lunedì 26 marzo 2012

Quando Benedetto XVI vola… - di Michele Martelli




Quando è sull’aereo, e vola alto nel cielo, al di sopra delle nuvole (ma con un aereo dell’Alitalia pagato da noi, un altro otto per mille in altra forma), papa Benedetto XVI si sente forse più vicino alla Verità di Dio di quanto lo sia sulla terraferma. Fa ricordare “l’Occhio di Dio” racchiuso nel triangolo sopra le nubi tipico delle figurine devote diffuse nelle parrocchie. Da lassù, forse crede di vedere tutto e meglio. Perciò parla, e molto. E, sia detto senza irriverenza, spesso a sproposito.

Come quando, in volo per l’Africa, si esibì nel memorabile “discorso del preservativo”: peccato grave usarlo, anche se sei malato di Aids, anche se sai che, se non lo usi, infetti mortalmente la donna e il nascituro. Ecco dove giunge l’ossessione del peccato carnale, che il furioso sessuofobico Agostino insufflò nella Chiesa, e di cui è erede anche Benedetto XVI, peraltro studioso e grande estimatore del santo.
Ma veniamo all’ultimo volo celeste del papa teologo. Quali, questo volta, le sue memorabili sentenze? Due, l’una legata all’altra in un groviglio di contraddizioni.

1) «La Chiesa non è un potere politico, non è un partito ma non rinuncia alla sua missione. La Chiesa sta sempre dalla parte della libertà, libertà di coscienza, di religione. Anche la politica però deve essere una realtà morale ed è in questo che la Chiesa ha fondamentalmente a che fare con la politica. Il primo compito è educare le coscienze sia nell’etica individuale, sia nell’etica pubblica».

“La Chiesa non è un partito, non è un potere politico”? È molto di più. Il suo capo è Benedetto XVI: qualche premuroso giornalista sull’aereo poteva ricordarglielo? Quello stesso Benedetto XVI che è anche il monarca dello Stato Vaticano: perché questa amnesia generale, tutta italiota? Dunque, la missione del papa a Cuba e in Messico, è, e non potrebbe essere diversamente, politica e religiosa al tempo stesso. Va a difendere la libertà religiosa, di coscienza? Ma di chi? In Messico, e a Cuba (almeno, a quanto sembra, dopo la storica visita di Wojtyla), nessuno la mette in dubbio. Ma allora che senso ha rivendicarla recandosi in missione in quei due paesi?

E poi, se la libertà religiosa va difesa, domanda lapalissiana per un laico, credente o non credente che sia, perché non difenderla, o meglio, perché non introdurla anche nello Stato Vaticano, dove c’è una sola religione che è religione di Stato, e tutte le altre sono messe al bando? Perché non guardare, evangelicamente, la trave nel proprio occhio, invece che la pagliuzza nell’occhio altrui? Perché non ricordare in modo coerentemente autocritico, con un pubblico altisonante mea culpa, le centinaia di encicliche papali e di documenti ecclesiastici dal Seicento ad oggi, che hanno condannato la libertà religiosa, anzi la libertà tout court?

Infine, se “anche la politica è realtà morale”, mi sembra chiaro che in democrazia lo è in senso pluralistico: che mille religioni e mille morali fioriscano, purché sia salva la libertà di tutti e di ciascuno. E invece no. La Chiesa di Benedetto possiede la vera morale, la vera etica, sia per la sfera privata del singolo sia per quella pubblica dello Stato. E poiché, secondo la dogmatica cattolica, ciò che è vero lo è in senso assoluto, perché viene da Dio, e ciò che è opposto al vero, il falso, lo è in senso altrettanto assoluto, perché viene da Satana, – tutti, singoli e Stati, se non vogliono deviare, si lascino, docili pecorelle, guidare sulla “retta via” dalla Chiesa e dal papa.

Orsù dunque, Cuba deviante e peccatrice, inginocchiati devota, e bacia l’anello di Benedetto, l’aspirante Gregorio VII o Innocenzo III dell’era globale!

2) «Oggi è un tempo in cui l’ideologia marxista, come concepita, non risponde più alla realtà. Occorre trovare nuovi modelli, con pazienza, in modo costruttivo. Vogliamo aiutare in uno spirito di dialogo, per evitare traumi e per contribuire ad andare verso una società giusta come la desideriamo per tutto il mondo».

