martedì 5 aprile 2016

L’Italia senza fibra che naviga quattro volte più lenta della Corea. - Giacomo Galeazziilario Lombardo


Connessione in rame anni 90 e mezzo Paese non usa Internet. Ma le aziende promettono una velocità irraggiungibile.

L’Italia è una Repubblica fondata sui 56K, in pratica la velocità di Internet negli anni 90. Su 28 Paesi dell’Ue è al 25° posto dell’indice europeo di digitalizzazione (Desi). E se in Corea del Sud, leader mondiale, la velocità media di connessione è di 20,5 megabit, e in Svezia, leader europeo, è di 17,4 mega, noi siamo fermi a 5,4 mega. In Italia il servizio universale garantito per legge è fermo al doppino di rame collegato al modem. Per questo, mentre giovedì è atteso l’ennesimo lancio del piano di governo sulla banda ultralarga, l’Autorità garante nelle comunicazioni chiede un salto tecnologico nella qualità minima dei servizi di accesso a Internet. «In Italia ci sono le condizioni per passare dai 56K ad almeno 2 mega» spiega il presidente dell’Agcom Angelo Cardani. 2 mega vuol dire il minimo necessario per parlare di Adsl, un sistema di connessione che a oggi è preistoria. Intendiamoci, qui stiamo ancora discutendo di «accesso efficace» alla Rete, mentre ci sono Paesi come la Finlandia che dal 2010 garantiscono un megabit gratuito a ogni cittadino, nella convinzione che Internet sia un bene (pubblico) necessario. Per capirsi: 56K è la banda stretta. Con l’Adsl si entra nella banda larga che ancora domina in Italia. Il mondo è proiettato ormai verso la banda ultralarga, cioè una velocità che va da 30 mega in su, più facile da ottenere grazie alla fibra ottica. I ritardi dell’Italia sono sintetizzati in cifre impietose. La copertura di banda ultralarga (superiore a 30 mega) è ferma al 44% contro una media Ue del 71%. Quella a 100 mega è inchiodata al 10,2% contro l’85% richiesto dall’Europa entro il 2020. Gli italiani che hanno abbonamenti sopra i 30 mega sono il 5,4% (il 30% nell’Ue).  

I buchi neri della Rete  

Quando è arrivato a Genova, da Montreal, per il suo dottorato, Sandro Bettin ha trovato una brutta sorpresa: «Non ho potuto sottoscrivere un abbonamento Adsl. A casa mia la rete fissa non esiste». Prima il rimpallo di responsabilità tra Infostrada e Telecom, poi gli hanno spiegato che non c’erano linee disponibili nella centralina di zona. Nella condizione di Sandro si trovano altri cittadini finiti nei buchi neri della Rete. Un paradosso mentre si parla sempre di più dell’esigenze di definire Internet un servizio universale. Al ministero dello Sviluppo economico il dossier connettività è affidato al sottosegretario Antonello Giacomelli. La scorsa settimana ha chiesto al commissario Ue Günther Oettinger che la Rete diventi davvero un diritto per tutti, come strade, acqua, poste. Peccato però che la fotografia dell’Italia dica il contrario e immortali un Paese a due velocità, con due terzi dei Comuni senza banda ultralarga e 19 milioni di cittadini che vivono nelle «aree bianche». Sono zone «a fallimento di mercato» dove i privati non trovano conveniente investire in infrastrutture di rete. Sono 5 mila comuni su 8 mila. Si va dalla periferia di Roma al paesino di montagna. 

Il caso Telecom  

La causa principale dei ritardi risale a una privatizzazione mal gestita che ha regalato la proprietà della rete fissa all’ex monopolista Telecom. Quando il rame sembrava la miglior soluzione, la compagnia investì in rame. Quando si cominciò a parlare di fibra ottica, rimase al rame. Una delle migliori reti in rame del mondo, ma cosa te ne fai quando le performance più efficaci ormai viaggiano su fibra? Telecom, anche per l’impressionante debito accumulato, non ha investito nelle nuove tecnologie. Perché farlo, è l’ovvio ragionamento, se così si svaluta la propria rete? «Ma la sola logica di mercato non garantisce il futuro» spiega Alessio Beltrame, a capo della segreteria tecnica del Mise. Il governo ha buon gioco a scaricare su chi lo ha preceduto le responsabilità sul digital divide mentre non nasconde una certa ostilità nei confronti di Telecom, avendo affidato a Enel il compito di portare la fibra nelle case degli italiani per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda europea 2020. Anche i più ottimisti pensano che l’Italia, con la burocrazia che ha e i permessi che servono, non ce la farà. Renzi ha dato un’accelerata ma gli scenari restano aperti. Al centro c’è la sfida Telecom-Enel e l’incognita su Metroweb, la società pubblica, che ha il suo gioiello nella rete a banda ultralarga di Milano.  

