venerdì 8 marzo 2019

Sicilia, 8 Marzo macchiato di sangue: massacrata di botte dal fidanzato per un post.

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"Non permettere a nessuno di spegnere il suo sorriso". Per questo post una giovane di 30 anni è stata uccisa dal suo fidanzato. Massacrata di botte. 
Alessandra aveva 28 anni e amava la cucina. Viveva con Christian, 26 anni, in un piccolo appartamento in una borgata di Messina, Santa Lucia Sopra Contesse. I genitori di Alessandra abitano nello stesso edificio, al piano di sotto, ma non hanno sentito né le urla dell’ennesima lite scoppiata tra i due fidanzati, né le grida della ragazza, colpita più volte alla testa, sbattuta a terra fino a morire. A scoprire il delitto è stato il padre della giovane vittima. Con la moglie avevano più volte provato a chiamarla e, non avendo avuto risposta, si erano allarmati. Così ha deciso di salire in casa per capire cosa fosse accaduto. Entrato da una finestra rimasta aperta, ha trovato Alessandra sul letto in una pozza di sangue. Era morta probabilmente da qualche ora. Il viso tumefatto, il corpo pieno di lividi. Segni inequivocabili di una violenza bestiale. I sospetti degli inquirenti - le indagini sono state coordinate dal procuratore di Messina Maurizio De Lucia - sono caduti presto sul fidanzato. Le cose nella coppia non andavano più bene. Christian era geloso di un ex ragazzo della vittima e temeva che i due si fossero riavvicinati. Era diventato ossessivo, lei aveva deciso di lasciarlo.
Ieri sera l’ultima discussione. Christian ha perso la testa e l'ha massacrata di botte. Poi si è allontanato. Interrogato dalla polizia, ha prima negato. Poi è crollato e ha confessato l’omicidio, raccontando agli investigatori di aver agito in preda a un raptus di gelosia. La Procura l’ha fermato in serata.
«Non c'era stato mai nessun segnale e per questo non è stato possibile evitare questo gesto fatto eclatante» ha spiegato questa sera in una conferenza stampa, nella Questura di Messina, il Procuratore aggiunto Giovannella Scaminaci. «Gli strumenti oggi ci sono per prevenire questi fatti - aggiunge - ma non c'era mai stata una denuncia. Mi auguro che chiunque in futuro sia vittima di questo tipo di episodi li denunci». Il pm Marco Accolla titolare dell’inchiesta presente alla conferenza stampa osserva: «quanto è avvenuto è molto grave. A prescindere da quello che l’indagato ha dichiarato abbiamo continuato l’interrogatorio fino a quando ha ammesso le sue responsabilitá. La relazione inizia meno di un anno fa. Convivevano da maggio del 2018 spesso litigavano e interrompevano relazione ma si continuavano a frequentare. Ultimamente non dormiva a casa della ragazza. L’omicidio è avvenuto in tarda serata. Inizialmente ha tentato di allontanare da se ogni sospetto. Ha mandato una sms dal telefono della ragazza al padre di lei chiedendo aiuto. Nel messaggio dava la colpa all’ex ragazzo della giovane dicendo che era presente in casa e che le impediva di aprire la porta. Dopo alcune verifiche è emerso che l’ex fidanzato non c'entrava nulla e Ioppolo ha confessato. Il movente è la gelosia e le condizioni economiche molto difficili».

Ennesimo massacro il cui motivo non è, come vorrebbero far credere, la gelosia, ma la presunzione di possedere la donna come un bene del quale usufruire a piacimento. L'uomo difficilmente ama altri che non siano se stesso.
Il suo ego gli impedisce di amare, perché vuole sentirsi libero di volare di fiore in fiore pur continuando ad usufruire della stabilità del focolare domestico dove il suo "bene acquisito" gli garantisce una continuità, della quale non riuscirebbe a fare a meno; fermo restando, però, che questo bene-acquisito, essendo assurto all'onorifico ruolo di mamma-adottiva, non può permettersi la libertà di mollarlo, mettendolo in difficoltà anche nei confronti di parenti ed amici, per cui, durante una "tempesta emotiva", può capitargli di mettere in mostra .....il mostro che è!
bycetta.

L’altra verità sulla Tav. - Roberto Schena



In Italia il tratto Torino-Lione è in mano a un mega consorzio di note mega aziende: FIAT, Impregilo, Gruppo Gavio, Gruppo Marcegaglia, Gruppo Benetton autostrade, Fincantieri, Gruppo della Valle, Cooperativa Cmc legata al Pd (soprattutto a Bersani), Rocksoil legata all’ex ministro Lunardi (centrodestra), l’immobiliare lombarda di Ligresti, in sostanza c’è tutto il vertice di Confindustria, compresi piccoli industriali dell’Api di Torino.
E ci sono tutti i partiti, Lega compresa, che pure inizialmente era contraria al progetto (Borghezio negli anni 90 faceva i comizi in val di Susa sparando contro). Belusconi e An le hanno fatto cambiare idea con l’adesione alla coalizione di centrodestra.
L’azienda più interessante, però, è l’LTF (Lyon-Turin Ferroviaire), la società madre responsabile della realizzazione dell’opera. Paolo Comastri, direttore generale di Ltf, nel 2011 è stato condannato in primo grado a otto mesi per turbativa d’asta, la metà di quanto chiesto dal pm; oggetto: la gara per la direzione dei lavori per il tunnel esplorativo della Torino-Lione. L’avvocato difensore di Comastri era Paola Severino, ministro della Giustizia del Governo Monti. L’appello a quanto pare non si è mai fatto.
Si comprende così l’enorme pressione mediatica degli interessi in gioco, lo sfacciato coacervo di lucro e politica, nonché la vera e propria disinformazione di regime che punta soprattutto a liquidare i 5 stelle dal governo, gli unici che resistano davvero a un simile comitato d’affari costruito su una grande, miliardaria opera senza utilità.
D’altra parte, se è fallita la linea av che collega le due maggiori città turistiche del continente, la Parigi-Barcellona, e in particolare il tratto Perpignan-Barcellona, le due maggiori città catalane, indebitando sino al fallimento le due maggiori aziende di costruzione francese e spagnola, è plausibile che possa funzionare la Torino-Lione?

