Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 27 dicembre 2012
TRATTATIVE E SERVIZI - GARGANI CHI? - Andrea Cinquegrani
Un tempo dc doc, tra i piu' attivi nel “clan” degli avellinesi capeggiato da Ciriaco De Mita e Nicola Mancino. Sparito lo scudocrociato, eccolo tra i promotori del Ppi, quindi un balzo fra le truppe berlusconiane, lo scranno al Parlamento europeo, quindi ora tra le fila Udc. E' un identikit flash di Giuseppe Gargani, che parecchi ricordano tra i piu' attivi, insieme al giudice costituzionale Romano Vaccarella e all'ex presidente picconatore Francesco Cossiga (il “pool di saggi” fortemente voluto da Silvio Berlusconi), per dar forma e sostanza al primo lodo Alfano, a base di separazione della carriere tra giudici e pm, riforma del Csm, ripristino dell'immunita' parlamentare e via - e' il caso di dirlo - picconando quel che restava (e resta) del pianeta giustizia.
Defilato al punto giusto, comunque, in questi ultimi anni, Gargani: ben pochi sanno, infatti, che il suo nome figura nel registro degli indagati dei pm palermitani alle prese l'inchiesta sulla famigerata “trattativa” Stato-mafia”, a vent'anni e passa dalle stragi di Capaci e via D'Amelio. Insieme all'ex guardasigilli Giovanni Conso, infatti, e' indagato per false informazioni fornite ai pm, tra cui Antonino Ingroia, nel frattempo volato in Guatemala in attesa dell'incoronazione degli arancioni di Luigi de Magistris e C. Tra gli accusati, in prima fila i vertici - a quei tempi - del Ros, Mario Mori (gia' alle prese con le bollenti vicende della mancata perquisizione del covo di Toto' Riina e della mancata cattura di Bernardo Provenzano), il suo braccio destro Giuseppe De Donno, l'allora numero uno del Ros Antonio Subranni (la cui figlia Danila, oggi, e' portavoce di Angelino Alfano); un manipolo di mafiosi (Provenzano, Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Nino Cina'), e alcuni politici: Mancino, che deve rispondere di falsa testimonianza e non ha ottenuto il richiesto “processo stralcio”; Marcello Dell'Utri e Calogero Mannino.
Ed e' proprio il rapporto tra Mannino e Gargani al centro dell'attenzione dei pm. In particolare, un incontro tra i due alla vigilia di Natale 2011 (per la precisione il 21 dicembre): tema della discussione, la trattativa e le stesse indagini della procura palermitana. E a verbalizzare su Gargani, sul suo ruolo in quei mesi al calor bianco, sono stati due politici che di quelle vicende sanno sicuramente molto, l'ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti (poi sostituito da Mancino dopo la strage di Capaci) e l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli.
VERBALIe#8200;SCOTTANTI
Verbalizza Scotti davanti ai pm Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava (mancava Ingroia) l'8 giugno scorso. Allora - dichiara - «Gargani era membro della commissione giustizia della Camera, e mi consiglio' di non insistere sul rapido iter di ratifica del decreto 8 giugno 1992», ovvero il 41 bis alla base del carcere duro per i mafiosi. «Le perplessita' manifestatemi - aggiunge - riguardavano l'impianto complessivo del decreto. Martelli e io, comunque, decidemmo di tener fermo quel testo e di insistere sulla sua conversione in legge senza attendere l'insediamento del nuovo esecutivo». E cioe' il governo guidato da Giuliano Amato.
Ecco invece quanto dichiara, sempre a giugno, Martelli. «Gargani si era proposto all'onorevole Bettino Craxi per assumere l'incarico di ministro della giustizia nel governo in formazione. Riteneva che io non fossi sufficientemente determinato a contrastare con forza le indagini di Mani pulite, assicurando invece che lui sarebbe stato in grado di fermarle». Per inciso, ha di recente dichiarato nel corso di un convegno, lo stesso Scotti, a proposito della nomina di Giovanni Falcone all'ufficio affari penali del ministero di via Arenula: «A chiamare Falcone per quell'incarico non fu Martelli, ma il suo nome venne fatto da Giuliano Vassalli».
