giovedì 19 luglio 2012

Paolo Borsellino.



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Che colpe hanno?



 

 

 
 
 
 
 

Che colpe hanno?

Ventiseimila bimbi morti al giorno E la metà dei decessi è per fame.




ROMA - Ventiseimila ogni giorno, una strage continua: è questo il numero dei bambini che muoiono nel mondo prima di arrivare ai cinque anni d'età. E le cause sono facilmente prevenibili, dalle malattie infettive alla diarrea, dalla fame alle scarse condizioni igieniche. La fotografia illustrata oggi nell'ultimo rapporto dell'Unicef sulla condizione dell'infanzia presenta zone d'ombra soprattutto nell'Africa subsahariana e nell'Asia meridionale, dove si verificano l'80 per cento dei decessi infantili: percentuale lontana anni luce dalla condizione dei paesi occidentali. 

Il rapporto dell'agenzia Onu per i bambini è dedicato quest'anno al diritto alla salute, per "nascere e crescere sani" e traccia un quadro che lascia ancora molto a desiderare rispetto al quarto obiettivo di sviluppo del millennio, che prevede la riduzione di due terzi della mortalità infantile nel mondo entro il 2015. 

Passi avanti ne sono stati fatti, ricorda l'agenzia: nel 2006 per la prima volta le morti sono scese sotto quota 10 milioni, mentre nel 1960 erano bel il doppo, 20 milioni. Ma ancora 9.7 milioni di piccoli non sopravvivono a causa delle guerre, dei disastri naturali, dell'Aids, o ancora per le condizioni di miseria in cui sono costretti a vivere e per la mancanza di strutture medico-sanitarie adeguate. 

Un bambino su quattro nel mondo è sottopeso; percentuale che nei paesi meno sviluppati arriva ad uno ogni tre; cinque milioni di bambini sotto i cinque anni d'età muoiono di malnutrizione o fame. L'allarme dell'Unicef non risparmia poi le madri, la cui condizione non è certo incoraggante: mezzo milione di donne ogni anno muoiono per complicazioni di parto o di gravidanza. E il rischio aumenta per le più giovani: le ragazze sotto i 15 anni di età hanno cinque volte più possibilità di morire rispetto alle ventenni durante il parto. La maglia nera, sotto questo aspetto, tocca al Niger, dove le donne hanno una possibilità su sette di morire dando alla luce il proprio bambino; seguono Sierra Leone e Afghanistan (una su otto), mentre all'altro estremo della classifica ci sono l'Argentina (una possibilità su 530), la Tunisia (una su 500) e la Giordania (una su 450). 


Fra i paesi in via di sviluppo le condizioni dei bambini, invece, sono nettamente migliorate a Cuba (sette morti ogni mille nati vivi), in Sri Lanka (13) e Siria (14). Va male invece in Sierra Leone (270), Angola (260) e Afghanistan (257), lontanissime dall'Occidente, in cui svettano Svezia e Singapore, al 189esimo posto nella classifica mondiale per la mortalità infantile che vede l'Italia al 175esimo posto. 

Ma di cosa muoiono i bambini? Complicazioni neo-natali (36 per cento), polmonite (19 per cento), diarrea (17 per cento), malaria (8 per cento), morbillo (4 per cento), Aids (3 per cento). La situazione non è identica fra i paesi in via di sviluppo: dove sono stati fatti interventi, i risultati si sono avuti. Paesi poveri con enormi difficoltà come Mozambico, Malawi, Eritrea ed Etiopia sono infatti riusciti a ridurre la mortalità dei più piccoli del 40 per cento dal 1990 ad oggi. E a fare la differenza sono spesso le piccole cose: misure salvavita semplici ed economicamente sostenibili come l'allattamento al seno esclusivo e le vaccinazioni, l'uso di zanzariere con insetticidi, gli integratori di vitamina A. Tutti questi accorgimenti hanno contribuito negli ultimi anni a ridurre il tasso dei decessi, sottolinea il direttore generale dell'Unicef, Ann M. Veneman. 