Dunque il marxismo prima (quando, dove, quale: quello stalinista, polpottista, maoista, o fidelista?) rispondeva alla realtà. Dunque era vero, corretto, condivisibile? Ma allora perché papi, vescovi e cardinali l’hanno combattuto e anatemizzato, in tutte le forme e in tutte le salse, per oltre 150 anni? Perché, si può rispondere, era ateo, materialista, nemico della Chiesa, della vera religio, della Verità di Dio, e perciò falso.

Ma se era falso anche prima, la frase del papa ha poco senso. E poi, incredibile a dirsi!, quella frase si sposa perfettamente con la teoria della verità professata dalle scuole di partito e dai manuali di Diamat staliniani: «La verità è la corrispondenza delle nostre idee con la realtà esterna», che riproduce e aggiorna in senso scientista e positivista la vecchia aristotelico-tomistica adequatio rei atque intellectus.

Ma Benedetto agostiniano non dovrebbe professare l’opposta teoria del santo di Ippona, per cui in interiore homine habitat veritas? Che cosa c’entra quindi la concezione meccanicistica, aristotelico-tomistico-sovietica della corrispondenza tra idee e realtà? Evitiamo qui una discussione filosofica antiquata, di cui oggi nessuno o pochi sentono il bisogno. Ci basta rilevare la strana (ma non tanto!) analogia tra due dogmatismi opposti e simmetrici: quello del Partito-Stato e quello della Chiesa-Stato.

“Nuovi modelli” alternativi al marxismo? Ma quali? Benedetto conosce un solo modello universalmente valido (ne ha parlato egli stesso in altre occasioni), opposto sia a quello marxista sia a quello liberal-democratico moderno: il modello gelasiano (di papa Gelasio I, V secolo d.C., figuratevi!), che prevede la sottomissione dell’imperium al sacerdotium, dell’imperatore e dei governanti al papa, del potere temporale al potere spirituale, religioso, dello Stato alla Chiesa. Benedetto l’ha tradotto in due formule: a) «l’ingresso di Dio nella sfera pubblica»; b) «agire veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». In uno Stato, e in un supposto “giusto” ordine politico mondiale confessionale all’ombra del Vaticano, primato e privilegi della Chiesa cattolica sarebbero al sicuro.
È questo l’oggetto del “dialogo” del papa col governo cubano? Lo scalpo che il papa chiede al vecchio e debole ottantenne Fidel? Convèrtiti, figliolo; se lo fai, passerai alla storia come un nuovo piccolo Costantino Magno; io, che siedo sul trono di Pietro, ti assicuro, pregherò san Pietro che ti apra le porte del Paradiso.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/quando-benedetto-xvi-vola%E2%80%A6/

Chi controlla i controllori?



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domenica 25 marzo 2012

L’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin in Somalia e quell’ombra di Gladio. - di Andrea Palladino e Luciano Scalettari



Parole in codice, presenze anomale e 'possibili interventi': in alcuni messaggi inediti partiti dal comando carabinieri presso il Sios della Marina militare di La Spezia, nuovi scenari sull'agguato costato la vita alla reporter del Tg3 e al suo operatore, uccisi a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo 1994.

Un anno d’inchiesta “vecchio stile”, cercando conferme, incrociando fonti, analizzando migliaia di documenti. Un archivio di Gladio che si apre, con nuove esplosive piste su alcuni misteri d’Italia, ad iniziare dall’omicidio Alpi-Hrovatin. 
Il Fatto quotidiano ricostruisce oggi in esclusiva la presenza a Bosaso, in Somalia, di alcuni reparti “informali” della nostra intelligence il 14 marzo del 1994, quando Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stavano preparando l’ultima loro inchiesta. Un messaggio inedito partito dal comando carabinieri presso il Sios della Marina militare di La Spezia definiva i due giornalisti “presenze anomale”, ordinando un “possibile intervento”.




Ilaria Alpi, l’ombra di Gladio.
Sono le tre del pomeriggio a Bosaso, porto strategico del nord della Somalia. E’ un martedì di un mese di marzo che rimarrà scolpito nella storia italiana. E’ il 1994, anno indimenticabile. Il nostro esercito a Mogadiscio stava preparando la smobilitazione, lasciando al proprio destino il Paese che aveva dominato per anni. Prima come colonia, poi come protettorato, quindi come zona di influenza silenziosa, infine con l’Operazione Ibis, inserita nel più ampio intervento Onu “Restore Hope“, riportare la speranza. Mancavano pochi giorni alla fine di una guerra mascherata dall’etichetta dell’intervento umanitario, che per due anni ha accompagnato il periodo più oscuro del nostro Paese, stretto tra le stragi e le trattative sotterranee con il potere mafioso, con l’apparato politico ed economico messo sotto scacco dalle inchieste e dagli arresti. Solo quattro mesi prima di quel marzo del 1994 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro aveva parlato di “un gioco al massacro”. Stragi, massacri, esecuzioni. Parole che hanno segnato gli anni oscuri della Repubblica, in un momento dove riappare l’ombra delle strutture riservate dei servizi, derivate – secondo alcuni documenti inediti – direttamente da Gladio.