Torniamo a Gargani. Quale effettivo ruolo avra' dunque avuto in quel periodo? E sul fronte della trattativa? Riuscira' il processo (dopo l'ok del gup di Palermo) a far luce sui tanti, troppi buchi neri di quelle stragi? Per ora Gargani non ha ricevuto alcun avviso di garanzia: il codice penale, infatti, prevede che per il reato di “false informazioni” la posizione dell'indagato rimanga “sospesa” fino a che non sia stata pronunciata la sentenza di primo grado. Un groviglio nel groviglio.
Una mano, forse, potra' dargliela il fratello Angelo Gargani, una vita in magistratura e con posizioni apicali. Caratterizzata, in particolare, da una spola continua fra tribunali e ministero della Giustizia, dove ha ricoperto il delicato ruolo di “capo del controllo interno”, una vera e propria supervisione sulle ispezioni ministeriali (per anni capo degli 007 di via Arenula e' stato un altro campano, Arcibaldo Miller, voluto prima da Romano Prodi, poi confermato dall'esecutivo Berlusconi). Altra strategica poltrona, quella di presidente della commissione che nomina i giudici tributari. Non mancano pero' le nubi, in una carriera tanto folgorante. Come quella dell'inchiesta sulla P3, che vede in pista - oltre al faccendiere Flavio Carboni e all'ex sottosegretario alla giustizia nell'ultimo governo Berlusconi, Giacomo Caliendo - l'ubiquo Pasquale Lombardi, il geometra da Cervinara, in provincia di Avellino, “amico” di tante toghe eccellenti, tra cui Angelo.
Del resto, Pasqualino per hobby fa il “giudice tributario”. Mentre Franco Antonio Pinardi, figura di vertice della potente sigla paramassonica Parlamento Mondiale, capeggiato dal palermitano Victor Busa' (indagato in svariate procure italiane), da' vita alla Tribuna Finanziaria. Nel cui organigramma fa capolino proprio il nome di Giuseppe Gargani. Tanto per ritrovarsi tra “amici”.
Ma finiamo con un tocco di gioventu'. Il rampollo di Giuseppe, Alessandro Gargani, a bordo di Sviluppo Campania e della Fondazione Ifel sta dando una mano al presidente della giunta regionale della Campania, Stefano Caldoro, per elaborare il “piano di stabilizzazione finanziaria”. Peccato che a Santa Lucia stiano sull'orlo del baratro, con il fresco crac di EavBus, la societa' pubblica dei trasporti affondata (con la “madre” Eav) in un mare da centinaia di milioni di euro. Cin cin.
http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=574
mercoledì 26 dicembre 2012
Per Gasparri, Storace e altri 5 ex-An scialuppa post-elettorale al Secolo d’Italia. - Marco Lillo
Mario Landolfi, Francesco Storace, Giorgia Meloni, Maurizio Gasparri, Silvano Moffa, Italo Bocchino, Gennaro Malgieri. Cosa hanno in comune questi sette politici oltre alle radici in Alleanza Nazionale? Oggi sono divisi: Giorgia Meloni ha fondato “Fratelli d’Italia” con Guido Crosetto, remake dell’omonimo cinepanettone del duo Boldi-De Sica. Francesco Storace resta fedele alla sua “Destra”, Maurizio Gasparri sta con Berlusconi. Il mite Silvano Moffa guida un manipolo semisconosciuto denominato “Popolo e Territorio”. Mario Landolfi e Gennaro Malgieri sono montiani e Italo Bocchino rimane l’ultimo giapponese accanto a Fini. I magnifici sette corrono sotto insegne diverse ma li accomuna l’uscita di sicurezza in caso di disastro elettorale: il 26 febbraio potrebbero mettersi in fila davanti al portone di via della Scrofa 43 per riprendere il loro posto nella redazione del Secolo d’Italia.
Mario Landolfi, assunto nel 1991 è in aspettativa parlamentare dal 1994, come Francesco Storace assunto nel 1986 e in aspettativa con la qualifica di caposervizio; Giorgia Meloni, consigliere provinciale a 21 anni nel 1998, è entrata nel 2004 ed è in aspettativa parlamentare dal 2006. Maurizio Gasparri assunto nel 1983 come Moffa è in aspettativa dal 1992, mentre Moffa è in aspettativa dal 1998. Italo Bocchino, assunto nel 1991 è in aspettativa dal 1996 mentre il più anziano e alto in grado è Gennaro Malgieri, assunto nel 1979 e in aspettativa dal 1996, con la qualifica di direttore, incarico ricoperto dal 1994, dopo Gasparri.