Con qualche investimento in più, di modesta entità, si potrebbe migliorare di molto: l'agenzia stima che un pacchetto minimo per l'Africa subsahariana porterebbe ad un calo del 30 per cento dei decessi fra i più piccoli, e del 15 per cento per le madri, con un costo di 2-3 dollari in più a persona rispetto ai programmi già adottati. Percentuali che salirebbero al 60 per cento per mamma e bambino con un investimento ulteriore di 12-15 dollari pro capite. (art. del 22 gen. 2008)




http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/esteri/unicef-rapporto-infanzia/unicef-rapporto-infanzia/unicef-rapporto-infanzia.html

Leggi anche:
http://www.cosechenonvanno.com/cronaca/ogni-giorno-muoiono-ben-26-mila-bambini-uno-ogni-3-secondi











Che colpe hanno?

mercoledì 18 luglio 2012

L'agenda rossa...




Possibile che nessuno in Italia riconosca questa persona con la borsa di Borsellino in mano??? 


Dell’Utri: “Cosa mi aspetto da questo processo? Un cazzo”. - Giuseppe Pipitone e Silvia Bellotti




E’ cominciato a Palermo il nuovo processo d’appello contro Marcello dell’Utri, accusato di concorso esterno a Cosa nostra, dopo l’annullamento con rinvio deciso dalla Cassazione nel marzo scorso. “Pensate che io ho ancora fiducia nella giustizia quindi se c’è uno da ricoverare sono io, giusto? Assieme a Ingroia però, andiamo insieme perché se c’è un pazzo è proprio lui”, ha nicchiato il senatore del Pdl che proprio stamattina è stato raggiunto dalla nuova accusa di estorsione nei confronti di Silvio Berlusconi. “Che gliene frega ai magistrati dei soldi miei? Io ho costruito per Berlusconi un impero: punto”. Poi dedica una battuta al Fatto Quotidiano: no, non dico niente perché sono bravi e ci sanno fare, però quante ingiustizie, non si fa il mestiere così per attaccare le persone dicendo cose parziali. Io non lo leggo mi arrivano le rassegne stampa ma una lira per comprare il Fatto non l’ho mai spesa”  

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Due pallottole a testa. - Kumi Naidoo

                                                                Kumi Naidoo,  direttore di Greenpeace International


Che ci fareste voi con 1.738 miliardi di dollari? Se vi dicessero che dovreste spenderli quest’anno, per garantire la sicurezza di tutti noi, come li spendereste?
Secondo le stime dello Stockholm International Peace Institute (SIPRI), 1.738 miliardi di dollari è quello che si è speso l’anno scorso in armamenti.

Poiché le spese militari sono una delle poche categorie dei bilanci che non hanno subito tagli, vorremmo sapere se forse questo mondo è diventato più sicuro. Che consolazione possono trovare in queste ingenti spese militari i genitori di quei 7,6 milioni di bambini di meno di cinque anni che ogni anno muoiono, soprattutto nei Paesi in Via di Sviluppo? E che razza di sicurezza può esserci in un mondo in cui 925 milioni di persone non hanno abbastanza da mangiare e il 98% di loro si trova, sempre, nei Paesi in Via di Sviluppo? Che pace ci portano questi soldi così spesi?

In un mondo dove milioni di persone sono costrette a sfollare per cause collegate ai cambiamenti climatici come siccità, erosione delle coste, alluvioni e distruzione dei raccolti, saranno i militari a fornire case e cibo a queste persone?

I “falchi” e i loro leccapiedi riterranno probabilmente che questo è un prezzo da pagare accettabile per mantenere la sicurezza nazionale e internazionale. Ma loro cosa intendono per “sicurezza”? Cos’è, davvero, la sicurezza? 

Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) nel 1994 ha detto: “La sicurezza per gli uomini è un bambino che non muore, una malattia che non si diffonde, un lavoro che non è stato perso, una tensione etnica che non esplode in atti di violenza, un dissenso che non è stato messo a tacere. La sicurezza per gli uomini non ha a che fare con le armi – ha a che fare con la vita umana e con la dignità ”. E mi sembra un’ottima definizione.

A Greenpeace abbiamo sempre lavorato per la vera sicurezza: è il cuore stesso dei principi per cui ci battiamo. Noi crediamo che invece di spendere un sacco di soldi e - forse ancor peggio - di ingegnosità per i macchinari di guerra, dovremmo piuttosto dirigere le nostre risorse economiche e intellettuali verso la vera sicurezza. Dobbiamo contrastare la minaccia senza precedenti del cambiamento climatico che sta mettendo sempre più sotto pressione le nostre risorse fondamentali: cibo, acqua, energia e terra. Sono pressioni che stanno già scatenando conflitti, guerre e sofferenze.

