giovedì 30 maggio 2019

Viva i vinti. - Marco Travaglio



Dopo due giorni e due notti di commenti sull’apocalittica, catastrofica, epica, spettacolare disfatta dei 5Stelle, mi è improvvisamente passata la voglia di criticarli, sopraffatta da quella di difenderli. L’amore per la minoranza e possibilmente per la clandestinità me li ha pure fatti tornare simpatici: come agli inizi quando si arrabattavano nelle piazze con mezzi di fortuna a raccogliere firme contro la casta, il nucleare, la mafia, la corruzione e la privatizzazione dell’acqua; e come avevano smesso di essere quando avevano vinto le elezioni, erano andati al governo e si aggiravano da una tv all’altra in doppiopetto con l’arietta tronfia dei primini della classe.
È stato l’altra sera, quando Dimartedì, per imperscrutabili motivi, ha messo in fila Calenda, Letta e Zingaretti, come se il Pd avesse preso il 100% dei voti. I tre parlavano come se fossero piovuti da Marte senz’aver mai governato, come se l’emergenza Italia fosse frutto di 12 mesi di governo giallo-verde e non di 25 anni di destra&sinistra.
Letta, quello che nel 2013 governò con Berlusconi e con lui abolì l’Imu sulle ville e le regge dei miliardari (uno scherzetto che ci costa ancora 4,5 miliardi l’anno), insegnava la coerenza a Di Maio che purtroppo frequenta cattive compagnie: “La legge è uguale per tutti”, sentenziava sul caso Diciotti-Salvini, lui che si era alleato non con un indagato, ma col re degli imputati e dei prescritti, e l’aveva implorato di restare a bordo anche da pregiudicato. Gli altri due fingevano di avere stravinto le Europee, dopo aver portato il Pd al nuovo minimo storico (111 mila voti persi rispetto al disastro renziano del 2018, senza contare il milione di elettori di LeU misteriosamente scomparsi dopo il ritorno all’ovile dem), le tre destre al massimo di tutti i tempi e la maggioranza giallo-verde altri due punti sopra. Tutti e tre spiegavano cosa bisognerebbe fare: cioè quel che il Pd si era sempre guardato dal fare. In compenso quel che avevano fatto e non avrebbero dovuto fare si dicevano prontissimi a rifarlo. Lì ho capito perché quel diavolo di Floris li aveva invitati: per esibirli perfidamente così come sono, nature; ricordare ai più smemorati perché un anno fa li avevano cacciati a pedate; e ammonirli in vista delle prossime Politiche: occhio che, a furia di fare gli schizzinosi, vi ribeccate questi qua. Altre due-tre puntate di TeleNazareno, e la rinascita dei 5Stelle è fatta. Più Calenda, Letta e Zinga ridevano senza spiegare che c’è da ridere dopo aver perso 5,2 milioni di voti e tutte le regioni tranne la Toscana, più montavano la simpatia e la riconoscenza per il bistrattatissimo Di Maio.
Il quale, con la sua Armata Brancaleone e i suoi errori, è riuscito in un anno a fare più leggi giuste (e per giunta di sinistra) del Pd in tutta la sua storia. Se anche i 5Stelle scomparissero domattina, avrebbero comunque il merito di aver regalato all’Italia l’anticorruzione, la bloccaprescrizione, il reddito di cittadinanza, il dl Dignità, la riforma del voto di scambio, lo stop al bavaglio sulle intercettazioni e alla svuotacarceri, l’abolizione dei vitalizi; di aver avviato il taglio del numero e degli stipendi dei parlamentari, il referendum propositivo col quorum abbassato, il salario minimo e la sospensione del Tav (salvo ripensamenti suicidi); di non aver rubato né truccato concorsi; di aver cacciato in due minuti il loro unico arrestato per corruzione e messo alla porta un sottosegretario leghista in flagrante conflitto d’interessi.
È di questi meriti, e non dei molti demeriti, che lorsignori vorrebbero che i 5Stelle si pentissero. È per questi pregi, e non per i molti difetti, che il Pd ha sempre considerato i “grillini” degli intrusi, degli ultracorpi infettivi da tenere a distanza e da combattere strenuamente come mai aveva fatto con B. e mai farà con Salvini. Ed è per questo che ora la finta sinistra se la ride senz’aver nulla da ridere, dal profondo del suo abisso: perché pensa di ricominciare con Salvini (Dio glielo conservi) il comodo giochino dell’ultimo quarto di secolo, quando incassava voti gratis da chi non l’avrebbe mai votata agitando lo spauracchio del Caimano il giorno del voto, salvo poi inciuciarci fino alle urne seguenti.
È l’eterno teatrino destra-sinistra, buono per fregare gli elettori, che sogna chi vede un “ritorno al bipolarismo” (destre al 49, Pd al 22,7, M5S al 17): il suo obiettivo non è sconfiggere Salvini, ma tenerselo stretto per annientare chi gli ha rotto il giocattolo del “siamo meno peggio degli altri”. Può darsi che la truffa funzioni di nuovo e che il M5S sia destinato a rapida estinzione. Ma può pure essere che, con una dirigenza collegiale, una gestione saggia dell’inevitabile rottura con Salvini, una traversata del deserto all’opposizione per riorganizzarsi sui territori e ritrovare l’identità smarrita, sopravviva o addirittura riviva. Se ci riuscirà, sarà un bene non solo per i grillini (dei quali ci importa ben poco), ma anche per l’Italia. Perché costringerà Salvini a mostrare ai suoi fan di cosa è capace come uomo di governo e il Pd a dire qualcosa di meglio che “votateci perché di là c’è il babau”.
Di Maio, dopo il ko, è un pugile suonato. Ma resta il più bravo fra i suoi. Purché si liberi dei lacchè e dei miracolati pronti a tradirlo al primo inciampo. Si circondi di gente valida, cioè critica. E abbandoni le piazze virtuali (tv e sondaggi) per tornare in quelle vere. Se oggi sarà confermato capo politico dagli iscritti, nell’imbarazzante plebiscito con un solo candidato, non dovrà scambiarlo per una rivincita sulle urne, come fece Renzi con le primarie interne dopo la débâcle referendaria. Sei milioni di voti persi non si cancellano con qualche migliaio di clic. Ma sono recuperabili. Soprattutto i 4 milioni finiti nell’astensione. Che sono lì in attesa di un segnale chiaro. Possibilmente quello giusto.