Il giornale che hanno lasciato in edicola non c’è più. Da ieri per la prima volta l’organo di An non è in edicola. L’editoriale di commiato del direttore-deputato (non retribuito), Marcello De Angelis, si chiude così: “da gennaio, sarà on line. La battaglia continua, con altri mezzi”. Il giornale vendeva a malapena 700 copie reali al giorno e la nuova legge sui contributi ai giornali di partito ha favorito il passaggio sul web permettendo il rimborso del 70 per cento delle spese invece del 50 per cento riservato ai giornali di carta. L’organico comunque dovrà essere ridotto. Oggi ci sono 14 giornalisti più i sette in aspettativa più l’ex direttore finiano Flavia Perina, in causa da quando è stata licenziata in tronco senza nemmeno il riconoscimento del Tfr. E c’è pure il caso anomalo dell’ex portavoce di Fini, Salvo Sottile assunto dal Secolo nel 2006 (anno dello scandalo Vallettopoli-Gregoraci) ma che figura “in distacco”. Il suo stipendio oggi non è a carico del Secolo ma è più alto di tutti i colleghi e preoccupa per il futuro i contribuenti.
Il Secolo, oltre alle iniezioni di liquidità permesse dai rimborsi elettorali ad An, è costato ai contribuenti più di 20 milioni solo negli ultimi sette anni. Il Dipartimento editoria della Presidenza del consiglio ha versato 2 milioni e 433 mila euro per il 2010, 2 milioni e 952 mila euro per il 2009, 2 milioni e 950 mila nel 2008, 2 milioni e 959 mila euro nel 2007, 3 milioni e 98 mila euro nel 2006, 3 milioni e 98 mila euro nel 2005, 3 milioni e 98 mila euro nel 2004, per un totale di 20 milioni e 588 mila euro che non sono bastati a sostenere un organico di 40 persone.
Per rimettere in equilibrio i conti nell’ottobre scorso, l’amministratore nominato dalla liquidazione del Tribunale, Alberto Dello Strologo, aveva preparato un piano – approvato dai liquidatori Marco Lacchini e Giuseppe Tepedino – che riduceva l’organico a sette giornalisti decretando di fatto la fuoriuscita dei parlamentari in aspettativa. Il Presidente del Tribunale di Roma, Mario Bresciano, però ha fermato tutto nominando due nuovi liquidatori, Davide Franco e Andrea D’Ovidio, ai quali ha chiesto di trasferire subito la proprietà del Secolo d’Italia dalla liquidazione (diretta dal Tribunale) alla Fondazione (di Alleanza Nazionale) dove comandano i politici che, alla fine, hanno deciso di salvare il posto ai giornalisti, compresi quelli in aspettativa.
La riduzione dell’organico alla fine riguarderà solo gli impiegati comuni. Gasparri e compagni possono restare in aspettativa. La Fondazione (presieduta dal senatore Francesco Mugnai, e diretta da un comitato di cui fanno parte anche il finiano Lamorte, La Russa, Alemanno, Matteoli e Gasparri) per permettere la sopravvivenza del Secolo ha comprato le quote e ha immesso nella società 700mila euro cash rinunciando anche ai suoi crediti per circa mezzo milione. I soldi non mancano: sui conti correnti della Fondazione ci sono 65 milioni di euro cash provenienti dai rimborsi elettorali più altri 35 milioni di euro in immobili.