Ci sono un sacco di soldi sprecati in nome della sicurezza e sono pochi i Paesi di cui potremmo condividere l’ordine delle priorità. Diamo un’occhiata a chi spende di più. Guardiamo a chi è incaricato, per conto della comunità internazionale, a mantenere la pace. Guardiamo cioè aicinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Se consideriamo i dati forniti dal SIPRI, non ci sono grandi sorprese: i primi cinque investitori in spese militari sono proprio questi Paesi. Gli USA primeggiano con quasi la metà della spesa militare globale. Gli altri quattro sono piuttosto indietro ma se li sommiamo assieme fanno tutti parte del Club mondiale dei cinque stati dai mille miliardi di dollari di spese militari!

Proviamo a metterla così:  è come quel luogo comune un po’ macho che si sente in tanti film di guerra, quello che dice che la fuori c’è una pallottola con sopra il tuo nome. Bene, secondo Oxfam in realtà sono due, o di più: quest’anno, si produrranno due pallottole per ogni abitante della Terra.  

Si spendono un sacco di soldi per preparare la guerra, ma quanti se ne spendono per prevenirla? Quanto spendiamo per mitigare i rischi del cambiamento climatico? Molto poco in confronto e niente che si avvicini a quello che serve.

Nel 2009, alla Conferenza sul Clima di Copenhagen, i Capi di Stato dei Paesi Sviluppati hanno promesso ai Paesi in Via di Sviluppo 30 miliardi di dollari, nel periodo 2010-2012, per i processi di adattamento e le misure di mitigazione. Hanno pure promesso che avrebbero aumentato questa somma fino a creare un fondo annuo di 100 miliardi di dollari USA, entro il 2020. Sembra tanto fino a che non fai un confronto: 10 miliardi l’anno è l’1% del budget militare dei cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre 100 miliardi è solo il 10%. Gli USA, da soli, potrebbero pagare tutti i 100 miliardi di dollari prendendoli dalle spese militari e comunque sorpassare il secondo in classifica, la Cina, di cinquecento miliardi di dollari.

I cambiamenti apportati dalle alterazioni del clima aumentano i rischi di guerre e conflitti e pongono minacce alla sicurezza, quella vera, senza precedenti. Per assicurare sicurezza, dobbiamo combattere la minaccia climatica e investire in soluzioni verdi. 

Per esempio, che ne dite di investire nella protezione dei nostri mari? Secondo gli scienziati, per tutelare con riserve marine il 20-30% dei nostri oceani servirebbero tra 5 e 19 miliardi di dollari l’anno. Si creerebbero un milione di posti di lavoro e si garantirebbero catture sostenibili per la pesca per un valore stimato in 70-80 miliardi di dollari l’anno e servizi “ecosistemici” per un valore lordo che sarebbe compreso tra 4.500 e 6.700 miliardi di dollari l’anno!

Un’altra idea potrebbe essere quella di investire per salvare le nostre foreste, che ne dite? L’economia mondiale a causa della deforestazione perde ogni anno tra 2.000 e 5.000 miliardi di dollari. Il costo per dimezzare la deforestazione è stimato in 15 miliardi di dollari l’anno.

E, ultimo ma certo non per importanza, che ne pensate di una rivoluzione nel settore della produzione di energia? Mettersi alle spalle i combustibili fossili che stanno distruggendo il clima e abbandonare una fonte pericolosa come il nucleare richiede investimenti addizionali equivalenti a circa 280 miliardi di dollari l’anno. Sono investimenti che si ripagherebbero con gli interessi sia per il risparmio sull’acquisto di carburanti che per i posti di lavoro che si creerebbero. E non ci vuole un’arca di scienza per capire che tutto ciò diminuirebbe in modo drastico la minaccia di guerre riducendo la nostra dipendenza dalle fonti fossili.

Usiamo una quantità incredibile di soldi, immaginazione e ingegno umano per preparare e combattere guerre. Pensate a dove potremmo arrivare se la stessa energia, immaginazione, ingegnosità fosse investita per la pace, per una pace verde.



http://www.greenpeace.org/italy/it/News1/blog/due-pallottole-a-testa/blog/41317/

La truffa dell’emergenza rifiuti: la compagnia delle ecoballe. -Daniela De Crescenzo