Alle tre del pomeriggio del 15 marzo Ilaria Miran erano seduti in un albergo non distante dal porto, registrando una delle ultime interviste della loro vita, al Sultano di Bosaso. “Perché questo è un caso particolare”, aveva annotato la giovane reporter del Tg3 su uno dei pochi block notes arrivati in Italia dopo la sua morte a Mogadiscio. Nei pochi minuti rimasti di quella intervista Ilaria parla di navi, chiede di un battello rapito, incalza il sultano cercando di capire i legami tra i traffici somali e l’Italia. Che stava accadendo in quel luogo, sperduto ma strategico? E’ la domanda chiave che potrebbe spiegare l’agguato mortale del 20 marzo 1994, quando i due giornalisti furono uccisi nelle strade di Mogadiscio.

Diciotto anni dopo, forse il muro impenetrabile che ha impedito di capire cosa rappresentava la Somalia per l’Italia nel 1994 inizia a mostrare qualche piccola breccia. Un documento inedito racconta una storia parallela, una trama che potrebbe incrociarsi con quel viaggio a Bosaso di Ilaria e Miran. E’ un messaggio dattiloscritto su un modulo militare, partito il 14 marzo del 1994 dal comando carabinieri del Sios di La Spezia, il servizio segreto della Marina militare sciolto nel 1997 e confluito prima nel Sismi e poi nell’Aise. Una comunicazione diretta a un maggiore in servizio a Balad, sei giorni prima dell’ammaina bandiera e dell’evacuazione delle nostre truppe: “Causa presenze  anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog”. Presenze anomale, a Bosaso. Quel 14 marzo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano appena arrivati nella città al Nord della Somalia, zona dove i due giornalisti non potevano passare inosservati. E’ di loro che si sta parlando? Con ogni probabilità sì, è difficile formulare altre ipotesi.“Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”, prosegue il messaggio. Che stava accadendo in quella città il giorno dell’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Chi è Jupiter? E chi è Condor? E poi, perché l’intelligence italiana ha sempre assicurato di non avere nulla a che fare con la città di Bosaso?

DOCUMENTO: GLI ORDINI DEI SERVIZI A “JUPITER”

Il generale Carmine Fiore è stato l’ultimo alto ufficiale a guidare l’operazione Ibis in Somalia. Era lui al comando in quei giorni, quando i nostri reparti si preparavano a ritornare in Italia. Osserva a lungo il documento partito dal Sios. Legge e rilegge quegli ordini, intuendo chi potesse essere quel maggiore che riceve il messaggio, il cui nome è parzialmente coperto da un omissis. “Non ho mai visto questo ordine, nessuno me ne ha mai parlato”, spiega. E aggiunge: “Se questo documento è vero vuol dire che esisteva una struttura occulta, non nota al comando del contingente”. Un gruppo particolare, in grado di svolgere operazioni coperte.

I tanti militari e agenti del Sismi interpellati per capire meglio il senso del messaggio partito da La Spezia non hanno contestato l’autenticità. Qualcuno – chiedendo l’anonimato – si è chiuso dietro l’obbligo del segreto al solo sentir parlare di Somalia. Per tutti appariva chiaro un dato di contesto: quel linguaggio, quel tipo di comunicazione e le strutture coinvolte hanno un marchio di fabbrica ben noto, Gladio, o meglio SB, cioè Stay Behind, come ufficialmente veniva chiamata. Un’organizzazione che nel 1994 in teoria non esisteva più, ma che per un ex agente della Struttura SB (che chiede l’anonimato per ragioni di incolumità personale) ha continuato a operare, cambiando semplicemente nome.

Una storia che non sorprende Felice Casson, oggi senatore del Pd, che da magistrato ha condotto due importanti indagini sul traffico internazionale di armi e su Gladio: “Ricordo che a cavallo di quelle due inchieste mi venne a trovare Ilaria Alpi, voleva più informazioni – racconta – le avevo promesso che ci saremmo rivisti. Avevo conservato il suo biglietto”. Per l’ex magistrato il messaggio sulle “presenze anomale” è sicuramente un documento importante: “Non posso affermare o escludere l’autenticità, servirebbe una perizia, ma posso dire che è compatibile con la struttura Gladio”.

