando Giuseppe”), ma in concreto non vede, non sente e non parla. Non si preoccupa di niente, autorizza l’acquisto di Antonveneta per 9 miliardi senza rendersi conto delle modalità da bancarella con cui l’operazione viene condotta.
Dice Mussari: “Non ho condotto le trattative per l’acquisizione di Antonveneta e non ho fatto l’offerta di 9 miliardi di euro per il suo acquisto. Le trattative sono state condotte dal direttore generale e dalla struttura tecnica della banca”. Alessandro Daffina, amministratore delegato di Rothschild Italia, che curava per conto di Santander la vendita di Antonveneta, ricorda bene: “Quando ho trattato con banca Mps i miei colloqui erano prevalentemente con Mussari. Solo in poche occasioni era presente anche Vigni. Non era presente alcuno della struttura tecnica della banca”. E allora che cosa faceva la struttura tecnica? Parla Marco Morelli, all’epoca vicedirettore generale di Mps: “Ho avuto notizia dell’acquisizione di Antonveneta la mattina del dì 8.11.2007. Ricordo di essere stato convocato dal direttore generale”. La struttura tecnica non partecipa alla valutazione di Antonveneta, deve solo eseguire, in particolare deve mettere insieme i 9 miliardi. Morelli viene incaricato di trovare subito due miliardi di prestito-ponte presso il sistema bancario internazionale, e così ci regala una preziosa notazione sulla selezione meritocratica nel capitalismo di relazione: “L’incarico che mi fu assegnato avrebbe dovuto svolgerlo il direttore finanziarioDaniele Pirondini. Ritengo che fu assegnato a me poiché Pirondini non parlava inglese”. Ecco le truppe scelte di Mussari: se è vero quanto so-stiene Morelli, dobbiamo dedurre che per la direzione finanziaria di una banca l’inglese non è indispensabile, evidentemente il capitalismo di relazione pretende ben altrirequisiti.
“Bisognava chiudere in fretta”
Lo dimostra la testimonianza di un altro cane da guardia che avrebbe dovuto controllare Mussari, il consigliere Andrea Pisaneschi, uomo di Gianni Letta e Denis Verdini dentro Mps: “Chiedemmo al presidente se potevamo avere del tempo per visionare e studiare il contratto, per valutare con ponderatezza l’operazione. Mussari ci disse che bisognava chiudere in fretta”. Come non detto, niente ponderatezza: “Ci fu chiesto se eravamo d’a ccordo e noi lo rassicurammo”. Poco dopo Pisaneschi diventa presidente di Antonveneta. Spiega tutto ai magistrati Gabriello Mancini, il ragioniere della Asl di Poggibonsi messo alla presidenza della Fondazione Mps, azionista di controllo della banca, in quota Margherita: “Ricordo di avere avuto, in proposito, un colloquio con Mussari il quale indicò Pisaneschi alla presidenza della banca. Egli motivava questa sua indicazione con motivi di opportunità politica e nei seguenti termini: poiché Antonveneta aveva i suoi maggiori interessi in Veneto, regione a forte connotazione politica di centrodestra, era opportuno che il presidente fosse della medesima area politica”. Così adesso sappiamo a che tipo di due diligence dedicavano il loro tempo Mussari e i suoi sodali.
E che cosa dice il venditore, Emilio Botin-Sanz De Sautuola Garcia De Los Rios, d’ora in poi per brevitàBotin? Il presidente del Santander è uomo che va per le spicce: “Non ci furono riunioni con i rappresentanti di Mps per negoziare la vendita di Antonveneta, ma si trattò tutto per telefono (…), due o tre volte con Mussari”. Ma c’era davvero questa offerta di Bnp che giustificava la fretta indiavolata di Mussari? Lo sostiene Daffina di Rothschild: “Botin intratteneva rapporti diretti solo con Bnp Paribas interloquendo direttamente con Baudoin Prott (il numero uno della banca francese)”. L’interessato dice di non aver mai parlato con Prott e che dell’offerta Bnp lo sapeva da Rothschild, perché lui “non parlò con nessuno di Bnp, né nessun’altra persona della Banca Santander parlò con i manager di Bnp”.
Piange il telefono
E dunque, alla seconda o terza telefonata con Mussari, Botin dice “9 miliardi, risposta entro 48 ore, prendere o lasciare”, e Mussari, racconta Botin, “tentò di abbassare il prezzo ma lui era consapevole di essere in una posizione ottima per mantenere il prezzo, dato l’enorme interesse che il compratore aveva”. Mussari tenta il colpaccio di cavarsela con 8 miliardi, Botin non molla. Tutto al telefono, in pochi minuti, miliardi che vanno e vengono come se trattassero lo sconto su un paio di scarpe. Mussari dirà poi al mercato che “il corrispettivo per l’acquisto dell’intero capitale di Banca Antoveneta è stato concordato tra Mps e Banco Santander nell’ambito di un processo negoziale competitivo”, una frase priva di senso su cui, ovviamente, la Consob non ha neppure chiesto spiegazioni. E intanto la classe dirigente al gran completo (azionisti, amministratori, sindaci revisori, autorità di controllo e, naturalmente, politici) si preoccupavano solo di spellarsi le mani inneggiando alla grande operazione, già pronti a dire un giorno, eventualmente, che loro non ne sapevano niente.