VATICANO LA MULTINAZIONALE PIÙ POTENTE AL MONDO. - Marisa Denaro - 09/07/2018

Se si pensa ad una multinazionale vengono in mente uomini in giacca e cravatta che gestiscono milioni di euro, invece la più grande multinazionale è composta da uomini in abito talare.
La Chiesa Cattolica è la prima multinazionale con 2 mila miliardi di dollari di patrimonio immobiliare di cui circa il 22% del patrimonio immobiliare in Italia, riserve d’oro di oltre 60000 tonnellate sparse tra la US Federal Reaerve Bank e banche elvetiche e britanniche, per non parlare dei capitali depositati presso lo IOR, istituto opere religiose, la banca vaticana più volte coinvolta in scandali lambire anche da omicidi, finti suicidi e sparizioni.
Non solo oro e immobili ma azioni e obbligazioni detenute dal Vaticano in varie società sparse in tutto il mondo.
Un esempio su tutti l’Amministrazione patrimonio Sede Apostolica che dovrebbe gestire unicamente la curia romana, ha nelle sue disponibilità circa un miliardo di euro.
Non da meno sono i vari ordini religiosi, enti e fondazioni che gestiscono veri e propri imperi economici come Propaganda Fide (il ministero delle missioni) che gestisce un patrimonio stimato in 10 miliardi di euro.
La Banca Cattolica Pax di Colonia, come riferisce il giornale tedesco Der Spiegel, sino al 2009 aveva investito in azioni di aziende che producono tabacco, armi finanziando con 1,6 miliardi di euro la Bae Systems colosso della difesa e persino contraccettivi possedendo 580 milioni di euro in azioni della società farmaceutica Wyeth.
Una volta scoperchiato il calderone rendendo pubblici i veri affari della Banca Cattolica Pax, la stessa si è premurata di informare i propri clienti che aveva provveduto a vendere tutte le “cattive azioni”.
Non da meno sono gli arcivescovadi di Madrid e Burgos avendo investito 80 mila euro in azioni dei laboratori farmaceutici Pfizer che fabbricano Viagra e un anticoncezionale che si inietta ogni tre mesi.
Affari gestiti con estremo cinismo nel totale disprezzo del pensiero cattolico che da sempre ha condannato l’uso della pillola contraccettiva, condannando le donne che ne fanno uso da un lato e guadagnandoci dall’altro. Il tutto inoltre, accadeva mentre in Italia si assisteva ad un acceso dibattito sulla pillola abortiva RU486.
Chissà poi cosa hanno pensato i frati comboniani contrari alle banche che finanziano società che producono armi quando si sono resi conto che chi li finanziava indossava il crocifisso.
Il Vaticano ha partecipazioni in molte imprese in vari ambiti quali plastica, elettronica, cemento, acciaio e nel settore immobiliare. Ha partecipazioni in Italgas, Fiat come Alitalia.
Nonostante un capitale immenso sottostimato visto che non sono considerate le numerosissime opere d’arte di proprietà della Chiesa Cattolica, incassa anche l’8 Per mille aumentando ancor di più un capitale che da solo potrebbe sfamare le intere popolazioni disagiate del continente africano.
Lo Ior, a dispetto del suo nome, di opere religiose se ne occupa ben poco, gestisce circa 6 miliardi di euro ed è stata più volte al centro di casi di riciclaggio di denaro sporco come il caso del Banco Ambrosiano che porta con sé la morte del banchiere Roberto Calvi, per non parlare dei rapporti ambigui con Michele Sindona legato ad ambienti massonici-mafiosi o l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, la sparizione di Emanuela Orlandi, i legami con la banda della Magliana, la misteriosa ed improvvisa morte di Papa Luciani, gli scandali Enimont e i fondi neri amministrati dall’arcivescovo Marcinkus.
Persino lo scandalo calciopoli ha coinvolti lo Ior dove erano depositati fondi neri della Gea World di Alessando Moggi.
Interessi miliardari che vanno oltre i cardini della religione cattolica che predica la povertà e la carità.
Poveri a parole ma ricchi di fatto, pro vita ma contribuiscono a produrre anticoncezionali, contro le guerre e producono armi, a favore dell’ambiente bellezza del creato da preservare e producono plastica.