La Somalia di Jupiter.

C’è un riscontro immediato e importante del messaggio partito dal comando carabinieri del Sios di La Spezia. Jupiter è l’alias di un italiano, un civile, Giuseppe Cammisa. Era il braccio destro di Francesco Cardella, il guru della comunità Saman, morto lo scorso 7 agosto a Managua, dove si era rifugiato da diversi anni per sfuggire alla giustizia italiana. Cammisa era sicuramente in quella zona, come dimostrano alcuni documenti ritrovati nell’archivio milanese di Saman. C’è una fotocopia del suo passaporto, con il visto per Gibuti; c’è la prenotazione del viaggio aereo, con partenza da Milano il 5 marzo 1994; e c’è un documento molto importante, la lettera di accreditamento per il viaggio fino a Bosaso con un aereo Unosom, il comando Onu della missione Ibis/Restore Hope. Un volo fondamentale per la ricostruzione degli ultimi giorni del viaggio dei due reporter della Rai: quell’aereo, partito da Gibuti il 16 marzo, è lo stesso che avrebbe dovuto riportare a Mogadiscio Ilaria e Miran. I due giornalisti persero quell’opportunità, forse perché secondo fonti della nostra stessa intelligence presente in Somalia, minacciati e trattenuti per il tempo sufficiente a far perdere loro il volo. Un altro dato sicuro è il soprannome di Cammisa, il nomignolo che ancora oggi usa: Jupiter, Giove.

Anche il servizio interno, il Sisde, si era occupato della strana missione di Jupiter nella zona di Bosaso. Un appunto datato 12 marzo 1994, diretto alla “segreteria speciale” del ministero dell’Interno, descrive nei dettagli quanto stava avvenendo nei giorni che precedono l’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: “Come da espressa richiesta, si conferma nelle aree adiacenti il villaggio somalo di Las Quorey, un vasto perimetro recintato già in uso per la lavorazione di prodotti ittici e derivati e adoperato in precedenza dalla Stasi/DDR (il servizio segreto dell’allora Germania orientale, ndr) per operazioni militari non convenzionali nel territorio somalo. In detta area peraltro riutilizzata tutt’oggi da personale italiano è stata notata senza dubbio alcuno nei giorni scorsi la presenza di detto ‘Jupiter’ appartenente alla ben nota struttura della Gladio trapanese”. Jupiter, dunque, era noto come membro di Gladio anche per il Sisde, che – andando oltre i compiti istituzionali – monitorava quanto stava avvenendo in quei giorni attorno alla città di Bosaso.

IL DOCUMENTO DEL SISDE DEL 12 MARZO 1994

Secondo la versione ufficiale di Saman, quella missione di Cammisa e del medico somalo Omar Herzi (che in quel periodo collaboarava all’organizzazione di Cardella) serviva a creare un ospedale a Las Korey (nome di un villaggio a cento chilometri da Bosaso, richiamato nel messaggio del 14 marzo). Così lo ricorda Francesco Cardella, intervistato via email pochi giorni prima della sua morte a Managua: “L’idea di base – discussa con il giornalista e profondo conoscitore della Somalia  (nonché caro amico mio) Pietro Petrucci - era di produrre una missione umanitaria nella zona dell’ex Somalia britannica. Con questo scopo andammo a Las Korey io, lo stesso Petrucci e il dottor Hersi”. Un primo viaggio realizzato alla fine del 1993. Prosegue il racconto: “Mandai Cammisa e Hersi prima a Dubai – dove avrebbero acquistato un fuoristrada ed altre attrezzature necessarie ad un primo intervento e dove avrebbero ricevuto medicinali inviati da Milano – e da lì – via Gibuti – nella zona di Las Korey”. Dunque la presenza di Cammisa, alias Jupiter, a Bosaso quella settimana prima dell’agguato di Mogadiscio è confermata da più fonti.

C’è di più. Uno degli attuali dirigenti di Saman, Gianni Di Malta, ricorda con precisione un episodio molto importante: “Quando Cammisa tornò dalla Somalia mi raccontò di aver incontrato Ilaria Alpi, in un albergo di Bosaso”. Parole che oggi Jupiter smentisce, assicurando di non aver mai incontrato la giornalista rimasta uccisa a Mogadiscio diciotto anni fa. Per poi aggiungere: “E poi, non so neanche cosa sia questa Gladio”.