Mi riscatto per Roma, i detenuti curano le strade della Capitale

Voto di scambio, Forza Italia all’attacco della legge: “Così stop a campagna elettorale. Parlamento sarà in galera”. - Giuseppe Pipitone

Voto di scambio, la Camera approva con 280 sì. Fdi vota con M5s e Lega. Contrari Pd e Forza Italia. La legge torna al Senato

Alla Camera dei deputati si discute la nuova legge sulle preferenze dei boss alla politica e i berlusconiani è in fibrillazione. La norma uscita dalla commissione giustizia di Montecitorio ai parlamentari di Silvio Berlusconi proprio non piace. E gli azzurri intervengono in ordine sparso: "Come si fa a sapere che uno è mafioso se non ce l'ha scritto in faccia?". "Questo disegno di legge scoraggia l'attività politica sul territorio. E rischia di coinvolgere anche la Lega. Poi rimane solo Rousseau".


Qualcuno dice di essere pronto a “chiudere la segreteria politica“. Qualcun altro profettizza: “Così si svuoteranno i comuni“. Di più: “Si rischia di trasferire il Parlamento dentro a una galera“. Tutti o quasi sono d’accordo: se davvero passasse questa riforma “si smetterebbe di fare campagna elettorale“. “Come si fa a sapere che uno è mafioso se non ce l’ha scritto in faccia?“, è la più retorica delle domande. Già come si fa? “Questo disegno di legge scoraggia l’attività politica sul territorio. E rischia di coinvolgere anche voi della Lega. Poi rimane solo Rousseau“.
Alla Camera dei deputati si discute la nuova legge sul voto di scambio e Forza Italia è in fibrillazioneLa norma uscita dalla commissione giustizia di Montecitorio ai parlamentari di Silvio Berlusconi proprio non piace. La colpa è soprattutto di un emendamento approvato in commissione per punire tutti quei politici che prendono voti da mafiosi o intermediari di mafiosi. Non è necessario che l’appartenenza ai clan di questi “grandi elettori” sia nota oltre ogni ragionevole dubbio, come invece prevedeva la legge uscita dal Senato. Del resto – è il ragionamento dei 5 stelle – gli accordi tra politici e boss si giocano sul filo dell’ambiguità. Nessuno va ad offrire voti presentandosi come esponente di Cosa nostra, ‘ndrangheta o camorra: “Buongiorno, sono un mafioso, li vuole i miei voti?”. In questo modo il politico potrà sempre dire: ma io come facevo a sapere chi erano? Chi li conosce? Faccio politica, vedo gente, prendo voti. È per questo motivo che a Palazzo Madama un emendamento di Fdi aveva annacquato il ddl originario, con il bene placido dello stesso Mario Giarrusso, che tra l’altro è relatore del provvedimento. Con la legge approvata al Senato si poteva punire solo il politico che accetta voti “da parte di soggetti la cui appartanenza alle associazioni di cui all’articolo 416 bis sia a lui nota“. A Montecitorio, dunque, hanno fatto saltare quelle tre parole, quel “sia a lui nota“. Tanto è bastato per scatenare i berlusconiani, intervenuti in ordine sparso. “Come si fa a sapere che uno è mafioso se non ce l’ha scritto in faccia? Io non sono tenuta a sapere se uno è mafioso. Vuol dire non potere più fare campagna elettorale. Si farà solo su Rousseau“, dice l’onorevole Giusi Bartolozzi, che prima di entrare a Montecitorio faceva la giudice in Sicilia.  “Questa è la seconda puntata di un film dell’orrore”, aggiunge la collega Matilde Siracusano. Ma quale era la prima? “L’anticorruzione“, spiega la deputata azzurra, proponendo un emendamento per tornare alla formulazione del Senato, inserendo quel “sia a lui nota” che salverebbe i politici presunti inconsapevoli del voto dai clan. “Chi non lo vota, mafioso è“, dice Vittorio Sgarbi. Quell’emendamento non lo votano e quindi non passa.
Jole Santelli è un fiume in piena. “Ma chi sono i soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis?, si chiede. Rispondendosi da sola: “Ipoteticamente con questa legge è un problema parlare con una persona che magari ha dei legami ma che poi non è indagato. La verità è che quest’aula è sempre influenzata dall’accento di chi interviene. Ci sono colleghi eletti in Lombardia che ritengono di non essere toccati da questi problemi. Ma non è così”, continua appellandosi agli alleati a corrente alternata del Carroccio. “La Lega non può assistere inerme a questo scempio. I colleghi della Lega, avendo incassato la legittima difesa ritengono di doversi prendere questo schifo”, si lamenta, visto che i banchi del governo sono occupati solo da esponenti del Movimento 5 stelle. Quelli di Matteo Salvini non partecipano al dibattito: hanno ottenuto l’approvazione della legittima difesa e dunque disertano in blocco i lavori per il voto di scambio politico mafioso.
Ci sono solo i grillini, che spingono per la riforma. Ma per Carlo Fatuzzo, storico leader del partito dei Pensionati, con una legge così “il rischio è quello di fare il Parlamento dentro una galera“. Più moderata Daniela Ruffino: “Con questa legge si svuoteranno le aule dei consigli comunali. Non avete mai fatto la fatica per andare ad amministrare un piccolo comune”. Per Mario Occhiuto la legge del voto di scambio “scoraggia l’attività politica sul territorio e condanna molte zone all’isolamento. Chi andrà ad avvicinare certi cittadini, a fare campagna elettorale in zone come la Sicilia, la Campania, la Calabria?”. Sembra quasi che nel Sud Italia siano tutti mafiosi.  “Io chiuderò la segreteria politica“, annuncia quindi Felice D’Ettore. Il sardo di Fratelli d’Italia Salvatore Deidda fa un esempio pratico: “ Se siete in un bar di Orgosolo (in provincia di Nuoro, ndr) provate a non stringere la mano a uno dell’Anonima sequestri. Come fate a riconoscerlo? Come fate a rifiutargli il saluto? Perché non ci provate a farlo? Questo vuol dire mettersi d’accordo con una persona?”.
Secondo Luigi Casciello la legge avrà un effetto opposto a quello previsto: “Consegnerà alla criminalità organizzata la selezione della classe dirigente”. Ma in che senso, visto che la legge punisce con il doppio della pena i politici eletti con i voti dei clan? In teoria, dunque, è vero il contrario: sarà sempre più pericoloso avvicinarsi ai mafiosi. E infatti Casciello non si riferisce ai mafiosi ma  “ai pentiti“, cioè agli eventuali collaboratori di giustizia che da boss si trasformano in accusatori dei politici. “Inserire quel consapevolmente vuol dire mettere in mano ognuno di noi ai gruppi mafiosi”, sostiene. L’onorevole Pierantonio Zanettin invita i colleghi all’umiltà: “Non riteniamoci immuni all’infiltrazione dei mafiosi. La prima garanzia che dobbiamo avere rispetto a certe cose che ci possono arrivare dalle procure è la consapevolezza“. Certe cose che ci possono arrivare dalle procure si intuisce essere gli avvisi di garanzia. Qui l’onorevole portavoce Andrea Colletti dei 5 stelle è costretto a replicare con una punta di malizia: “Questo discrimine tra consapevolezza e inconsapevolezza è curioso farselo ricordare da Forza Italia, di cui uno dei fondatori è un soggetto condannato per concorso esterno in associazione mafiosa“.  Il riferimento ovviamente è per Marcello Dell’Utri. Il Pd Enrico Borghi non condivide la valutazione del pentastellato e interviene per difendere Forza Italia: “Smemorato collega che ha votato con un partito definito in quei termini – afferma rivolto a Colletti – Si sciacqui la bocca prima di parlare“. E in effetti i 5 stelle hanno appena votato con Forza Italia la legittima difesa. Il riferimento a Dell’Utri, però, fa perdere le staffe a Giorgio Mulè: “Questo è un dibattito incardinato sui binari della miseria. Stiamo bestemmiando la verità. L’intermediario non ha la coppola e la lupara. E anche il migliore ministro dell’Interno finisce in galera. Le campagne elettorali così non si potranno più fare. Vi dimenticate i mercati. Chiunque farà il kamikaze dell’antimafia. Rendetevene conto”.
Ce l’ha con gli intermediari politici-boss anche Francesco Paolo Sisto: “Questa cosa dà la possibilità di perseguire senza sosta chiunque. In questo Paese basta una notizia su facebook per essere cacciati da un partito. Bene, in questo Paese noi inseriamo la figura dell’intermediario nello scambio politico elettorale di voti di matrice mafiosa. Nella passata legislatura noi avevamo una norma migliore. Puniva i voti raccolti con matrice mafiosi, non i contatti mafiosi”. Però secondo la Cassazione quella legge approvata dal centrosinistra ha reso il voto di scambio più favorevole al reo.  L’onorevole bolognese Galeazzo Bignami, quindi, decide di inserire nel dibattito una fattispecie mai citata da nessuna riforma, di destra, sinistra o centro: la stretta di mano.  “Conoscono tanti colleghi della Lega – dice –  che sanno perfettamente cosa significa stringere le mani“. Quali mani? Il ddl punisce il voto di scambio, solo quello. E infatti Erasmo Palazzotto di Liberi e Uguali cerca di conferire (con scarso successo) un minimo di serietà al dibattito: “Questa è un provvedimento delicato. Qui non si sta parlando di chi stringe la mano a chio siete in malafede o non sapete di cosa state parlando”. Tra i berluscones, però, l’umore è molto diverso. Lo fa notare il grillino Filippo Perconti, che interviene ma non sul merito della legge: “Ci dicono che non abbiamo senso delle istituzioni, ma quale è il senso delle istituzioni del collega Cannizzaro che dice alle nostre colleghe di stare a cuccia? Sarà che siamo vicini alla festa della donna?“.