Il piano strategico del governo divide l’Italia in quattro zone (cluster): A e B sono le più remunerative. C e D sono le «aree bianche» dove è necessario l’intervento pubblico. Il governo vuole partire da quest’ultime con 3 miliardi di stanziamento. L’obiettivo è arrivare con la fibra a casa, l’unica che permette di andare anche molto oltre i 100 mega: è la Ftth (Fiber to the home) che garantisce velocità di connessione più alta rispetto alla Fttc (to the cabinet) che porta la fibra fino all’armadio in strada e poi prosegue sul rame. Un sistema misto che Telecom, contattata dalla Stampa, difende: «Se la casa non è lontana, e in genere in Italia è così, su 100 mega di velocità il rame fa perdere al massimo il 5% di velocità. Fare anche l’ultimo quinto di collegamento in fibra è più costoso perché si deve entrare nei condomini». Enel invece, sostenuta dal governo, dice di essere in grado di portare a costi ridotti la fibra in casa, attraverso la posa aerea e la sostituzione di 32 milioni di contatori elettrici. Una rete che verrebbe affittata agli operatori interessati a fornire il servizio, come Vodafone e Wind che hanno già sottoscritto un accordo con Enel. A occuparsi dei bandi di gara nelle «aree bianche» sarà la società pubblica Infratel. Il suo presidente, Salvatore Lombardo, ha chiare le conseguenze per Telecom: «Offrendo la fibra fino a casa, Vodafone e Wind potrebbero prendersi i clienti di Telecom. Se Telecom sta ferma, perde posizioni di mercato. Se invece reagisce e sposa la nuova infrastruttura, la sua rete in rame non servirà più».  

Il recente passaggio di Telecom in mani francesi ha rimesso in pista l’ipotesi di scorporare la rete dell’ex monopolista, che a quel punto non è detto non possa tornare allo Stato magari a un prezzo inferiore. «La rete vale ancora 13 miliardi ed è l’unica garanzia del debito con le banche» spiega Maurizio Matteo Dècina, ex vicepresidente dei piccoli azionisti Telecom, esperto di banda larga. «Lo Stato comprando la rete potrebbe accorparla alle altre, compresa Enel, e creare una società unica delle reti». Dècina sta per uscire con un libro, Digital divide et impera, che svela l’altra forte carenza italiana, dopo quella infrastrutturale: la scarsità di domanda.  

Analfabetismo digitale  

In un Paese dove, secondo il Desi, il 37% della popolazione non usa Internet, parlare solo di reti è come costruire autostrade mentre i cittadini non hanno la patente. «Il governo dovrebbe invertire la prospettiva - dice Dècina - perché è la domanda che crea l’offerta». E dovrebbe farlo a partire dalla pubblica amministrazione, il cui livello di digitalizzazione (e-government), nonostante i proclami, è ancora basso. Un esempio è l’e-procurement, cioè l’acquisto dei beni e servizi via web che sfoltirebbe molti costi ma che ancora non supera il 10%. Il Sistema di identità digitale (Spid, password per l’uso dei servizi pubblici) va ancora a rilento, e rischia di creare ulteriori discriminazioni, come spiega Guido Scorza, docente di Diritto delle nuove tecnologie: «Avremo cittadini che potranno esercitare i propri diritti per via telematica e altri no, a causa del gap tecnologico». Il digital divide si allargherebbe. La diffusione della banda ultralarga deve rispondere a questo, tenendo presente che copertura e utenza effettiva sono due cose ben diverse. Lo insegna il caso della Calabria, al primo posto per cablaggio, in una classifica nazionale capovolta. Le regioni del Sud sono più avanti sulla banda ultralarga perché hanno usato i fondi comunitari 2007-2013. Altra cosa sono le connessioni effettive, quasi nulle: ci vorrebbero sistemi di incentivi e sconti per poveri, studenti, malati, disoccupati. «Infatti pensiamo a voucher e buoni per stimolare la domanda» ammette Beltrame.  