Giuseppe Cammisa è uno dei pochi che oggi potrebbe spiegare quello che stava avvenendo a Bosaso in quei giorni, visto che quasi tutti i protagonisti di quella missione di Saman sono morti. Tutti meno uno, l’ex giornalista Pietro Petrucci, esperto fin dagli anni ’80 di questioni somale, che, secondo Francesco Cardella, fu uno degli ideatori del presunto progetto sanitario di Saman. Oggi vive in Francia, dopo aver lavorato per anni come esperto della commissione europea. Di quella vicenda, però, non vuole parlare. Ha evitato di citare il progetto Saman anche davanti a due commissioni parlamentari d’inchiesta, quella sulla cooperazione della fine degli anni ’90 e quella diretta da Carlo Taormina sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Per ben due volte confermò la sua presenza a Bosaso alla fine del 1993, senza però raccontare nulla, neanche un cenno, del progetto Saman. Nulla disse, poi, del viaggio di Cammisa/Jupiter e di Herzi – suo amico – nel marzo del 1994.

Lo stesso Sismi - in una nota del 10 novembre 1997, firmata dall’allora direttore del servizio Gianfranco Battelli – non credeva alla versione ufficiale della missione umanitaria di Saman: “Nulla, invece, è noto circa il suo impegno nella costruzione di un ospedale o di altra struttura a Bosaso”. Un progetto sanitario avviato mentre era in corso un intervento massiccio del nostro esercito, sconosciuto alla nostra intelligence: qualcosa decisamente non torna. Una cosa è in ogni caso sicura: troppi omissis impediscono ancora oggi di ricostruire la verità sull’agguato del 20 marzo 1994, quando un commando uccise Ilaria e Miran, appena tornati da Bosaso.

Quello strano centro Scorpione a Trapani.

C’è un secondo messaggio del Sios di La Spezia che cita Jupiter. E’ datato marzo 1989, diretto questa volta ad una struttura di Gladio, il Cas Scorpione di Trapani. Annuncia la visita di un onorevole – il nome non è chiaramente leggibile sulla copia consultata – e chiede la disponibilità di Jupiter e di Vicari, ovvero il nome in codice di Vincenzo Li Causi, l’agente del Sismi che all’epoca dirigeva il centro Scorpione. E’ un passaggio importante, visto che quella base di Gladio utilizzava il campo volo di Trapani Milo, pista dismessa distante appena quattro chilometri dalla comunità Saman, dove Cammisa lavorava come uomo di fiducia di Francesco Cardella; la stessa pista dove di nascosto il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, nell’estate del 1988 (una paio di mesi prima di essere assassinato), aveva filmato il caricamento di casse di armi dirette in Somalia su un aereo militare.

Vincenzo Li Causi non era un agente qualsiasi. Maresciallo dell’esercito, era stato addestrato per anni per compiere missioni difficili e riservate, dalla liberazione di Dozier fino a operazioni sotto copertura in Perù. Secondo alcuni fonti aveva conosciuto Ilaria Alpi durante un corso di lingua araba in una scuola di Tunisi. Un nome che riporta di nuovo alla Somalia, terra dove Li Causi verrà ucciso il 12 novembre 1993, quattro mesi prima dell’agguato di Mogadiscio, durante una missione a Balad. Ancora oggi su quella morte rimangono molti dubbi non risolti: un unico colpo lo raggiunse sotto il giubbotto antiproiettile, mentre rientrava verso la base degli incursori. Secondo l’ex appartenente a Stay Behind, Vincenzo Li Causi sarebbe stata la fonte di Ilaria Alpi, che ben sapeva cosa stava avvenendo a Bosaso.

Sul centro Scorpione si sono concentrate diverse inchieste, senza mai definire con chiarezza quale fosse il vero scopo di una base di Gladio in Sicilia. Secondo le deposizioni raccolte dai magistrati l’unico rapporto che sarebbe stato prodotto dagli agenti di Stay Behind tra il 1987 e il 1990 (periodo di funzionamento del gruppo di Trapani) avrebbe riguardato proprio la Saman. Era proprio così? Alcuni documenti provenienti dall’archivio Gladio parlano di operazioni legate al traffico di armi e di esercitazioni con esplosivo e mute di sommozzatori nel giugno del 1989. Ovvero nei giorni del fallito attentato dell’Addaura, che tanto inquietò Giovanni Falcone. Forse solo suggestioni, forse coincidenze, peraltro rimaste racchiuse nei cassetti dei servizi segreti italiani, negando alla magistratura la possibilità di analizzare tutte le piste possibili.

L’omicidio di Ilaria Alpi Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi.



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