Alla faccia dell’”emergenza”. Dietro la “questione rifiuti” in Campania c’è una storia cominciata più di dieci anni fa. E ci sono nomi e cognomi: imprenditori e politici corrotti che con il mancato smaltimento hanno arricchito se stessi e i clan.
Cinque milioni di ecoballe fuori legge, un miliardo e mezzo di euro spesi in 11 anni dal commissariato di governo e altri 80 milioni stanziati a giugno dal governo: sono le cifre che segnano l’ennesima débâcle dello Stato in terra di Camorra. Quella che è stata chiamata “emergenza rifiuti” si sta rivelando sempre più una grande truffa di cui hanno beneficiato amministratori corrotti, malavitosi, imprenditori più o meno vicini agli uni e agli altri: lo sostengono i magistrati in una serie di inchieste intrecciate che, tassello dopo tassello, ne stanno ricostruendo la storia.
L’inizio della crisi. Tutto comincia nel 1994 quando, dichiarato lo “stato di emergenza”, il governo nomina il primo commissario che ha il compito di tamponare la crisi. È solo nel 1996 che i poteri si ampliano e passano al presidente della Regione che in quel momento in Campania è Antonio Rastrelli. Ed è la sua amministrazione che organizza il bando di gara per appaltare la gestione di un ciclo integrato dei rifiuti. Le procedure vanno avanti con il suo successore, Andrea Losco (Udeur) e vengono concluse da Antonio Bassolino (Ds) che affida il tutto a un consorzio di ditte formato da cinque imprese associate alla Impregilo (Impregilo International, Fibe, Fibe Campania, Fisia Impianti, Gestione Napoli). Le stesse che a giugno 2007 ricevono dal gip Rosanna Saraceno l’interdizione a stipulare contratti con la pubblica amministrazione per un anno in materia di smaltimento della spazzatura e il sequestro preventivo di 753 milioni di euro.
I pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo cominciano a indagare nel 2002 dopo una denuncia del senatore di Rifondazione comunista Tommaso Sodano. Cinque anni dopo arriva il primo provvedimento del gip con conclusioni durissime per le imprese, ma non solo. Per il magistrato le aziende «con artifici e raggiri» hanno eluso i contratti, falsificato i risultati delle analisi, bloccato gli impianti per far crescere l’emergenza. Il tutto «con la complicità, se non la connivenza, di chi aveva l’obbligo di intervenire». Non a caso le indagini, dalle quali si aspettano nuovi sviluppi, hanno coinvolto il governatore Bassolino e molti dirigenti della struttura commissariale.
Con l’alibi dell’emergenza. Nel 2000, infatti, il presidente della Regione firma con il consorzio un contratto, che non sarà mai rispettato dalle ditte né disdetto dal commissariato che, invece, sostiene la tesi dell’emergenza infinita inventata dall’impresa per giustificare le proprie inadempienze. Impregilo e soci avrebbero dovuto costruire sette impianti di produzione di Cdr, ovvero di combustibile derivato dai rifiuti (e lo hanno fatto), edificare due impianti per la termovalorizzazione del combustibile (ne hanno realizzato uno solo, quello contestatissimo di Acerra), gestire tutti i rifiuti prodotti in Campania. La spazzatura doveva diventare materiale da bruciare (32%), compost destinato al recupero ambientale (33%), scarti ferrosi (3%) e solo il 14% doveva finire in discarica. Sette anni dopo non solo la Campania brulica di buche piene d’immondizia, ma l’emergenza è diventata un enigma che non trova soluzione.
Anche perché quella che esce dagli impianti di Cdr è spazzatura triturata. Tanto che il prefetto Pansa (che ha preso il posto del precedente commissario, il capo della protezione civile Guido Bertolaso) ha deciso di far trasportare parte dei rifiuti direttamente in discarica.
Tutti le trasportano, nessuno le brucia. Le ecoballe, lo dimostrano le indagini, di eco non hanno proprio nulla. Si tratta, invece, di immondizia chiusa in buste di plastica che non sarà mai possibile bruciare nel rispetto delle norme attuali. Il materiale prodotto dai Cdr doveva avere per contratto al massimo il 15% di umidità. Il decreto Ronchi prevede una percentuale del 25%. La spazzatura che esce dagli inceneritori supera il 30. E la quantità di rifiuti che esce dai sette inceneritori è maggiore di quella in entrata a causa degli additivi. Un disastro.