Grazie al liquido della Fondazione An, la scialuppa dei sette parlamentari resta a galla, pronta ad accoglierli in caso di naufragio elettorale. Silvano Moffa nel 2003, dopo aver perso la provincia di Roma, è tornato al Secolo per nove mesi fino a quando è stato eletto sindaco di Colleferro nel 2004. Senza contare il vero vantaggio: la doppia pensione da giornalista che si unisce al vitalizio parlamentare. Fino al 1999, tutti i giornalisti in aspettativa parlamentare maturavano i contributi figurativi senza versare un euro. Dal 1999 i parlamentari pagano almeno la loro quota di contributi fissata all’8,69 per cento. Mentre la parte a carico dell’editore la paga l’Istituto previdenziale, cioè i giornalisti tutti. Al Fatto che gli chiede se, in un momento di sacrifici, non sarebbe il caso di rinunciare alla pensione da giornalista, avendo già diritto al vitalizio parlamentare, Gasparri replica: “Se qualcuno davvero volesse togliermi questo diritto mi dovrebbe prima restituire i contributi già pagati. E’ un diritto riconosciuto a chiunque vada in aspettativa e non è un privilegio. Se la vogliamo dire tutta io al Secolo ho fatto il direttore pagato solo come un caposervizio e, dopo l’elezione del 1992, l’ho fatto anche gratis fino al 1994, quando sono stato nominato sottosegretario e ho lasciato. Altro che privilegio”. Al Secolo sono avvertiti: poche storie o l’ex direttore Gasparri chiede pure gli arretrati.
martedì 25 dicembre 2012
lunedì 24 dicembre 2012
Trattativa, nell'inchiesta anche la mancata cattura del boss Santapaola. - Aaron Pettinari
Si arricchisce di un nuovo tassello l'inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia: la mancata cattura del boss Nitto Santapaola. Secondo i magistrati che stanno portando avanti l'indagine, i pm Di Matteo, Del Bene, Sava e Tartaglia, tra il 1992 e il 1993 il vertice del Ros avrebbe offerto un salvacondotto, oltre che a Bernardo Provenzano, anche al capomafia catanese. Gli inquirenti hanno recuperato alcune intercettazioni dell'aprile 1993.
In alcune conversazioni due mafiosi avrebbero parlato di un incontro recente col capomafia catanese quindi in un'altra registrazione all´interno di un ufficio di autotrasporti tenuto sotto controllo a Terme Vigliatore, nel messinese, sarebbe registrata persino la voce del boss. Gli interlocutori lo chiamavano “zio Filippo”. “So che hanno fatto un blitz a Milano per droga... - diceva -. E lì ci hanno messo Totò Riina, a me, Madonia, tutti lì, tutti catanesi, perciò alcuni sbirri pensano una cosa, altri ne pensano un'altra...”. In un secondo colloquio intercettato lo stesso giorno, uno degli interlocutori dice all'altro: “Se non svieni e non lo dici a nessuno, io ti dico chi era quella persona che c'era qua dentro poco fa. Era Nitto Santapaola...”. Nonostante ciò non venne effettuato alcun blitz ed anzi gli uomoni dell'arma furono protagonisti di una sparatoria in cui fu coinvolto un ignaro passante, scambiato per il ricercato Pietro Aglieri. Un disguido, venne detto all'epoca. Per l'accusa un messaggio a Santapaola per proteggerne la latitanza che durò fino al 18 maggio, quando venne arrestato dalla Polizia.
Adesso, queste intercettazioni sono state inserite nei cinque faldoni depositati agli atti dell´udienza preliminare del processo per la trattativa in corso a Palermo. I documenti sono stati scovati negli archivi di Messina, Reggio Calabria e Barcellona Pozzo di Gotto. Secondo gli inqurenti Santapaola si sarebbe nascosto a Barcellona Pozzo di Gotto e nella stessa zona, ad aprile, si sarebbero trovati anche l’ex ufficiale Giuseppe De Donno, tra gli imputati del procedimento sulla trattativa, e l’allora capitano Sergio De Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina e che fu processato (e assolto, come Mori) per la mancata perquisizione del covo del boss corleonese. Dopo la mancata cattura di Provenzano nel 1995, contestata all’ex generale del Ros Mario Mori, ‘concessione’, secondo i pm, fatta al boss proprio in nome della trattativa in corso, anche il mancato arresto di Santapaola sarebbe inserito in un possibile accordo.
Trattativa che sarebbe continuata anche dopo l’arresto, attraverso Francesco Di Maggio, allora vicedirettore del penitenziario in cui si trovava detenuto Santapaola.