Dal turismo alla telemedicina, il futuro dell’economia passa dalla fibra. Secondo la Commissione Ue e la Banca Mondiale, a un aumento del 10% di penetrazione della banda larga corrisponde un punto e mezzo di Pil. Intanto c’è chi si arrangia. Il piccolo centro di Serramanna, nel cuore della Sardegna, sarebbe potuto diventare un rivoluzionario laboratorio di finanza online. Qui nel 2010 nasce Sardex, un circuito di credito commerciale basato su una moneta digitale locale: una delle prime 20 startup innovative oltre il milione di euro di fatturato, malgrado le croniche difficoltà di accesso a Internet. Dai 56K degli inizi all’Adsl da 7 mega, fino al potenziamento della centralina per intervento del governo. «Ma gli attuali 20 mega non ci bastano per 30 dipendenti sempre connessi», racconta Carlo Mancosu, uno dei cinque fondatori di Sardex.  

È vera fibra?  

In Italia dal 2012 esiste un software di Agcom (Misura Internet), l’unico che certifica la reale qualità della connessione rispetto al servizio acquistato e permette di recedere senza penale. Su 50 mila casi l’80% di misurazioni ha attestato la violazione del contratto. La sfida della fibra servirà anche a far chiarezza sulle offerte commerciali proposte dalle compagnie telefoniche. Tim smart fibra, Wind absolute fibra, Ultrafibra di Fastweb. C’è stato un palese abuso del termine «fibra» nelle campagne pubblicitarie, nonostante la tecnologia sia ibrida e poggi anche sul rame, come un maglione che viene venduto in lana ma per metà è di poliestere. Nelle condizioni di contratto si specifica che l’offerta è la fibra fino al cabinet «Ma guardando la pubblicità in tv sembra che la fibra arrivi ovunque fino a casa» ci spiegano da Altroconsumo che tra i tanti reclami raccolti ha quello di Stefano, cliente Fastweb dal 2011, che dopo aver sottoscritto un aumento della banda da 10 a 100 mega, si è trovato a navigare in wi-fi a metà della velocità. O ancora Chiara F. che lo scorso ottobre ha stipulato un abbonamento Superjet di Fastweb da 20 mega ma non arriva neppure a uno. Appena tre giorni fa, in Francia un decreto ha stabilito che si può definire «fibra» solo quella che arriva fino a casa (Ftth). «Quando anche in Italia la fibra in casa arriverà davvero - sorride Beltrame - mi chiedo quale superlativo inventeranno le aziende visto che li hanno usati tutti». 

http://www.lastampa.it/2016/04/03/italia/cronache/litalia-senza-fibra-che-naviga-quattro-volte-pi-lenta-della-corea-BMlawdJKuIy1BuJcVuF1BL/pagina.html

E mentre in Finlandia credono che la fibra sia un bene pubblico, in Italia chi comanda ha paura che una connessione veloce possa creare vari problemi o intoppi alle loro magagne, sappiamo tutti, infatti, che dominare gli ignoranti è più semplice che abbindolare gli edotti.

domenica 3 aprile 2016

Piante grasse.


I fiori delle piante grasse hanno colori vivaci e, a volte, sono anche molto profumati.




I fiori delle piante grasse di Cetta.

I glicini di Cetta.


Ogni anno la natura rinnova il suo miracolo.
I miei glicini, belli e profumati.
Cetta

Palermo maltrattata.


E' mortificante vedere Palermo, una città splendida, nel degrado totale. La sporcizia dilaga; da tempo immemorabile cartacce, sterpaglia alta due metri, vetri di bottiglie, sacchetti di plastica sono sparsi ovunque, nelle aiuole, sui marciapiedi e a coprire tombini con il conseguente intasamento ed allagamento in caso di pioggia.
E non si può attribuire la colpa solo ai palermitani ineducati, perchè questa sporcizia è lì da sempre, non viene mai raccolta, e quando, sporadicamente, il comune di degna di mandare gli "operatori ecologici", che di ecologico hanno poco o nulla, questa spazzatura viene ammonticchiata e lasciata sul posto per tanto tempo, con il risultato che la prima folata di vento la sparpaglia nuovamente ovunque capiti!
Io le tasse le pago, tutte e tante, gradirei averne un riscontro!