Chiesa, 2mila miliardi di immobili nel mondo. - Marzio Bartolini - (15 febbraio 2013)

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Il suo patrimonio mondiale è fatto di quasi un milione di complessi immobiliari composto da edifici, fabbricati e terreni di ogni tipo con un valore che prudenzialmente supera i 2mila miliardi di euro. Può contare sullo stesso numero di ospedali, università e scuole di un gigante come gli Stati Uniti. Ha oltre 1,2 milioni di "dipendenti" e quasi un miliardo e duecento milioni di "cittadini".
Questo Paese immaginario dotato delle infrastrutture di un big dell'economia occidentale e della popolazione della Cina va sotto il nome di Chiesa. Un universo dietro al quale non c'è solo e unicamente il Vaticano, ma una galassia di satelliti fatta di congregazioni, ordini religiosi, confraternite sparse ovunque nel mondo che, direttamente o attraverso decine di migliaia di enti morali, fondazioni e società, possiedono e gestiscono imperi immobiliari immensi che nessuno forse è in grado di stimare con precisione e che sono sempre in costante metamorfosi.
Un patrimonio dove l'elenco dei beni, la maggior parte sicuramente no-profit ma una discreta fetta anche a fini commerciali, sembra non esaurirsi mai: chiese, sedi parrocchiali, case generalizie, istituti religiosi, missioni, monasteri, case di riposo, seminari, ospedali, conventi, ospizi, orfanotrofi, asili, scuole, università, fabbricati sedi di alberghi e strutture di ospitalità per turisti e pellegrini e tante, tantissime abitazioni civili in affitto. Un universo intorno al quale gravitano nel mondo 412mila sacerdoti e 721mila religiose – senza contare centinaia di migliaia di laici - che assistono 1 miliardo e 195 milioni di fedeli.
Secondo il gruppo Re, che da sempre fornisce consulenze a suore e frati nel mattone, circa il 20% del patrimonio immobiliare in Italia è in mano alla Chiesa. Un dato quasi in linea con una storica inchiesta che Paolo Ojetti pubblicò sull'Europeo nel lontano 1977 dove riuscì per la prima volta a calcolare che un quarto della città di Roma era di proprietà della Chiesa. Un patrimonio immenso che però non si ferma appunto alla sola capitale dove ci sono circa 10mila testamenti l'anno a favore del clero e dove i soli appartamenti gestiti da Propaganda Fide – finita nel ciclone di alcune indagini per la gestione disinvolta di alcuni appartamenti – valgono 9 miliardi. La Curia vanta possedimenti importanti un po' ovunque in Italia e concentrati, tra l'altro, in gran numero nelle roccaforti bianche del passato come Veneto e Lombardia.
Quindi se oggi il valore del patrimonio immobiliare italiano supera quota 6.400 miliardi di euro – come qualche giorno fa ha registrato il rapporto sugli immobili in Italia realizzato dall'Agenzia del territorio e dal dipartimento delle Finanze – si può stimare prudenzialmente che solo nel nostro Paese il valore in mano alla Chiesa si aggiri perlomeno intorno ai mille miliardi (circa il 15%). Se a questa ricchezza detenuta in Italia – dove pesa l'eredità di un potere temporale durato per quasi duemila anni – si aggiunge il patrimonio posseduto all'estero fatto di circa 700mila complessi immobiliari tra parrocchie, scuole e strutture di assistenza la stima, anche stavolta più che prudenziale, può raddoppiare almeno a 2mila miliardi. Numeri, questi, che nessuno conferma dall'interno della Chiesa perché per molti neanche esiste una stima ufficiosa. Ma da ambienti finanziari interpellati la cifra sembra apparire congrua. Cifra a cui si devono aggiungere, tra l'altro, investimenti e depositi bancari di ogni tipo. Questi sì ancora meno noti.
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Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero. - Paolo Biondani - (15 luglio 2014)

Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero

Appartamenti, ville, vigneti, uliveti, boschi. I risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati: una collezione di fortune private (regolarmente dichiarate al fisco), alla faccia dell'umiltà e alla modestia di Papa Francesco.

Beati i poveri perchè di essi è il regno dei cieli, insegnava Gesù di Nazareth nel  Discorso della Montagna. Dopo duemila anni di predicazioni nel nome di Cristo, però, sulla terra continuano a passarsela meglio i ricchi. Non solo i laici, agnostici o miscredenti. Anche tra i cattolici più devoti c’è chi ostenta patrimoni invidiabili. E perfino tra gli alti prelati di Santa Romana Chiesa ora spunta una specie di club dei milionari: cardinali e vescovi che sono proprietari di grandi fortune private. Palazzi, appartamenti, monolocali, fabbricati rurali, capannoni, cantine, fattorie, agrumeti, uliveti, frutteti, boschi e pascoli sterminati.

Si tratta di ricchezze assolutamente lecite, spesso frutto di lasciti testamentari o eredità familiari, che non si possono in alcun modo accostare alle fortune illegali accumulate da quelle pecore nere che, ieri come oggi, non sono mai mancate neppure nelle greggi cattoliche. Dopo l’avvento di Papa Bergoglio, il pontefice che ha scelto di ispirarsi già dal nome a San Francesco d’Assisi e che non perde occasione per richiamarsi alla «Chiesa dei poveri», ammonire che «San Pietro non aveva il conto in banca», scagliarsi contro «il peccato della corruzione» e «certi preti untuosi, sontuosi e presuntuosi» che sfoggiano «macchine di lusso», però, anche in Vaticano c’è chi comincia a chiedersi quante ricchezze personali possiedano i prelati più potenti. Chi riuscirà a passare dall’evangelica cruna dell’ago?

A regalare le prime risposte documentate è il nuovo libro-inchiesta di Mario Guarino (“Vaticash”, ed. Koinè), il giornalista investigativo che più di vent’anni fa svelò molti segreti di Silvio Berlusconi quando era solo “il signor tv”. Dopo aver ripercorso i vecchi e nuovi intrighi ecclesiastici, dall’Ambrosiano allo Ior, dalle collusioni mafiose alle cricche edilizie e finanziarie, Guarino espone i risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati, con dati aggiornati all’aprile 2014. Una collezione di fortune private regolarmente dichiarate al fisco, che non ha nulla a che fare, dunque, con le polemiche sulle leggi di favore per le istituzioni religiose o sull’esenzione dalle tasse riservata ai beni degli enti ecclesiastici. Nessuno scandalo giudiziario, insomma: solo un viaggio ragionato, tra citazioni dei vangeli e appelli all’umiltà e alla modestia di Papa Francesco, alla scoperta delle fortune immobiliari, schedate nei pubblici registri del catasto italiano, che fanno capo alle persone fisiche di cardinali e vescovi. Un’inchiesta giornalistica che sfata e riserva parecchie sorprese.  

Monsignor Liberio Andreatta è da molti anni il responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi (Orp), l’agenzia vaticana per il turismo religioso, che organizza i viaggi di milioni di pellegrini verso mete di culto come Assisi, Fatima o Medjugorje. Nato nel 1941 in provincia di Treviso, il religioso proviene da una famiglia molto in vista e oggi risulta titolare di un notevolissimo patrimonio personale: a suo nome, il catasto italiano rilascia ben 38 fogli di visure immobiliari. Monsignor Andreatta infatti possiede a titolo personale svariate centinaia di ettari di terreni, coltivati a uliveti, frutteti, boschi da taglio e castagneti, sparsi tra la Maremma e le campagne di Treviso. Nella provincia natia, precisamente a Crespano del Grappa, possiede anche un edificio di 1432 metri quadrati e, insieme ad alcuni parenti, ha altri tre immobili in usufrutto. Inoltre risulta proprietario di una serie di fabbricati rurali tra Fibbianello e Semproniano, sulle colline toscane attorno a Saturnia. Stando ai registri catastali, ha accresciuto il suo patrimonio anche in tempi recenti, acquistando tra il 2008 e il 2011 altre centinaia di ettari di uliveti in Maremma.