A raccontare questa fase della trattativa è l'avvocato Rosario Cattafi, arrestato l'estate scorsa dai magistrati di Messina che lo considerano il referente della cosca barcellonese e ora detenuto al “carcere duro”. Nell'aprile '93 il vice direttore delle carceri lo avrebbe contattato proprio per far arrivare un messaggio a Santapaola per fermare le stragi.
A raccontare questa fase della trattativa è l'avvocato Rosario Cattafi, arrestato l'estate scorsa dai magistrati di Messina che lo considerano il referente della cosca barcellonese e ora detenuto al “carcere duro”. Nell'aprile '93 il vice direttore delle carceri lo avrebbe contattato proprio per far arrivare un messaggio a Santapaola per fermare le stragi.
E ieri, durante l'udienza preliminare, il pm Nino Di Matteo ha spiegato il perché nell'ottobre '95 non venne arrestato Provenzano: “Non si trattò di un episodio isolato ma della volontà di adempiere a un patto, un accordo che è parte della trattativa scaturita dal ricatto mafioso. Provenzano venne lasciato in latitanza perché una parte delle istituzioni riteneva utile che prevalesse la fazione interna a Cosa nostra da lui guidata. Perciò conveniva che Provenzano rimanesse in libertà”.
All'udienza davanti al gup Piergiorgio Morosini è anche intervenuto con delle dichiarazioni spontanee Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e di calunnia. “Sono stato il primo a parlare di una trattativa tra Stato e mafia” ha dichiarato mente i suoi legali depositavano agli atti un verbale di interrogatorio reso nel 2008 davanti ai giudici di Caltanissetta. Nel corso dell'udienza, che si è tenuta ancora a porte chiuse, sono state numerose le richieste avanzate dai difensori dei 12 imputati. Il legale di Mori, l'avvocato Basilio Milio ha chiesto la produzione delle intercettazioni fatte due anni fa a Verona tra Massimo Ciancimino ed un uomo ritenuto vicino alla 'Ndrangheta. Inoltre, il legale ha chiesto anche la produzione degli atti del processo Mori. I legali di Nicola Mancino hanno, invece, fatto sapere che nell'udienza del 9 gennaio 2013 l'ex ministro dell'Interno farà dichiarazioni spontanee. Anche i pm Nino Di Matteo, Lia Sava e Roberto Tartaglia hanno annunciato la produzione di nuovi atti. L'udienza è stata rinviata a lunedì prossimo quando il guo Morosini si esprimerà sulle decisioni.
Il caso Scarpinato verso l’archiviazione, la discussione del Csm.
Lo scorso 7 novembre il Plenum del Csm ha votato a favore dell'archiviazione della pratica relativa alle dichiarazioni del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, in occasione dell'anniversario di via D'Amelio. Quel giorno Scarpinato aveva letto una lettera a Paolo Borsellino.
“Caro Paolo – si leggeva nel testo - stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole - emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà”. Parole ineccepibili, prive di alcun cenno offensivo o infamante, nella piena libertà di espressione che rientra in una democrazia compiuta. Ma non in Italia, dove, su decisione del Comitato di presidenza del Csm (su richiesta del laico del Pdl Nicolò Zanon), a seguito di quelle dichiarazioni, si era proceduto ad inviare gli atti riguardo la nomina del nuovo procuratore generale di Palermo al pg della Cassazione Gianfranco Ciani. In questo modo si metteva a rischio la domanda di trasferimento di Roberto Scarpinato da Caltanissetta al capoluogo siciliano, così da minare la sua nomina a procuratore generale di Palermo. A sostegno di Scarpinato era stata redatta una lettera-appello firmata da oltre 400 magistrati, da diversi familiari di vittime di mafia (tra cui Agnese, Salvatore e Rita Borsellino) e numerosi esponenti della società civile; anche l'Anm aveva criticato l'apertura della pratica nei confronti del pg nisseno.
Riportiamo di seguito il testo integrale della discussione al Plenum del Csm in attesa di conoscere la decisione dell’organo di autogoverno delle toghe.
SCARICA IL DOCUMENTO: Trascrizione discussione Csm
Riportiamo di seguito il testo integrale della discussione al Plenum del Csm in attesa di conoscere la decisione dell’organo di autogoverno delle toghe.