Cetta.

sabato 2 aprile 2016

Petrolio in Basilicata, 850mila tonnellate di sostanze pericolose nei pozzi. “Eni beneficiaria dell’ingiusto risparmio”. - Thomas Mackinson

Petrolio in Basilicata, 850mila tonnellate di sostanze pericolose nei pozzi. “Eni beneficiaria dell’ingiusto risparmio”

Le dimissioni del ministro Guidi hanno messo in secondo piano le pesantissime accuse per reati ambientali della Procura di Potenza. Secondo i pm, grazie all'alterazione dei codici rifiuto, l'azienda ha risparmiato fino a 100 milioni sui costi di smaltimento. Anche le emissioni in atmosfera, sistematicamente in eccesso, venivano taroccate. La produzione, per ora, è sospesa. Intanto prosegue l'indagine dei carabinieri del Noe e non si esclude l'ipotesi di disastro ambientale.

Sei numeri su un foglio. Bastava cambiarne due per far splendere il sole nella valle del petrolio. Il rifiuto da pericoloso diventava innocuo, pronto per esser smaltito nei pozzi e nelle terre agricole della Val D’Agri, a un costo di 33 euro a tonnellata anziché 90 o 160. Un cambio dei “codici Cer” operato sistematicamente dai manager dell’Eni di Viggiano, con la complicità delle ditte incaricate dello smaltimento, che avrebbero reiniettato in un solo anno qualcosa come 854mila tonnellate di liquidi inquinanti, permettendo – secondo i pm – alla società del cane a sei zampe di risparmiare fino a 100 milioni di euro.
E’ solo un frammento della vicenda che ha sconvolto la Basilicata. Una storia che rischiava di finire in ombra per via delle più clamorose dimissioni del ministro Guidi, costretto a lasciare a causa delle intercettazioni con il compagno sullo sblocco del progetto Tempa Rossa, sul quale l’imprenditore aveva messo gli occhi. Invece l’indagine dei carabinieri del Noe sul fronte ambientale prosegue, e la procura di Potenza non esclude l’ipotesi di disastro ambientale. In ballo c’è il destino delle terre inquinate e il futuro dello stabilimento coi relativi guai occupazionali che già si profilano. Fino a segnare, forse, il definitivo tramonto della grande illusione del petrolio pulito in Val D’Agri.
Eni, il “principale beneficiario” – Sullo sfondo, resta anche il tema delle emissioni in eccesso, a completare l’opera di chi – per un qualche profitto e tornaconto ancora da chiarire – ha inteso nascondere per anni la reale capacità inquinante dell’impianto petrolifero, avvelenando l’ambiente. Sul punto Eni, come si conviene, ostenta sicurezza. Precisa che i sei dipendenti arrestati sono stati subito sospesi e che è in corso un’indagine interna. Sulle motivazioni che li avrebbero indotti a taroccare rifiuti pericolosi ed emissioni in eccesso trapela un malcelato stupore. I pm non contestano loro il peculato, Eni smentisce che possano aver ricevuto premi per i risparmi conseguiti illecitamente. E dunque le utilità di quelle condotte non avrebbero altro agente che l’azienda stessa che i pm indicano espressamente come “il principale beneficiario dell’ingiusto risparmio conseguito”. E tuttavia Eni non risulta tra i soggetti indagati. D’altra parte quello stesso risparmio appare risibile sia per un’azienda che fattura 200 miliardi l’anno e rispetto al rischio di finire nella bufera e vedersi sigillare gli impianti. Al momento, a quanto si apprende, la società presieduta da Emma Marcegaglia è impegnata proprio nel tentativo di scongiurare il sequestro del centro oli, contestando il nesso causale tra il suo funzionamento e la reiterazione del reato, come all’Ilva di Taranto. E anche in Basilicata si farà leva sul fattore occupazionale che non riguarda solo i 196 occupati diretti al Cova ma molti di più: gli ultimi dati pubblicati nel LR 2014 mostrano che hanno lavorato per le attività di Eni Distretto Meridionale 3.530 persone di cui 409 occupati diretti e 3.121 occupati indiretti nell’indotto oil&gas. I dipendenti da giorni stanno facendo manutenzione alle macchine ferme, la certezza è che “viste le perdite, se l’attività non riprende a breve non potremo garantirgli un lavoro”. E il ricatto è servito.