Voto di scambio, la Camera approva con 280 sì. Fdi vota con M5s e Lega. Contrari Pd e Forza Italia. La legge torna al Senato.

Voto di scambio, la Camera approva con 280 sì. Fdi vota con M5s e Lega. Contrari Pd e Forza Italia. La legge torna al Senato

L'effetto principale della riforma è l’inasprimento delle pene che potranno arrivare a quindici anni di carcere. Con le aggravanti speciali (per i politici eletti) si arriva fino a 22 anni e mezzo di condanna: un passaggio che però - per le opposizioni - è a rischio di ricorsi alla Consulta. Fraccaro: "Tutela il rispetto della democrazia e del diritto di voto dei cittadini. Il dem Verini: "Pasticcio che non passerà il vaglio costituzionale".


La Camera ha approvato la riforma del voto di scambio. A favore hanno votato 280 deputati, 135 i contrari mentre in dieci si sono astenuti. La legge adesso tornerà al Senato, dove era stata approvata una prima volta il 24 ottobre, dato che nel frattempo è stata modificata dalla commissione giustizia di Montecitorio. In aula a votare a favore della legge sono state le forze di governo: i deputati del Movimento 5 stelle, che hanno proposto la norma, e quelli della Lega. A favore anche gli esponenti di Fratelli d’Italia. Giurisprudenza a parte, l’effetto principale della riforma è l’inasprimento delle pene che potranno arrivare a quindici anni di carcere. Con le aggravanti speciali si arriva fino a 22 anni e mezzo di condanna: un passaggio che però – per le opposizioni – è a rischio di ricorsi alla Consulta. “Questa è una legge di cui andiamo orgogliosi, che tutela il rispetto della democrazia e del diritto di voto dei cittadini. Con noi la mafia rimane fuori dallo Stato”, dice il ministro grillino Riccardo Fraccaro.
Pd e Forza Italia votano contro – Hanno votato contro i parlamentari del Pd e quelli di Forza Italia.”Con questa legge si fa confusione. Noi preferiamo l’attuale testo del 416 ter“, ha detto Michele Bordo annunciando il voto contrario dei dem. L’attuale testo è quello approvato nel 2014 dalla maggioranza di centrosinistra e che – secondo la Cassazione – aveva reso l’originaria versione del voto di scambio più favorevole al reo. Scontata la posizione di Forza Italia, i cui deputati – come ha raccontato ilfattoquotidiano.it – sono arrivati ad esaurire il tempo d’intervento pur di attaccare la legge, monopolizzando il dibattito in aula. Il senso dell’opposizione dei berlusconiani è sintetizzato dall’intervento di Matilde Siracusano: “Questa è una fiction dell’orrore con la subdola regia del M5s. Nella prima puntata, protagonista è stato il ddl anticorruzione. Adesso il voto di scambio politico-mafioso che espone a rischio di condanna fino a10-15 anni di carcere i consiglieri comunali, regionali e soprattutto i giovani che si affacciano alle prime campagne elettoraliinconsapevoli di aver accettato la sola promessa di voto da persone di cui ignoravano l’identità”. Il timore dei forzisti è soprattuto uno: ““Si rischia di trasferire il Parlamento dentro a una galera“.
L’astensione di Leu e i dubbi sulla formulazione – Si sono astenuti invece i parlamentari di Leu: “Questo provvedimento che riguarda il voto di scambio politico mafioso poteva essere l’occasione per affrontare una questione dimenticata nel dibattito politico: la questione morale, un macigno nella vita politica e pubblica del nostro Paese. Avremmo dovuto provare ad uscire da un dibattito ideologico e precostituito e affrontare il tema della questione morale”, ha spiegato il deputato Erasmo Palazzotto. Pur condividendo lo spirito della legge, infatti, a non convincere i parlamentari di sinistra è soprattutto la definizione introdotta dalla nuova legge di “appartenenti” ad associazioni mafiose. “Chi è appartanente? Un condannato in via definitiva? O anche il cugino di Matteo Messina Denaro incesurato?”, dice Palazzotto. Bisognerà capire che interpretazione daranno i giudici sul punto. Puntavano a sanare questo aspetto alcuni emendamenti del deputato Andrea Colletti del M5s (per la prima parte proponeva di tornare alla originaria versione della legge del 1992) che però sono stati bocciati dal suo stesso partito.