Grande possidente, specializzato però nell’edilizia residenziale, è anche l’attuale arcivescovo di Palermo, il cardinale Paolo Romeo, nato nel 1938 ad Acireale: nella sua cittadina d’origine risulta aver acquistato, dal 1995 al 2013, otto appartamenti e quattro monolocali in via Felice Paradiso, oltre ad alcune abitazioni per complessivi 22 vani e altri due monolocali in corso Italia. Le visure catastali, inoltre, attribuiscono all’arcivescovo la proprietà di altri nove appartamenti (più un monolocale) in otto diversi stabili in via Giuliani; tre abitazioni e due monolocali in via Kennedy; altri cinque appartamenti (il più grande di 15 vani) in via San Carlo; un altro edificio residenziale e tre monolocali in altre strade sempre di Acireale, dove è intestatario di un ulteriore appartamento in via Miracoli. Nella stesso comune siciliano, il cardinale possiede anche decine di ettari di terreni seminativi, oltre a un vastissimo agrumeto che però è in comproprietà con alcuni familiari.

Più diversificato il patrimonio personale del cardinale Camillo Ruini: l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), nato a Sassuolo nel 1931, è proprietario di tre appartamenti e tre monolocali a Modena, in via Fratelli Rosselli. A Reggio Emilia possiede un ulteriore appartamento, più un monolocale e un seminterrato. Insieme a una sorella, inoltre, è cointestatario di un’abitazione (con pertinenze immobiliari) nella natia Sassuolo. Il catasto infine attribuisce all’ex rappresentante dei vescovi italiani la proprietà di altri tre appartamenti e un monolocale a Verona.

Il cardinale Fiorenzo Angelini, nato a Roma nel 1916, storico sponsor di Giulio Andreotti ed ex responsabile della sanità vaticana, si accontenta invece della proprietà di due appartamenti su due piani a Roma, per complessivi 16,5 vani, in via Anneo Lucano, zona Monte Mario.

Molto meglio se la passano alcuni prelati che hanno assunto cariche importanti negli ultimi anni. L’arcivescovo ciellino Ettore Balestrero, nato a Genova nel 1966, che si schierò al fianco del cardinale Tarcisio Bertone nella contesa sullo Ior, è un poliglotta che ha girato il mondo e ora è nunzio apostolico in Colombia. Eppure conserva numerose proprietà in Italia, tra cui una residenza di dieci vani a Roma, in via Lucio Afranio, alle spalle dell’Hotel Hilton Cavalieri, altre quattro unità immobiliari a Genova tra le vie Tassorelli e Pirandello (la più grande è di 9,5 vani) e un appartamento in nuda proprietà a Stazzano, nell’Alessandrino, dove però possiede anche molti terreni agricoli e boschi da taglio.

Monsignor Carlo Maria Viganò, nato a Varese nel 1941, che sotto papa Ratzinger si era conquistato la fama di incorruttibile moralizzatore, proviene da una famiglia più che benestante: insieme a un familiare è comproprietario di circa mille ettari di terreni a Cassina de’ Pecchi, vicino a Milano. Nello stesso comune possiede inoltre quattro appartamenti e tre fabbricati.

Anche il vescovo Giorgio Corbellini, nato a Travo (Piacenza) nel 1947, attuale presidente dell’Autorità d’informazione finanziaria (Aif, cioè l’antiriciclaggio) dopo le dimissioni di Attilio Nicora, appartiene a una famiglia ricca. Con alcuni parenti è comproprietario, sulle colline di Bettola (Piacenza), di circa 500 ettari di boschi, due fabbricati e altre centinaia di ettari di pascoli e terreni seminativi. Inoltre possiede tre appartamenti e un fabbricato nel suo paese natale.

Il cardinale Domenico Calcagno, nato a Parodi Ligure (Alessandria) nel 1943, ha dovuto lasciare in gennaio la commissione di vigilanza sullo Ior, mentre mantiene dal 2011 la carica di presidente dell’Apsa, l’ente che amministra gli immobili dello Stato vaticano. Ma anche il suo patrimonio privato non è trascurabile: il catasto italiano gli attribuisce, tra l’altro, un appartamento di 6,5 vani in via della Stazione di San Pietro e altri quattro edifici residenziali nel suo paese natale. Inoltre, insieme a due parenti, è comproprietario di oltre 70 ettari di campi e vigneti in Piemonte.