Scambio di codici. E le sostanze nocive finiscono nel pozzo – 
Poi c’è l’ambiente, poi. 
E’ l’ordinanza del Noe dei carabinieri il fulcro di questa storia che porta all’emissione di una cinquantina di provvedimenti cautelari e al sequestro preventivo dell’impianto Cova di Viggiano. Per l’alterazione dei codici rifiuto sono indagati vari manager e responsabili del centro, imprenditori dello smaltimento. L’elenco comprende funzionari della regione, otto manager dell’Eni nonché imprenditori affidatari di contratti di smaltimento. Tutti, secondo le accuse, contribuivano in vario modo a praticare e gestire il “traffico illecito di rifiuti”. Di queste condotte, al di là delle posizioni giudiziarie, resta il lascito di centinaia di migliaia di tonnellate di liquidi contenenti metidieanolammina (MDEA) e glicole trietilenico, sostanze tossiche che venivano comunemente smaltite come acque di produzione e reiniettate nel pozzo Costa Molina2, ubicato in agro di Montemurro (PZ), benché in realtà fossero “rifiuti speciali pericolosi” da trattare anziché nascondere sotto terra. Le cronache lucane sono piene di studi, rilevazioni e dossier che attestano da anni il riemergere degli inquinanti e degli scarti di estrazione/lavorazione degli idrocarburi. Dati che venivano smentiti dall’Eni e dalle autorità pubbliche, sulla scorta di certificazioni che l’inchiesta definisce senza fronzoli “false”.
Sforamenti e allarmi ignorati. Il sistema per nasconderli – False anche le attestazioni sulla capacità inquinante dei camini del centro Oli che, insieme ai residui di produzione, sono l’altro fattore di maggior impatto ambientale. Qui gli inquirenti hanno fatto un lavoro certosino tra intercettazioni e documenti, rilevando come gli allarmi per gli sforamenti dei limiti alle emissioni in atmosfera fossero sistematicamente falsati, per ricondurli ai valori delle prescrizioni e nasconderli alle autorità competenti, sempre allo scopo di non incorrere nel blocco delle attività del centro. A consentirlo era il sistema automatizzato di monitoraggio degli allarmi, che prevedeva l’invio di un sms a una lista di funzionari dell’Eni-Cova, con anche l’indicazione del punto di emissione (camino). Solo tra dicembre 2013 e luglio 2014 ne arrivano 208, tutti a indicare l’avvenuto superamento dei limiti di emissione di Nox So2.
Il Noe di Potenza accerta però che per molti avvisi scattava da parte dei vertici del Centro Oli una “condotta fraudolenta volta a nascondere agli enti di controllo le reali cause del problema e celare le inefficienze dell’impianto”. Nelle intercettazioni, ad esempio, i vertici della gestione ambientale del SIME di Eni, Vincenzo Lisandrelli e Roberta Angelini, si accordano su come giustificare gli sforamenti per farli apparire transitori, al fine di non palesare i persistenti problemi dell’impianto che possono causare problemi di carattere prescrittivo. Un trucco per abbattere il numero di sforamenti segnalati era quello di tenere aperta la comunicazione oltre le 24 ore previste, così da far rientrare più eventi in una sola.  “Appare chiaro”, scrivono i magistrati “che i problemi impiantistici che causano gli sforamenti delle emissioni in atmosfera del Cova hanno ripercussioni anche sulla qualità dei rifiuti liquidi che escono dal Cova e vanno a smaltimento presso i vari depuratori finali”. E’ il perfetto (quanto illecito) ciclo dei rifiuti: dove a un dato alterato ne segue un altro, lungo tutta la filiera che porterà l’ombra nera del petrolio più sporco sulla Val D’Agri.

venerdì 1 aprile 2016

Vaticano apre inchiesta sull'attico di Bertone. L'Espresso mostra le lettere che lo inchiodano. - Emiliano Fittipaldi

Vaticano apre inchiesta sull'attico di Bertone. L'Espresso mostra le lettere che lo inchiodano


I giudici di papa Francesco hanno iscritto nel registro degli indagati il manager Profiti e il tesoriere del Bambin Gesù per i 400mila euro destinati all'ospedale ma usati per ristrutturare l'appartamento del Cardinale. Che ha sempre dichiarato di esserne all'oscuro. Ma questi documenti lo smentiscono.