Cosa prevede la nuova legge: pene più alte – Il testo approvato da Montecitorio modifica l’articolo 416 ter del codice penale ed è formato da un solo articolo. Prevede che chiunque accetti, direttamente o con intermediari, la promessa di voti da persone di cui sa che appartengono ad associazioni mafiose, in cambio di denaro o della promessa di denaro oppure di un altro favore, o in cambio della disponibilità a soddisfare interessi dell’associazione mafiosa, è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416 bis. In pratica la formulazione del reato lega il voto di scambio con l’associazione a delinquere di stampo mafioso. In questo modo si stabilisce un collegamento ontologico tra le due fattispecie criminali: non è un caso, infatti, che nel 416 bis tra i reati fine delle associazioni mafiose s’indica anche “impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. In soldoni vuol dire che le pene sono più dure: da sei/dodici anni si passa a dieci/quindici anni. Per tutti i condannati scatta poi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

L’aggravante per gli eletti: condanne più alte dei boss. C’è poi “un’aggravante speciale“: se il politico si è messo d’accordo con il mafioso per ottenere voti e viene effettivamente eletto le pene sono aumentate. In questo caso la pena dei 10-15 anni previsti dal 416 bis, viene aumentata della metà, perché “parliamo di una persona riconoscente alla mafia e per noi è un pericolo pubblico”, ha detto Francesco D’Uva. L’aggravante speciale, però, è stata contestata dai deputati di Pd e Leu. “Questo è un pasticcio che non passerà il vaglio costituzionale, perché equipara pene a reati diversi (416 bis, delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso e 416 ter, voto di scambio politico-mafioso)”, dice il dem Walter Verini. Da parte di Leu, invece, fanno notare  che “in caso di voto di scambio conclamato, il mafioso può essere condannato al massimo a 15 anni di carcere, il politico invece a 22 e mezzo. Quest’aggravante rischia di violare il principio costituzionale di proporzionalità della pena”.
Norma modificata: torna al Senato – Adesso la norma dovrà tornare a Palazzo Madama. La legge approvata, infatti, è stata modificata dalla commissione Giustizia della Camera. Nella prima approvazione al Senato l’originaria riforma depositata dal grillino Mario Giarrusso era stata alleggerita da un emendamento di Fratelli d’Italia .. Una modifica minima che aveva inserito tre semplici parole. In origine il testo del senatore del M5s recitava: “Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416 bis, in cambio dell’erogazione o della promessa…”. Con al modifica, l’ultima parte era diventata “da parte di soggetti la cui appartanenza alle associazioni di cui all’articolo 416 bis sia a lui nota“. Un cambiamento che era stato in qualche modo condiviso da parte dei senatori del M5s che infatti l’avevano votato. Ma che rischiava di neutralizzare l’intera legge, originariamente ideata per irrigidire il reato vigente. Per questo motivo, dopo l’approvazione di Palazzo Madama, l’associazione Libera aveva criticato la riforma definendola come “‘un’occasione sprecata“.
Le modifiche alla Camera – Alla Camera, però, la maggioranza ha approvato un emendamento per cancellare quel “sia a lui nota“. In questo modo vengono puniti tutti quei politici che prendono voti da mafiosi o intermediari di mafiosi. Non è necessario che l’appartenenza ai clan di questi “grandi elettori” sia nota oltre ogni ragionevole dubbio, come invece prevedeva la legge uscita dal Senato. Del resto – è il ragionamento dei 5 stelle –  gli accordi tra politici e boss si giocano sul filo dell’ambiguità. Nessuno va ad offrire voti presentandosi come esponente di Cosa nostra, ‘ndrangheta o camorra. In questo senso la riforma rende più dura la versione della legge vigente. Restano i dubbi per le obiezioni sollevate da Leu sulla dicitura di “appartenente mafioso” e sulle pene previste dagli aggravanti speciali. Adesso bisognerà vedere cosa succede al Senato.