I terreni agricoli sono un bene-rifugio molto apprezzato anche da altri prelati. L’arcivescovo Michele Castoro, presidente dal 2010 della fondazione che controlla tra l’altro il grande ospedale di San Giovanni Rotondo, possiede 43 ettari di terreni a Gravina di Puglia, oltre a vari fabbricati rurali e a due appartamenti (il più grande di 12,5 vani). Ad Altamura, dove è nato nel 1952, risulta inoltre comproprietario, con cinque familiari, di altri 63 ettari di vigneti. Mentre l’ex decano dei cerimonieri pontificali, monsignor Paolo Camaldo, possiede insieme a due parenti nella natia Basilicata, tra Lagonegro e Rivello, un totale di 281 ettari di campi e vigneti.

Il libro di Guarino riporta correttamente che decine di cardinali italiani anche con ruoli di prim’ordine, come Angelo Bagnasco, Pio Laghi, Giovan Battista Re o Angelo Sodano, non hanno alcuna proprietà immobiliare.

Nullatenente risulta, come molti altri, anche l’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, criticato però per la scelta di una lussuosa abitazione intestata al Vaticano: un attico di circa 700 metri quadrati a Palazzo San Carlo, ricavato dall’accorpamento di due residenze (la prima di un monsignore morto nel 2013, l’altra di una vedova convinta a sgomberare). Va ricordato che Papa Francesco vive in un semplice bilocale di 70 metri quadrati, così come monsignor Pietro Parolin, il nuovo segretario di Stato vaticano.

Gli archivi del catasto gettano nuova luce anche sulle ricchezze personali di alcuni dei personaggi più controversi della Chiesa siciliana. Monsignor Salvatore Cassisa, l’ex vescovo di Monreale più volte inquisito dai magistrati di Palermo ma sempre assolto in Cassazione, risulta tuttora contitolare, insieme a una parente, di due immobili per complessivi 18 vani a Palermo. Con altri familiari, inoltre, ha un appartamento in comproprietà e tre in usufrutto a Erice, che si aggiungono a 26 ettari di terreni e 14 unità immobiliari (per complessivi 54 vani) a Trapani.

Un vero mistero (errore della burocrazia o qualcosa di peggio?) riguarda don Agostino Coppola, l’ex parroco di Carini che fu arrestato e condannato come complice dei mafiosi corleonesi di Luciano Liggio nella sanguinosa stagione dei sequestri di persona. Gettata la tonaca e sposatosi, si era visto sequestrare tutti i beni scoperti dai giudici di Palermo e Milano, tra cui una villa da un miliardo di lire, prima di morire nel 1995. Eppure l’ex sacerdote, che celebrò le nozze in latitanza di Totò Riina, compare tuttora come proprietario di 83 ettari di uliveti e 14 di agrumeti a Carini. A nome del defunto e dei suoi familiari è registrato pure il possesso perpetuo (con l’antico sistema dell’enfiteusi) di altri 49 ettari di campagne e due fabbricati a Partinico. Terreni concessi al prete mafioso, stando ai dati del catasto siciliano, da due proprietari istituzionali: il Demanio statale e l’Amministrazione del fondo per il culto.

Barnard: attenti a quei 30, sono loro che ricattano il mondo. - Paolo Barnard - (11/5/2012)

Mario Draghi  Carlo De Benedetti Joseph Cassano
Mario Draghi, Carlo De benedetti, Joseph Cassano
Eleni Tsingou David Rockefeller Tommaso Padoa-Schioppa
Eleni Tsingou, David Rockefeller, Tommaso Padoa-Schioppa. 

Attenti a quei Trenta: ricattano il mondo truccando le regole. E nessuno li può fermare, perché maneggiano 650.000 miliardi di dollari, cioè otto volte il Pil del pianeta. In dieci anni, hanno messo in ginocchio l’economia reale. E sono ancora lì, a dettar legge, a cominciare da uno dei loro specialisti, Mario Draghi. Teoria del complotto? No: storia. Quella del famigerato “Group of 30”, creato alla fine degli anni ’70 da personaggi come David Rockefeller. Obiettivo: piegare le nazioni ai diktat della speculazione finanziaria. Missione compiuta: oggi l’intera Europa è nelle loro mani, e un paese come l’Italia – membro del G8 – è agli ordini della super-lobby che ha commissariato il governo affidandolo al fido oligarca Mario Monti, tecnocrate targato Goldman Sachs, veterano del Bilderberg, della Trilaterale e della micidiale Commissione Europea, quella che oggi dispone il suicidio sociale degli Stati mediante il pareggio di bilancio.