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Il Vaticano ha aperto un’inchiesta sull’attico di Tarcisio Bertone, e ha già iscritto nel registro degli indagati due persone: Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambin Gesù e manager vicinissimo al cardinale, e l’ex tesoriere Massimo Spina. L’istruttoria penale è scaturita dalle rivelazioni del saggio "Avarizia", pubblicato da chi scrive , e ora rischia di sconvolgere nuovamente gli assetti della curia romana: i giudici di papa Francesco ipotizzano infatti reati gravissimi («peculato, appropriazione e uso illecito di denaro», si legge nelle carte d’accusa) e hanno già trovato i riscontri documentali che dimostrano che i lavori di ristrutturazione dell’appartamento sono stati pagati dalla Fondazione dell’ospedale pediatrico "Bambin Gesù".

Lavori costati in totale ben 422 mila euro ("Avarizia" sottostimava la cifra a 200 mila euro), che sono stati fatturati nel 2014 non alla società italiana che ha materialmente effettuato il restauro (La Castelli Re, fallita a luglio del 2015), ma a una holding britannica con sede a Londra, la LG Concractor Ltd. Controllata sempre da Gianantonio Bandera, titolare della Castelli Re e amico personale di Bertone.
I soldi destinati ai bambini malati sono stati, in pratica, utilizzati per la ristrutturazione, e poi girati a Londra. Oltre alle sette fatture pagate al costruttore attraverso i conti Ior e Apsa della Fondazione, però, i magistrati di papa Francesco hanno in mano anche lettere firmate che inchiodano l’ex segretario di Stato di Benedetto XVI alle sue responsabilità: Bertone, che ha finora sostenuto di essere all’oscuro di eventuali finanziamenti di terzi, è invece sempre stato a conoscenza che i soldi del restauro del suo appartamento venivano (anche?) dall’ente di beneficenza dell’ospedale vaticano.

"L’Espresso", in un’inchiesta nel numero in edicola domani e già online su Espresso+ , è in grado di raccontare l’intera vicenda, e mostrare tutte le carte segrete. Tra cui la corrispondenza tra Profiti e Bertone. Dove si evince che il manager, in una lettera firmata del 7 novembre 2013, ha davvero offerto al cardinale di pagare (tramite la onlus dedicata ai bambini malati) i lavori dell’attico di residenza in cambio di ospitare «incontri istituzionali» nella casa, e che Bertone - il giorno dopo - lo ha ringraziato accettando l’offerta, allegandogli persino una lista di "desiderata".
La lettera di Profiti, presidente della Fondazione Bambin Gesù, mandata a Bertone il 7 novembre 2013, in cui il manager si offre di pagare i lavori di ristrutturazione della casa del cardinale.

«Egregio Professore, la ringrazio per la lettera del 7 novembre, che mi ha inviato a nome della Fondazione Bambino Gesù» scrive Bertone. «Al riguardo, come già riferito nelle vie più brevi, tengo a confermare che sarà mia cura fare in modo che la copertura economica occorrente alla realizzazione degli interventi proposti nella documentazione che allego, venga messa a disposizione della Fondazione a cura di terzi, affinché nulla resti a carico di codesta Istituzione». Il cardinale si era sempre difeso affermando che tutto era avvenuto a sua insaputa. «È una calunnia» s’era giustificato: «Ho pagato 300 mila euro, di tasca mia, secondo le fatture che mi aveva mandato il Governatorato, proprietario dell’immobile. I 200 mila euro versati dalla Fondazione? Io non ho visto nulla. Ed escludo in modo assoluto di aver mai dato indicazioni o autorizzato la Fondazione ad alcun pagamento». Ora sappiamo che, almeno sul punto, mentiva.

La lettera di risposta di Bertone a Profiti, mandata l’8 novembre 2013: il cardinale ringrazia e accetta l’offerta, allegando anche la documentazione con alcuni interventi da realizzare.