In compenso solo per ospitare le cosiddette ecoballe bisogna occupare 40mila metri quadrati ogni mese. E così il commissariato ha dilapidato milioni di euro per inviare le balle al nord o addirittura all’estero, ma nessuno le ha volute perché bruciarle è impossibile. Eppure il contratto prevedeva, come ricorda il gip Saraceno «l’obbligo di assicurare, nelle more della realizzazione degli impianti di termovalorizzazione, il recupero energetico mediante conferimento del Cdr in impianti esistenti». Insomma, in attesa di costruire l’impianto di Acerra il cartello Impregilo avrebbero dovuto smaltire le ecoballe a proprie spese, ma nessuno ha preteso il rispetto di questa clausola e la spazzatura impacchettata è diventata lo scoglio che fa naufragare ogni speranza di superare la crisi. Non basta. Il subappalto del trasporto di materiali prodotti dagli impianti era vietato, ma solo sulla carta. Le numerose emergenze hanno fatto proliferare le deroghe e il servizio è stato appaltato a una partecipata dei Comuni dell’area Nord (Impregeco), che non avendo, però, i mezzi necessari lo ha a sua volta subappaltato a una miriade di padroncini. E così davanti agli inceneritori restano per ore, ma a volte anche per giorni, camionisti pagati in nero.
Impianti fermi? È tutto programmato. A costituire l’inferno in cui si dibattono i napoletani hanno, sempre secondo i magistrati, collaborato i responsabili del commissariato. Sono stati loro a non vedere (o a non voler vedere) che le apparecchiature montate nei Cdr erano diverse da quelle progettate, che ai rifiuti veniva aggiunta plastica per renderli più secchi, che le analisi sui prodotti venivano falsificate. Tutto in nome dell’emergenza. Tanto che il sub-commissario Raffaele Vanoli nel 2002 in previsione dell’estate dispone un prolungamento dell’orario di apertura degli impianti e decide che le verifiche sul Cdr prodotto siano spostate al momento di incenerire le balle. Si domandano i giudici: come faceva Vanoli a sapere che i cumuli di rifiuti per le strade sarebbero cresciuti? Una risposta viene dalle intercettazioni sulle linee dei dipendenti della Fibe. Scrive Rosanna Saraceno nella sua ordinanza: «Dalle intercettazioni emerge che il fermo degli impianti e il blocco nella ricezione dei rifiuti era programmato e attuato quale strumento di pressione verso la struttura commissariale». Tra gennaio e giugno del 2007 l’inceneritore di Caivano si è bloccato 30 volte, venti perché non c’era possibilità di sversare i rifiuti, dieci per incidenti vari.
Intanto c’è chi, con i rifiuti, si ingrassa. L’emergenza, poi, giustifica fitti e subappalti senza gare: e i costi lievitano. Così finisce che la Campania sommersa dalla spazzatura paghi la tassa sui rifiuti più cara d’Italia. Né c’è da meravigliarsi visto che, tanto per fare un esempio, nei diciotto consorzi di bacino della regione sono stati assunti 2300 ex Lsu (lavoratori socialmente utili, ndr.) che dovevano lavorare alla differenziata mai decollata e che quindi hanno fatto poco e niente, ma sono stati sempre pagati costando circa 55 milioni di euro all’anno. E molti sono stati assunti perché iscritti in liste di disoccupazione compilate grazie a un accordo trasversale tra le forze politiche, come sostengono i giudici che hanno indagato su molti leader dei senza lavoro. Ben 367 di questi lavoratori fantasma dipendono dal bacino 5 che però non è mai stato costituito. E l’Asia, la società mista che raccoglie l’immondizia a Napoli, lavora senza aver mai firmato un contratto di servizi e subappalta la raccolta del centro città ad altre due società. Non va meglio in provincia dove molti Comuni sono stati sciolti (tra questi Crispano, Casoria, Tufino, Pozzuoli, Melito) per aver affidato il servizio di nettezza urbana a società ritenute dal Gia (Gruppo interforze antimafia) vicine alla Camorra. Il commissario di governo a Casoria ha dovuto azzerare i vertici della partecipata del Comune dopo l’informativa della prefettura che parla di possibili ingerenze della criminalità organizzata. Anche la Pomigliano Ambiente nel giugno 2006 è stata interdetta dal prefetto perché sospettata di servirsi di una società di servizi accusata di collusioni con associazioni camorristiche, ma a novembre il Tar ha accolto il ricorso della società, il provvedimento di interdizione è stato revocato e l’azienda ha ripreso l’attività come molte altre imprese finite nel mirino della prefettura e “riabilitate” dalla giustizia amministrativa. Ad aprile, però, la Dda ha aperto una nuova inchiesta. Il pubblico ministero Maria Antonietta Troncone indaga su una serie di lavori appaltati con il criterio della somma urgenza.