giovedì 7 marzo 2019

Panorama: “Casa Renzi nel vortice degli affari”. - Antonio Rossitto

Quarant’anni di vorticosa carriera imprenditoriale. Quindici aziende avviate: amministrate, cessate, liquidate o fallite. E almeno altre tre che, per i magistrati fiorentini, venivano controllate indirettamente. Un fittissimo reticolo di società, decimate nel tempo da un’incessante morìa imprenditoriale. Sullo sfondo, qualche briga giudiziaria. Fino al rovinoso inciampo. Diciotto febbraio 2018: Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo, finiscono agli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta e false fatture. Il gip di Firenze, Angela Fantechi, li ritiene il perno di un sistema di fatture inesistenti e operazioni gonfiate riconducibili alla Marmodiv: un «giro» da 725 mila euro. Anche le casse di Delivery ed Europe service, poi fallite, sarebbero state svuotate. Le cooperative avrebbero fornito manodopera in saldo, senza oneri previdenziali ed erariali, alla Eventi 6, società di famiglia sopravvissuta alla falcidia camerale. Buona sorte che accompagna anche una sua controllata, nata a giugno 2017: la Vip, Very important products.
La ditta, che commercia e promuove cibi e bevande, è amministrata da Matilde Renzi, figlia di Tiziano: coinvolta nelle attività di famiglia assieme al fratello Samuele e la sorella Benedetta. A differenza invece di Matteo, che ha lavorato per il padre solo fino al suo esordio in politica, nel 2004, quando viene eletto presidente della provincia di Firenze. Ma la sua ascesa politica ha portato comunque fortuna ai conti della Eventi 6. Nei suoi due anni al governo, dal 2014 al 2016, il fatturato cresce del 265 per cento. Mentre i ricavi passano da 698 a 114.765 euro. Speculare sobbalzo hanno i redditi di Babbo Tiziano: a fine 2013 dichiara «zero carbonella». L’anno dopo, con il figliolo a Palazzo Chigi, il suo reddito lievita a 51.901 euro.
Partiamo dall’inizio, però. Dai registri delle imprese si scopre che le avventure aziendali di Tiziano Renzi cominciano quarant’anni fa, il 9 gennaio del 1978, nella natia Rignano sull’Arno, paesello a una ventina di chilometri dalla città dei Medici. Il padre dell’ex presidente del Consiglio, 26 anni, fonda la sua ditta individuale: Renzi Tiziano. L’attività è: agenti di prodotti farmaceutici e di erboristeria per uso medico. Dieci anni dopo, a giugno del 1985, termina la sua corsa. Ma a febbraio 1998 ritorna in pista un’altra Renzi Tiziano: una partita Iva nuova di zecca per «attività di rappresentanza».
Seguono 24 anni di onorata fatturazione, fino a gennaio del 2012. Pure stavolta si tratta di un arresto temporaneo. A luglio del 2013 l’omonima ditta viene rifondata. Una settimana fa però la società è nuovamente cancellata. La visura camerale dettaglia: 20 febbraio 2019, due giorni dopo gli arresti ordinati dalla procura di Firenze. Mentre una settimana prima, il 13 febbraio 2019, veniva registrata la chiusura di Sfera, l’ennesima srl di famiglia. Eppure era nata poco più di due anni fa: a ottobre del 2016. I soci erano i tre figli: Samuele, pediatra emigrato in Canada, aveva il 50 per cento delle quote. Il resto era diviso tra le due sorelle: Matilde e Benedetta. Oggetto sociale: organizzazione e gestione di centri di fisioterapia e riabilitazione. Per i Renzi, un’attività abbastanza inusuale. A meno che lo scopo non fosse spendere le competenze mediche del figlio, già azionista di maggioranza. Il capitale era il minimo indispensabile: 10 mila euro. Ma i denari effettivamente versati sono stati solo quelli esiziali: 2.500 euro. Una prassi che può rivelare scarsa liquidità o breve vita aziendale. E che ricorre spesso nella galassia dei Renzi. Comunque sia, Sfera è solo l’ultima trapassata. L’elenco delle imprese nell’orbita renziana, sorte e poi sepolte, è fitto.
Torniamo a quei meravigliosi anni Ottanta. A luglio 1984, nella solita Rignano, viene costituita la Speedy. Capitale: 10.400 euro. Alla società si affianca la Speedy promozioni, con sede a Roma. L’amministratore unico, fino al maggio 2002, è Laura Bovoli. Le due ditte si occupano soprattutto della vendita per strada della Nazione, il quotidiano fiorentino. Per la distribuzione vengono assoldati ragazzi in cerca di qualche extra. Niente contratti né contributi. Almeno a sentire l’Inps. Che, come rivelato da Panorama, il 25 maggio 1998, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil, altra società di famiglia nata intanto nel 1993, per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni.
Il 5 febbraio 1999 la Speedy, «rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi», e la Chil, «nella persona dell’amministratore Laura Bovoli», ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire per le spese processuali. Sentenza confermata dalla Cassazione il 28 settembre 2004: ricorso è privo di fondamento. Pochi mesi dopo, il 3 febbraio 2005, la Speedy finisce al macero. I conti sono asfittici: zero fatturato e una perdita di 4.428 euro.
In quegli anni l’azienda di famiglia più importante è la Chil. Il ramo è lo stesso: marketing e distribuzione di giornali. Agli inizi del 2000, comincia a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Tiziano è amministratore unico dal febbraio 1999. Carica che mantiene per dieci anni. Nella società lavora anche il figlio Matteo, futuro premier. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: «Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia».
E qui bisogna aprire l’ennesima, e poco edificante, parentesi. L’ex presidente del Consiglio rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi più tardi, il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil. Ma comunque Renzi avrebbe già messo da parte, alle spalle dello scassatissimo sistema previdenziale italiano, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica.
Torniamo però agli affari di famiglia. Anche la Chil, alla fine, non resiste alle intemperie finanziarie. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne cede la parte più profittevole, per soli 3.878 euro, alla sua Eventi 6, nata ad agosto 2007: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passa a Gianfranco Massone: suo figlio Mariano, vicepresidente della Delivery, è stato arrestato una settimana fa assieme ai Renzi. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi fallisce. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. Renzi senior, a settembre 2014, viene indagato dalla Procura di Genova per bancarotta fraudolenta. Un’indagine che, adesso, sembra il prologo di quella fiorentina. Ma a luglio 2016 l’inchiesta è archiviata. Babbo Renzi non ha avuto nessuna responsabilità nel crac.