Come detto, sul registro degli indagati del promotore di Giustizia sono finiti per ora in due: Profiti, da sempre manager di fiducia di Bertone e all’epoca dei fatti presidente sia del Bambin Gesù che della Fondazione, e l’ex tesoriere Spina. Il Vaticano considera entrambi «pubblici ufficiali» vaticani, e li accusa di concorso in peculato perché «si sono appropriati» si legge nel capo d’accusa «e comunque hanno utilizzato in modo illecito» fondi dell’ospedale «per pagare lavori di ristrutturazione edilizia di un immobile di terzi sito all’interno della Città del Vaticano, sul quale nessuna competenza e nessun interesse poteva vantare la predetta Fondazione».

Nel documento dei pm non viene citato il nome di Bertone, ma difficilmente la Santa Sede potrà evitare un suo coinvolgimento diretto nello scandalo. Se Bertone fosse incriminato non sarebbe comunque giudicato dal tribunale ordinario che sta indagando su Profiti e il tesoriere, ma dalla Corte di Cassazione della Città del Vaticano: secondo la giurisdizione d’Oltretevere è quello l’unico organo che ha il potere di aprire un’istruttoria sui peccati dei cardinali di Santa Romana Chiesa. Sarebbe il primo caso della storia.


Ma la documentazione contabile in mano al promotore di giustizia apre anche nuovi, preoccupanti scenari: quelli di un doppio pagamento. Bertone ha infatti spiegato di possedere la documentazione che dimostrerebbe come sia stato anche lui a saldare il conto. Attraverso un pagamento di 300 mila euro. «Mentre avanzavano i lavori e alla Ragioneria arrivavano le fatture da pagare, fui invitato dal Governatorato, il proprietario dell’immobile, a saldare. E come risulta da una precisa documentazione, ho versato al Governatorato la somma», ha confermato in un’intervista. 

Tralasciando la sorpresa di scoprire che un uomo di Chiesa ha un conto in banca capace di coprire spese per quasi mezzo milione di euro (tra lavori e successiva donazione), il pagamento a cui fa riferimento il prelato non è mai stato smentito dal Governatorato, un organismo presieduto dal cardinale Giuseppe Bertello. Dal momento che finora è certo che la Fondazione ha girato al costruttore Bandera 422mila euro per gli stessi lavori, delle due l’una: o Bertone mente di nuovo - ed è coperto dagli uffici del Governatorato - e in realtà non ha mai versato un euro, oppure il costruttore ha ottenuto per la medesima ristrutturazione non solo i denari della Fondazione, ma anche i 300 mila euro di Bertone fatturati dagli uffici della Santa Sede.

La lettera del costruttore Bandera, che chiede a Profiti l’autorizzazione per cedere il contratto di appalto a una holding londinese (sarà lei a fatturare alla Fondazione 422 mila euro), e la risposta affermativa del braccio destro di Bertone.

Entrambe le versioni imbarazzano non poco il Vaticano. Che ha aperto - con coraggio - un vaso di Pandora in cui rischiano di finire altri, insospettabili protagonisti.

L'inchiesta integrale su l'Espresso in edicola da venerdì 1 aprile e su  Espresso+


http://espresso.repubblica.it/archivio/2016/03/31/news/vaticano-inchiesta-attico-bertone-espresso-mostra-le-lettere-che-lo-inchiodano-1.256129?ref=HEF_RULLO

Siamo messi malissimo, sia materialmente che spiritualmente.

Agenzia delle entrate: arriva il Grande Fratello di Fisco. Ecco cosa potrà sapere su ognuno di noi. - Viola Contursi