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Le "Ragioni di Stato" e le parole vuote di Nicola Mancino. - Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
“Ho buoni e doverosi motivi per affermare che io non sono stato spregiudicato nel coinvolgere nelle indagini sulla cosiddetta trattativa il capo dello Stato, che ho sempre stimato per la sua alta funzione e con il quale ho avuto modo di conservare, collaborando, stima, rispetto, amicizia e devozione”.
La penosa replica dell'ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, alle pesanti accuse di Agnese Borsellino rilasciate alla giornalista di Servizio Pubblico si commenta da sola. L’ex vice presidente del Csm ha ribadito la sua totale estraneità alla trattativa Stato-mafia: “Non ho mai saputo niente e, perciò, non ho avuto nessun ruolo...”.
Al di là della sua prevedibile autodifesa resta però ancora sospesa la mancata spiegazione di una sua affermazione intercettata al telefono con l’allora Consigliere di Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio, scomparso lo scorso 26 luglio. In quella telefonata il privato cittadino Nicola Mancino dichiarava di essere “un uomo solo” che in quanto tale “va protetto” affinché non chiami in causa “altre persone”.
Di fronte alla nostra richiesta di un chiarimento Mancino aveva definito “una sciocchezza” la domanda stessa, aggiungendo che prima di rispondere alla stampa lo avrebbe riferito “al giudice”.
Ma allo stato non ci risulta alcuna sua intenzione di fare chiarezza in merito. La sua paventata “estraneità” alla trattativa Stato-mafia stride ulteriormente con le sue stesse affermazioni fatte a D’Ambrosio.
Quello che vorremmo chiedere al senatore Mancino è cosa avrebbe risposto se a chiedergli conto di quella telefonata fosse stata la signora Agnese Borsellino. Quali giustificazioni avrebbe utilizzato per sviare l’attenzione dalla gravità di quelle sue affermazioni? E soprattutto quale diabolica “ragione di Stato” avrebbe possibilmente chiamato in causa per scagionare se stesso e quelle “altre persone” coinvolte di cui sarebbe a conoscenza?
Il suo silenzio è forse legato alla paura di finire vittima di un sistema criminale che non perdona coloro che “parlano”? Al momento non è possibile ipotizzare se Mancino mai riferirà ad un giudice tutto – ma proprio tutto – quello che sa su una trattativa che si è consumata anche nel periodo della sua reggenza al ministero dell’Interno.
“Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?”, si è chiesta la signora Agnese. Il riferimento al primo luglio 1992 è legato al suo incontro al Viminale con Paolo Borsellino. Senatore Mancino, a distanza di vent’anni, seppur con fatica, lei ammette di avergli potuto stringere la mano, ma non chiarisce minimamente il tema di quell’incontro. Oggi, dopo le dichiarazioni di Agnese Borsellino, lei tenta nuovamente la carta dell’auto assoluzione.
Di fonte alla purezza d’animo della signora Agnese nei confronti della quale siamo tutti debitori e soprattutto di fronte alla pretesa di giustizia della vedova del giudice Borsellino lei ha il dovere di dire la verità. Non ci potrà essere alcuna “ragione di Stato” eterna che potrà proteggere chi la utilizza a mo’ di scudo protettivo. Allo stesso modo non ci potrà essere alcuna garanzia di impunità per chi non ha intenzione di fare luce sul biennio stragista ‘92/’93, costoro non potranno in ogni caso ritenersi esenti da eventuali ritorsioni da parte di quegli stessi apparati che hanno ordito stragi e depistaggi. Probabilmente è questo il dilemma che agita le notti e i giorni di coloro che, in un modo o nell’altro, sono stati protagonisti o spettatori della trattativa. E Nicola Mancino non può non essere consapevole di ciò. Se, come abbiamo riportato all’inizio, Mancino afferma di non essere stato “spregiudicato nel coinvolgere nelle indagini sulla cosiddetta trattativa il capo dello Stato” implicitamente fa intendere invece di avere coinvolto Napolitano.
E allora perché l’ha coinvolto?
E allora perché l’ha coinvolto?
Italo Calvino.
“Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perchè le risorse mancano, o i costi sono eccessivi.
Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.”
Italo Calvino
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