Alle sue spalle, intanto, le chiusure aziendali si affastellano. Nel lontano 1988 Tiziano apre con l’amico Andrea Bacci, l’immobiliare Raska. Ma la società viene chiusa già nel 1993, cinque anni dopo. Ancor più fuggevole l’esistenza di Uno comunicazione, nata nel 2002 per l’ideazione di campagne pubblicitarie. Babbo Renzi ha il 43,50 delle quote. Capitale minimo: 10 mila euro. Euro versati: solo tremila. Tre anni dopo, l’impresa è già defunta.
La girandola non si ferma. Il 5 febbraio 2003, sempre a Rignano sull’Arno, nasce una la Arturo. Renzi senior ha il 90 delle quote. Il resto è in mano alla sorella, Tiziana. Una srl dall’oggetto apparentemente stravagante: produzione di pane e prodotti di panetteria freschi. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come rivelato da Panorama nel 2014 e raccontato dalle Iene un mese fa, la società il 20 settembre 2011 viene condannata dal Tribunale di Genova a pagare quasi 90 mila euro a Evans Omoigui, un vecchio dipendente, per il suo licenziamento illegittimo nell’aprile 2007. Quei soldi, però, l’ex strillone non li vedrà mai. La vita imprenditoriale della Arturo è infatti breve. Alla fine del 2007, il fatturato è di 954 mila euro. Ma le perdite raggiungono i 124 mila euro. Così il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore. Smessi i panni di socio, è sempre lui: Tiziano Renzi. Che nel mentre, a maggio 2004 compra il 60 per cento della Mail service, con sede ad Alessandria dal solito Gianfranco Massone, già coinvolto nella vendita della Chil post. Come spiegato su La Verità da Giacomo Amadori – che da anni racconta con scoop e retroscena le rocambolesche vicissitudini di Casa Renzi – 28 mesi dopo, nel settembre 2006, Renzi senior vende la sua quota per 120 mila euro all’immobiliare alessandrina A.M.S, destinata a fallire nel 2013. La stesso epilogo avrà Mail service, travolta dai debiti.
Vite brevi e intense, quelle delle società renziane. Sahara, di cui Tiziano ha il 33 per cento, nasce a settembre 2003, sempre con tremila euro di capitale versati su 10 mila. E tira le cuoia a febbraio 2005. Esistenza ancor più fugace ha Bagheera: agenzia di distribuzione di libri, giornali e riviste. Vede la luce ad agosto 2007 nella campagna di Reggello: capitale di 10 mila euro, versati solo 2.500. Tiziano Renzi ha il 90 per cento delle quote. Poco più di un anno dopo è però già nel cimitero delle imprese. A dicembre 2008 viene chiusa. L’ultimo bilancio, a fine 2007, annota: fatturato di 126.598 euro, perdite per 9.915 euro.
Sempre in quel di Reggello, a ottobre 2014 nasce Party: Tiziano Renzi ha il 40 per cento. Mentre amministratore unico è Bovoli. Il resto è di Nikila Invest Srl, amministrata da Ilaria Niccolai, moglie dell’imprenditore Luigi D’Agostino, noto come il re degli outlet. Come The Mall, proprio a Reggello, poco distante da casa Renzi.
D’Agostino, a giugno 2018, viene però arrestato per un giro di fatturazioni gonfiate. La stessa accusa che ha portato ai domiciliari i Renzi. E nell’inchiesta fiorentina appare anche la Party: avrebbe emesso, a giugno 2015, due fatture false per quasi 200 mila euro. Comunque sia, la srl finisce in liquidazione già a febbraio 2016: dopo poco più di un anno di attività. E Bovoli lascia la carica di amministratore unico.
Sette mesi più tardi, a ottobre 2016, è creata Sfera. I soci sono i tre figli di Renzi. Doveva occuparsi di strutture per la fisioterapia. Ma due settimane fa la società è stata definitivamente cancellata. E insomma, un trapasso dopo l’altro, s’arriva mestamente a oggi. L’ultima nata, a giugno del 2017, è Vip, roboante acronimo di un più giocoso «Very important products». Amministratore unico è Benedetta Renzi. Azionista di minoranza, con il 3 per cento, è Angelo Di Cesare, ex manager del Messaggero. La società è invece controllata al 97 per cento dalla Eventi 6, finita nell’inchiesta della Procura di Firenze.
L’ultimo bilancio dell’azienda dei Renzi è stato approvato il 23 marzo 2018, a Rignano sull’Arno: 6,2 milioni di ricavi e 135 mila euro di utili. Anche se sull’impresa pesano 2,8 milioni di debiti (di cui 1,1 milioni da rimborsare entro il 2018): quasi raddoppiati rispetto a due anni prima, quando si contenevano a 1,5 milioni. Ma tra le considerazioni finali della nota integrativa al bilancio si legge: «La società ha resistito grazie agli investimenti degli anni precedenti, nonostante il reiterato attacco mediatico verso alcuni membri della famiglia, che si è esteso nel disegno premeditato di minare la credibilità dell’azienda, sebbene la stessa operi sul mercato da quasi 35 anni ed abbia un ottimo rating bancario». Firmato: il presidente del consiglio d’amministrazione, signora Laura Bovoli.
Eppure, a leggere gli ultimi bilanci della sua impresa, sembrerebbe che l’esposizione mediatica e politica non sia stata devastante. Tutt’altro. A fine 2013 fatturava meno di 2 milioni di euro, segnando un utile irrisorio. Due mesi dopo, il figlio Matteo si issa alla presidenza del Consiglio. E, proprio nel 2014, Eventi 6 riesce a raddoppiare i propri ricavi: 4,3 milioni. L’anno successivo s’impennano ancora: 5,6 milioni. Per arrivare, nel dicembre 2016, mese della caduta del governo Renzi, a quasi 7,3 milioni di euro: un aumento del 265 per cento, rispetto al 2013. Nello stesso periodo gli utili salivano da 698 a 114.765 euro: un incremento del 16.341 per cento.
Intanto, anche l’Irpef di Tiziano Renzi lievitava. Nel 2013 il suo reddito segna zero. L’anno seguente si gonfia, fino a raggiungere i 51.901 euro. Exploit che pochi possono vantare. E proprio mentre il figliolo guida il Paese. Coincidenze, certo. Che però non legittimano le geremiadi scritte a bilancio da Laura Bovoli. Adesso è ai domiciliari assieme al marito, che su Facebook s’è sfogato: «La verità verrà fuori». Ma il lieto fine, per i magistrati, non sarebbe quello auspicato da Babbo Tiziano.
https://infosannio.wordpress.com/2019/03/05/panorama-casa-renzi-nel-vortice-degli-affari/?fbclid=IwAR2vVNLx0QAFLhI3Se6lWDJUm2PsfhaybrtTJsYPf6W0Z-YkzOqxOmpjc9g
Panorama: “Renzi, tutti i guai con la Giustizia delle società di famiglia”.