AGENZIA ENTRATE

Arriva il Grande fratello del fisco, o "Super anagrafe". Entro domani infatti scatta quello che qualcuno ha ribattezzato il D-Day: il giorno in cui banche, poste e operatori finanziari dovranno inviare all'Agenzia delle Entrate tutti i dati del 2015 che riguardano i nostri conti correnti. Si tratta di circa 500 milioni di nuovi dati su tutti noi. Un'arma in più, ad esempio, per scovare chi movimenta grandi quantità di denaro e poi si dichiara nullatenente.
Cosa cambierà per noi? In poche parole, il Fisco da domani saprà tutto di noi, attraverso l'Anagrafe dei rapporti finanziari che entra a regime. Per oltre 39 milioni di correntisti, verranno comunicati all'Agenzia delle Entrate in particolare il saldo contabile a fine 2014, il saldo a fine 2015, il totale degli accrediti effettuati nell'anno sul conto, il totale degli addebiti e la giacenza media annua. Saranno poi inviati i dati su depositi, investimenti, utilizzo delle carte di credito e bancomat, ricarica di carte prepagate, numero di accessi alle cassette di sicurezza.
"Il cittadino che non ha nulla da nascondere - spiega il presidente della commissione parlamentare di vigilanza sull'Anagrafe tributaria, Giacomo Porta - non deve temere nulla. Ma questo nuovo strumento può essere utile visto che in Italia c'è uno scarto molto alto tra accertato e riscossione: accade che non si riesca a riscuotere" le cartelle fiscali "perché il destinatario dell'accertamento risulta nullatenente". E con l'incrocio dei dati della dichiarazione dei redditi e dei movimenti sul conto corrente il fisco avrà un'arma in più per scovare questi "furbetti". Con un risvolto positivo anche sui conti pubblici.
"Di certo - continua Portas - molto meglio come strumento di contrasto all'evasione fiscale che inviare i marescialli davanti ai negozi o nei luoghi di villeggiatura, facendo solo scappare le persone". Come accadeva soprattutto nel 2012, sotto il governo tecnico di Mario Monti.
In realtà l'incrocio dei dati sui conti correnti non sarà alternativo agli accertamenti fiscali ma l'Agenzia delle Entrate potrà usarlo per un'analisi del "rischio di evasione". Incrociando quindi ad esempio i movimenti sul nostro conto corrente con le nostre dichiarazioni dei redditi degli ultimi anni, il Fisco potrà creare una sorta di identikit del contribuente "furbetto" o presunto tale, e potrà quindi solo a quel punto far partire prima una comunicazione chiedendo conto di eventuali anomalie, e quindi un eventuale accertamento. E' il caso, ad esempio, di una persona che ha un 730 da 15mila euro e un conto corrente con giacenza media o movimentazioni per 100mila euro o più. In questo senso, come ha chiarito il Garante delle Privacy Antonello Soro non ci sarà il rischio di "un controllo generalizzato e diffuso di tutti i contribuenti".
L'uso della super anagrafe del fisco riguarderà anche i "furbetti dell'Isee". Incrociando i nuovi dati sui conti correnti con le dichiarazioni dei redditi, l'Agenzia delle Entrate avrà un'arma in più per scovare chi mente sull'Isee, ovvero sull'indicatore della propria situazione economica, per ottenere sconti ad esempio su asili, mense, università.
Il futuro, spiega Portas, sarà incentrato tutto sullo scambio di informazioni delle banche dati. "Si potenzieranno sempre di più le banche dati - dice - cambiando alla radice la filosofia dell'Italia. Una cosa che negli altri Paesi accade già da 20 anni. L'incrocio delle banche dati è una grande conquista, che contribuisce anche ad una maggiore giustizia fiscale. Ora - si spinge oltre - dopo il 730 precompilato dobbiamo passare all'Unico precompilato".
La novità del Grande fratello del fisco viene accolta positivamente anche dalla Cgia di Mestre per cui ora "l'amministrazione finanziaria è nelle condizioni di non poter più sollevare alcun alibi. Con l'abolizione del segreto bancario ci sono 12 provvedimenti per contrastare efficacemente l'evasione".
L'invio dei dati sui conti correnti si va infatti a sommare ad altri strumenti anti evasione adottati in questi anni dal fisco, e che la Cgia elenca: gli studi di settore, i blitz contro la mancata emissione di scontrini e ricevute, il redditometro, lo spesometro, il numero 117 di pubblica utilità della Guardia di Finanza. E, ancora, Serpico (super cervellone che registra decine di migliaia di informazioni al secondo per mettere a confronto dichiarazioni dei redditi, polizze assicurative, informazioni del catasto, del demanio, della motorizzazione), metodologie di controllo delle Pmi e dei lavoratori autonomi, limite all'utilizzo dei contanti fino a 3.000 euro, utilizzo del Pos per le transazioni commerciali, fattura elettronica, reverse charge (l'obbligo del versamento dell'Iva da parte del cliente).
http://www.huffingtonpost.it/2016/03/30/grande-fratello-fisco_n_9574370.html

I corrotti al governo, gli stessi che manteniamo a suon di lauti stipendi, fanno le leggi per controllare noi cittadini...
Un paradosso divenuto realtà!