Un capolavoro, in sole tre mosse. Primo: attraverso la “superstizione o isteria del debito pubblico”, si distrugge la capacità dello Stato di creare e Mario Draghi controllare qualsiasi ricchezza finanziaria significativa, che a quel punto resta unicamente nelle mani dei mercati di capitali, da cui gli Stati finiscono per dipendere in toto. Seconda mossa: i dominatori finanziari, che ora spadroneggiano, per ottimizzare la rapina globale incaricano la super-lobby dei tecnocrati di ridisegnare leggi e regole, con adeguata propaganda. Terzo: gli oligarchi impongono le loro condizioni-capestro ai governi, ormai privati della facoltà di creare ricchezza finanziaria e quindi dipendenti dal ricatto, pronti cioè a ingoiare qualsiasi aberrazione speculativa. Parola di Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto mondiale della finanza. Promotore italiano della Modern Money Theory – sovranità monetaria per avere democrazia reale e benessere sociale – Barnard è reduce dalla caserma dei carabinieri nella quale ha sporto denuncia contro Monti e Napolitano per “golpismo finanziario”.

C’era un piano ben congegnato per mettere nel sacco l’Italia: occorreva creare una sofferenza finanziaria artificiosa per consentire alla super-lobby di prendere direttamente il timone. Peccato che i “salvatori”, dice Barnard, fossero gli architetti stessi del piano: «Non ci vuole un genio a capire che il poliziotto iscritto al club dei ladri che gli pagano laute prebende finisce col tradire il suo mandato». Mario Draghi, per esempio: «Poteva fermare la loro mano semplicemente ordinando alla Bce di acquistare in massa i titoli di Stato italiani». Acquisto che avrebbe abbassato drasticamente i tassi d’interesse di quei titoli, la cui impennata stava portando l’Italia alla caduta nelle mani degli “investitori-golpisti”. Se Draghi avesse mosso un dito, i mercati si sarebbero fermati, «resi inermi di fronte al fatto che la Bce poteva senza problemi mantenere a un livello basso e costante i tassi sui nostri titoli di Stato». Ma Draghi, che pure siede sul trono della Banca Centrale Europea, Carlo De Benedetti si guarda bene dall’intervenire. Motivo? Non è solo l’ex governatore di Bankitalia: è anche, e soprattutto, un uomo di punta dei “terribili Trenta”.

Cosa ci fa un personaggio pubblico come Draghi dentro il club di coloro che hanno impedito al mondo di fermare la finanza criminale planetaria? Purtroppo, aggiunge Barnard, il presidente della Bce «dovrebbe vigilare proprio su coloro che condividono il suo club con intenti criminosi». Del resto, chi era il funzionario italiano che – da direttore generale del Tesoro – lungo tutti gli anni ’90 «supervisionò la svendita del nostro Paese alle privatizzazioni selvagge che non hanno sanato di nulla il debito pubblico ma che hanno sanato di certo imprenditori falliti come De Benedetti e fatto incassare miliardi in parcelle alle investment banks?» E chi era il funzionario italiano che «non ha detto una parola contro la micidiale separazione fra Banca d’Italia e Tesoro», divorzio «che ingrassò le medesime banche?». Sempre lui, l’ineffabile Draghi, «uomo “Group of 30”, uomo Bilderberg, uomo Goldman Sachs, e anche “bugiardo-Sachs”», visto che «ha sempre negato di essere stato in forza alla Goldman quando la banca di Wall Street organizzò la truffa per truccare i libri contabili greci in collusione col governo di Atene». E invece, dice Barnard, alla Goldman lui c’era, eccome: e ne dirigeva proprio gli affari europei.

E’ stato lui, Mario Draghi, a “inventarsi” un trilione di euro, in piena agonia dell’Eurozona, per regalarlo alle banche, praticamente senza condizioni. E tutto questo, dopo aver chiuso i rubinetti della Bce per far collassare il governo Berlusconi e consegnare l’Italia all’uomo del super-potere, Mario Monti. Manovra orchestrata dai maxi-speculatori, gli inventori della più spaventosa truffa planetaria, quella dei “derivati”, «astrusi prodotti finanziari del tutto comprensibili a non più di 200 individui nel mondo». Ma il “derivato dei derivati”, aggiunge Barnard, è proprio la crisi finanziaria 2007-2012, innescata dal virus dei titoli fasulli spacciati da Joseph Cassano, boss finanziario della City londinese. Il flagello dei “derivati” si è abbattuto su una situazione già catastrofica, provocata dalla bolla speculativa immobiliare americana dei mutui subprime, infettando quasi tutte le maggiori banche del mondo. Fino all’attuale “spirale della deflazione Joseph Cassano economica imposta”, la famigerata austerity, che ora i “golpisti” – sempre loro – usano per depredare a sangue interi Stati europei.