Il clamoroso arresto ai domiciliari per Tiziano Renzi e la moglie, Laura Bovoli, sono solo uno degli episodi di una lista di problemi con la giustizia che hanno coinvolto i genitori di Matteo Renzi e le loro società.
Oggi il gup della Procura di Cuneo, Emanuela Dufour ha rinviato a giudizio Laura Bovoli, la madre dell’ex premier Matteo Renzi. La donna è accusata dal pm Gianattilio Stea di concorso in bancarotta documentale per i rapporti che la società Eventi6 di Rignano sull’Arno, di cui era amministratrice, aveva con la ditta di volantinaggio cuneese Direkta fallita nel 2014. Al centro dell’inchiesta un presunto giro di fatture fittizie create, secondo la procura, a tavolino per un ammontare vicino agli 80 mila euro.

Arresti DomiciliariDue settimane fa a finire al centro del mirino della Procura sono stati i fallimenti di due cooperative, la Marmodiv e Delivery, i cui amministratori di fatto, secondo gli inquirenti sono i genitori del premier. Fallimenti che, stando all’accusa sarebbero stati provocati volontariamente dopo averne svuotato le casse.

L’inchiesta è partita a Cuneo, dove la procura stava indagando sui conti, i fallimenti ed alcune fatture sospette della “Delivery service”. Dal Piemonte le carte erano poi state trasferite a Firenze per competenza. Da qui il lavoro dei magistrati ha portato alla richiesta di arresto per i due e per un terzo uomo, Mariano Massone, già indagato con Tiziano Renzi in un altro procedimento a Genova.
Perché i problemi con la giustizia dei genitori dell’ex Presidente del Consiglio sono cominciati anni fa.
Tiziano Renzi, il pomeriggio del 16 settembre 2014, ha spiegato al gruppetto di concittadini accorsi nell’angusta sede del Pd a Rignano sull’Arno, che altro non poteva fare: dimissioni irrevocabili da segretario locale del partito.
Quella mattina, la Guardia di finanza di Genova aveva bussato alla sua villa di Torri, in cima a una collina non distante, per consegnargli un avviso di proroga delle indagini. L’accusa: la bancarotta fraudolenta della Chil post, l’ex società di famiglia che si occupava di marketing e distribuzione di giornali. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne aveva ceduto una parte alla Eventi 6: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passava a Gianfranco Massone, 75 anni: suo figlio, Mariano, è in affari con Tiziano Renzi da anni. Anche la carica di amministratore della Chil post finiva a una vecchia conoscenza: Antonello Gabelli. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi falliva. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. E tanti interrogativi a cui i magistrati genovesi, Nicola Piacente e Marco Airoldi, stanno tentando di rispondere.
Tiziano Renzi, con la baldanza trasmessa al figlio, ci ha scherzato su: “Finalmente mi hanno beccato!”. Ha poi vergato una nota: “Alla veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale, ricevo per la prima volta un avviso di garanzia…”. In realtà non si è trattato di un battesimo giudiziario. Tre aziende di famiglia, dal 2000 a oggi, sono state condannate sette volte, tra cause di lavoro e civili. Contributi non pagati, lavoro irregolare, licenziamenti illegittimi, danni materiali. Il curriculum delle imprese dei Renzi non è immacolato come il giglio amato da Matteo. Nomi, persone e situazioni si rincorrono nel tempo. I Massone e Gabelli, Pier Giovanni Spiteri e Alberto Cappelli: i rodati partner d’affari di Tiziano sbucano fuori un processo dopo l’altro. Per intrecciarsi con l’attualità: l’accusa di bancarotta fraudolenta.
I primi guai cominciano alla fine degli anni Novanta, a Firenze. Oltre alla Chil, coinvolgono la Speedy, di cui Tiziano Renzi ha l’80 per cento. Le due ditte fanno strillonaggio per il quotidiano La Nazione. Nella Chil anche il figlio, appena neolaureato, ha un ruolo determinante. Per stessa ammissione dell’interessato. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: “Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia”. Ed è proprio questo il versante che da subito diventa il più limaccioso.
Le prime condanne a Firenze per i contributi non versati.
Il 25 maggio 1998 l’Inps, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, “rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi”, e la Chil, “nella persona dell’amministratore Laura Bovoli”, cioè la moglie, ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire all’Inps per le spese processuali. Nella sentenza, il giudice Giovanni Bronzini, ricostruisce: “Le due società si sono avvalse di collaboratori addetti alla vendita ambulante del quotidiano La Nazione. Questi si presentavano al mattino, circa alle ore 7.00, e ritiravano il quantitativo di copie che ritenevano di riuscire a vendere e quindi andavano a collocarsi in una zona della città a loro assegnata”. A quelle riunioni, racconta Giovanni Donzelli, all’epoca studente, oggi consigliere regionale in Toscana con Fratelli d’Italia, si palesava anche il futuro premier: “Arrivava sul furgoncino bianco, da solo o con il padre, per consegnare i giornali e coordinare noi strilloni. Era come adesso: svelto, cordiale e brillante”.
Il verdetto spiega pure come venivano contrattualizzati i collaboratori: “Sottoscrivevano un modulo-contratto, nel quale la loro prestazione era definita di massima autonomia” dettaglia il giudice Bronzini. “Ma il contributo è sicuramente dovuto. I venditori ambulanti sono da considerarsi collaboratori coordinati e continuativi”. I Renzi non la pensavano così: nessun contratto, contributo o tfr. Il parallelo con le polemiche di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro è inevitabile: pure da giovane imprenditore, Matteo Renzi sperimentava massima flessibilità occupazionale. E negli anni a cui si riferiscono le multe dell’Inps, già selezionava e gestiva i collaboratori.
Andrea Santoni, commerciante fiorentino, 36 anni, venne arruolato nell’estate del 1996: “Un’amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo” ricorda con Panorama. “Suggerì di chiamare Matteo. Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto”. Il 5 febbraio 2002 la Corte d’appello di Firenze conferma la sentenza di primo grado: i contributi dovevano essere versati. Viene smontato anche l’ultimo baluardo difensivo in cui si sosteneva che i venditori non avevano diritto al contratto perché il loro lavoro non era costante. “La continuità dell’impegno dei circa 500 strilloni emerge indiscutibilmente” sottolinea invece il giudice. L’appello della Speedy e della Chil è dunque respinto. La parola definitiva la scrive la Cassazione il 28 settembre 2004: il ricorso dei Renzi è privo di fondamento.