Favori a parenti e “amici”. Del resto, secondo la commissione parlamentare d’indagine sul ciclo dei rifiuti guidata dal senatore Roberto Barbieri (Gruppo misto), la stessa struttura commissariale non è stata impermeabile alla Camorra: «Gli elementi informativi assunti durante le audizioni, soprattutto quelle dei magistrati della procura della Repubblica di Napoli, nonché la documentazione acquisita con riferimento alle indagini che hanno interessato la struttura commissariale – è scritto nella relazione sulla Campania – hanno rappresentato un quadro nel quale la criminalità organizzata, soprattutto nella sua articolata dimensione imprenditoriale, ha assunto un ruolo che desta preoccupazione». Una preoccupazione più che fondata se si considera che a maggio è stato arrestato il sub-commissario Claudio De Biasio: insieme a Giuseppe Valente, presidente del Ce4 (in quota Forza Italia), fino al commissariamento del consorzio, avrebbe favorito imprese legate alla malavita. I due, secondo i pm della Dda di Napoli, Raffaele Cantone e Alessandro Milita, avrebbero favorito le ditte dei fratelli Sergio e Michele Orsi a loro volta finiti in manette e indicati da numerosi pentiti come vicini al clan dei Casalesi. Con queste imprese il consorzio di bacino ha costituito una società mista, la Eco 4, incaricata della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Alla Eco 4 non è stata concessa la certificazione antimafia perché l’amministratore delegato, Sergio Orsi, è ritenuto vicino ai clan. I giudici hanno ricostruito la vicenda passo passo a cominciare dal bando di gara che privilegiava le società formate da giovani e da donne. Una clausola che ha permesso agli Orsi di spiazzare l’altra impresa che aspirava all’appalto. Poco prima del bando, infatti, è stata formata una società, la Flora ambiente, amministrata dall’allora ventunenne Elisa Flora, figlia di Sergio Orsi. L’impresa, che non aveva alcuna attrezzatura, creò un’associazione temporanea con aziende che avevano, invece, i mezzi per operare e riuscì a vincere la gara e ad aggiudicarsi il servizio guadagnando (illecitamente secondo i giudici) più di dieci milioni di euro, nove solo vendendo al commissario un pacchetto azionario a un prezzo enormemente superiore al valore reale. Nell’inchiesta entra anche il camorrista Augusto La Torre. È lui a raccontare ai giudici di aver imposto ai fratelli Orsi una tangente di 15 mila euro al mese e di aver concordato la cifra grazie al comune amico Francesco Bidognetti, capo dell’omonimo clan.
Un impero all’ombra dei clan. Ma i fratelli non sono amici solo dei malavitosi. Nella loro agenda figura anche Angelo Brancaccio, dei quali erano anche compagni di sezione. I due, infatti, erano iscritti alla sezione dei Ds di Orta di Atella, paese di cui Brancaccio era stato a lungo sindaco prima di diventare consigliere regionale e segretario della presidenza del governatore Bassolino ed essere infine accusato di estorsione, peculato e corruzione.
E non finisce qui: 37 milioni di euro sono passati dal commissariato di governo direttamente nelle tasche di Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore candidato per Forza Italia alle elezioni nel 1994 e non eletto, proprietario della Resit, la società che ha venduto al commissariato di governo le cave X e Z, discariche abusive nei dintorni di Giugliano, durante l’emergenza del 2003 (cfr. «Narcomafie» n.2/06). Tre anni dopo, nel gennaio del 2006, Chianese finisce in galera. Pesantissima l’accusa: estorsione aggravata e continuata, concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i magistrati il suo impero economico sarebbe cresciuto all’ombra del clan dei Casalesi. I pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci chiesero anche l’arresto dell’ex sub commissario per l’emergenza rifiuti, Giulio Facchi, ma il gip non lo concesse per mancanza di esigenze cautelari (al momento della decisione non era più sub-commissario). La cosa sconcertante è che il commissario aveva stabilito rapporti con Chianese ben sapendo che era già stato al centro di numerose inchieste giudiziarie.
In questa situazione non c’è da meravigliarsi se in Campania ci sono, secondo Legambiente, 225 discariche abusive e la criminalità organizzata continua a incrementare i propri profitti gestendo un giro di affari che tocca i 23 miliardi di euro all’anno. E i cumuli di sacchetti per le strade della Regione continuano a crescere.