Le grane genovesi. A dispetto però delle tre sentenze sfavorevoli, la gestione dei collaboratori non sembra variare. Agli inizi del 2000, ormai defunta la Speedy, la Chil aveva cominciato a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Ma anche le attività imprenditoriali sotto la Lanterna hanno riverberi processuali. Che sfoceranno il 19 giugno 2013 in una doppia condanna del Tribunale di Genova per due diverse cause intentate da ex portatori di giornali. Nella prima, il giudice Enrico Ravera obbliga la Chil post, nata nel frattempo dalle ceneri della Chil, a risarcire, in solido con la Eukos distribuzioni, a cui aveva affidato un subappalto, Maurizio L. M., impiegato tra il 2005 e il 2006.
Ed è qui che vecchie carte processuali cominciano a intersecarsi con l’inchiesta genovese. Tra i soci della Eukos, fallita a luglio del 2012, c’è pure Giovanna Gambino, compagna di Mariano Massone, oggi indagato assieme a Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La maggioranza delle quote è di Alberto Cappelli, 65 anni, di Acqui Terme. Tra le sue cariche c’è anche quella di amministratore della Mail service, fallita nell’ottobre del 2011. L’ennesima bancarotta della stessa compagnia di giro su cui stanno indagando i magistrati. Cappelli, infatti, aveva ereditato il timone della Mail service da Massone, tre anni addietro. Che a sua volta aveva sostituito Tiziano Renzi: amministratore per due anni, dal febbraio del 2004 allo stesso mese del 2006. Una catena che ricorda il fallimento della Chil post, ceduta da Renzi a suoi sodali in affari prima dello sfacelo.
I magistrati ipotizzano che i Massone, Gabelli e Cappelli siano delle teste di legno. Caronte che avrebbero traghettato queste imprese da un inferno finanziario all’altro. In cambio di cosa? E le controversie giudiziarie hanno contributo alla decisione di sbarazzarsi delle aziende? A Chil post ed Eukos l’ex collaboratore Maurizio L.M. aveva chiesto un sostanzioso risarcimento per “differenze retributive, ferie, permessi, mancati riposi e preavvisi”. Assicurando “di aver reso le suddette prestazioni in regime di subordinazione, pur non regolarizzato”. Tecnicismi a parte, un classico caso di lavoro nero. Perché, spiega il giudice, «l’attività svolta dal ricorrente deve considerarsi di lavoro subordinato». Chil post ed Eukos vengono dunque condannate a pagare 4.339 euro per stipendi arretrati e 439 euro di tfr.
Lo stesso giorno della sentenza, il 19 giugno 2013, il Tribunale di Genova affronta una causa analoga. Che si conclude con una nuova pena inflitta alla Chil post: il pagamento, sempre in solido con la Eukos, di 4.684 euro a Manuel S., in servizio dal 2001 al 2005. La Chil post, però, viene tirata anche dentro una causa civile, dopo la denuncia della Genova press, che lamentava danni a un locale concesso in affitto. Una piccola bagattella, insomma. Tanto che in primo grado, il 17 giugno 2011, la richiesta viene respinta. Mentre in Appello, il 16 maggio 2012, è deciso il risarcimento di 1.750 euro, vista “l’asportazione delle pareti divisorie degli uffici”.
La causa per licenziamento illegittimo. La Chil e la Speedy non sono tra l’altro le uniche aziende di famiglia a essere rimaste invischiate in contenziosi. C’è un’altra srl, la Arturo, ad avere creato patemi processuali. Fondata all’inizio del 2003 da Tiziano Renzi, che detiene il 90 per cento delle quote. Oggetto sociale: produzione di pane e panetteria fresca. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come Omoigui E., un nigeriano, impiegato nelle consegne notturne dall’ottobre 2001 ad aprile 2007. Solo il 7 febbraio 2007 è però assunto come co.co.co. a progetto dalla Arturo, amministrata da Tiziano Renzi fino al 20 marzo dello stesso anno. Giorno in cui, al suo posto, entra in carica Pier Giovanni Spiteri, amico e sodale di una vita. Il 13 aprile 2007 Omoigui E. viene allontanato. A ottobre l’amministratore della Arturo diventa Antonello Gabelli, pure lui indagato per bancarotta fraudolenta della Chil post. La vita imprenditoriale della Arturo sarà ancora breve. Il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore: Tiziano Renzi.
L’azienda viene comunque denunciata da Omoigui E. Il 20 settembre 2011 è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il suo licenziamento illegittimo: “Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso” scrive il giudice, Margherita Bossi. Al nigeriano sono riconosciuti anche 3.947 euro. Quasi 90 mila euro, in totale, che probabilmente non vedrà mai. Come del resto i suoi ex colleghi usciti vittoriosi dal tribunale. Una sequela di fallimenti ha spazzato via ogni pretesa risarcitoria. Un epilogo che non ha sorpreso né querelanti né tantomeno avvocati. Già il giudice Bossi aveva bacchettato il “comportamento processuale” della Arturo e della Eukos: “I cui legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio formale, senza addurre alcuna giustificazione” sferza il giudice. Aggiunge il magistrato: “Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio”. Compito che sarebbe spettato al liquidatore della società: Tiziano Renzi.
Quel prestito da mezzo milione di euro. I nuvoloni di questi giorni sono però ben più densi. Il sospetto dei magistrati è che la Chil post, l’8 ottobre 2010, sia stata svuotata della polpa con la cessione di un ramo d’azienda alla Eventi 6, gestita dalla madre e dalle sorelle del premier. Valore della compravendita: appena 3.878 euro. Anche se il bilancio del 2009 era stato chiuso con 4,5 milioni di fatturato e quasi 36 mila euro di utili. Il 14 ottobre del 2010, sei giorni dopo la cessione, quel che resta della Chil post viene venduto a un eterodiretto ultrasettantenne, Gianfranco Massone, per 2 mila euro. E l’amministratore diventa Gabelli. La società finisce rapidamente nel camposanto dei fallimenti. È il febbraio del 2013. Un anno più tardi la Procura di Genova indaga Renzi, i Massone e Gabelli per bancarotta fraudolenta.
Tra i debiti mandati al macero spicca quello con la Banca di credito cooperativo di Pontassieve: quasi mezzo milione di euro. Presidente dell’istituto è Matteo Spanò, baldo quarantenne, fraterno amico del presidente del Consiglio. Un debito che la Chil post si portava dietro da anni. La nota integrativa al bilancio 2010 dettaglia: al 31 dicembre del 2009 era di quasi 191 mila euro. Nell’esercizio seguente sale a 259 mila euro. Poco più avanti, il 21 maggio del 2011, Spanò, dal 2008 nel cda della banca, diventa presidente. Qualche mese dopo, il debito finisce a Massone assieme alla Chil. Riappare a maggio del 2013, nell’elenco dei creditori stilato dal curatore fallimentare: 496.717 euro. Tiziano però assicura di essere sereno. La mattina di lunedì 22 settembre, passato qualche giorno dalla proroga delle indagini, il cielo di Pontassieve era terso. Intorno alle nove, davanti alla sede del Credito cooperativo in piazza Cairoli, Tiziano Renzi parlottava e rideva con Spanò e altri due dirigenti della banca. Lo sguardo era il solito: spavaldo e sicuro. Per ricordare a tutti chi è il padre di cotanto figlio. (ha collaborato Duccio Tronci)
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