I “derivati”, dice Barnard, sono vere e proprie armi di distruzione di massa, visto che questi “Frankenstein-assets” vagano per il pianeta senza più controllo né regolamentazione, per una cifra di circa 650.000 miliardi di dollari. Il primo allarme nel lontano 1994, coi miliardi-fantasma della banca d’affari Merrill Lynch. Un pozzo senza fondo, che ha travolto anche i Comuni italiani, invitati a “privatizzare” il debito. Ancora oggi, i contratti Otc (“over the counter”) sono «liberamente usati per distruggere, e lo stanno facendo gli hedge funds come quello del criminale John Paulson, che scommettono in queste ore contro l’euro». Usando i “derivati”, continua Barnard, un pugno di speculatori può affondare persino uno Stato sovrano. Può ricattarlo e sospingerlo oltre il baratro del default. Con conseguenze agghiaccianti: disoccupazione e sotto-occupazione, suicidi, morti anzitempo, abbrutimento sociale, svendita-truffa del patrimonio pubblico, usura sullo Stato. E soprattutto: perdita di democrazia, a favore dei super-profitti dei soliti speculatori, grazie anche al “fascismo finanziario” dell’Unione Europea, che oggi fa gridare allo scandalo persino il “Financial Times”, di fronte ai trattati-capestro imposti senza mai un referendum.

«Domanda: come si è arrivati a questo? Perché non lo si è evitato? Risposta: “Group of 30”». Proprio i Trenta, secondo Barnard, sono la punta di lancia dell’operazione “golpista”. Una lobby di tecnocrati eccezionali, varata nel 1978 con l’aiuto dei Rockefeller: 30 membri, a rotazione, accuratamente designati. «Sono quasi tutti uomini che hanno lavorato con la mano destra nella speculazione finanziaria, e poi con la sinistra nella regolamentazione statale». Missione: piegare le leggi ai propri voleri, naturalmente all’insaputa dei cittadini. Il “Group of 30”, scrive Eleni Tsingou nel più devastante lavoro accademico sulla super-lobby planetaria, «non solo ha legittimato il coinvolgimento del settore privato nelle politiche di Stato, ma ha anche permesso all’interesse privato di divenire il cuore delle decisioni di politica finanziaria». Un trust di cervelli, potentissimo e imbottito di miliardi. E’ proprio il “Gruppo dei 30” a intuire le immense potenzialità dei “derivati”: Eleni Tsingou sono stati loro, gli adepti della super-setta egemone, a inquinare il mondo con la peste dei titoli tossici, per riuscire infine a mettere in ginocchio interi Stati.

Nel 1993, racconta Barnard, il gruppo pubblicò il primo manuale d’uso sui “derivati”, destinato ai controllori statali, europei e americani, delle transazioni finanziarie: non sapevano come maneggiare quei titoli, quindi accolsero con favore lo studio del gruppo e l’ignoranza tolse loro ogni potere di contrastarne le pericolose conclusioni. Primo: i “derivati” sono indispensabili perché “rappresentano nuovi modi di capire, misurare e gestire il rischio finanziario”. Ovvero: «Gli strumenti più “rischiogeni” della storia della finanza avrebbero, secondo loro, ridotto il rischio». Poi: si sottolineava che “la chiave per l’uso dei “derivati” è l’autoregolamentazione”, visto che “le regole statali intrusive e basate sulla legge ne rovinerebbero l’elasticità e impedirebbero l’innovazione in finanza”. Ergo: si prega di non disturbare il manovratore. E i controllori? «Per evitare di apparire ignoranti che brancolavano nel buio si aggrapparono alle raccomandazioni del Gruppo, sia in Usa che in Europa, sospinti in modo decisivo proprio dai loro colleghi senior che erano membri di spicco di questa lobby».

Ma il “Group of 30” osò anche di più, continua Barnard: la super-lobby scrisse che i controllori avrebbero dovuto “aiutare a rimuovere le incertezze legali dei regolamenti in vigore”, e fornire un trattamento fiscale favorevole ai “derivati”. «L’intero lavoro era stato abbondantemente oliato con i fondi della mega-banca speculativa JP Morgan». Eppure, «nonostante la sfacciataggine di quelle righe – osserva Barnard – tre fra i maggiori organi di controllo del mondo, il Comitato di Basilea, il Congresso degli Stati Uniti e la Federal Reserve Usa, trovarono l’idea dell’autoregolamentazione accettabile». Di più: «Gettarono il loro peso contro i pochi controllori ed economisti che già allora suonavano le campane d’allarme», tra questi un prestigioso portavoce della Modern Money Theory come William Black. Al che, si mossero due delle più potenti lobby finanziarie anglosassoni: l’Iif di Washington (Institute for International Finance) e la Liba di Londra David Rockefeller (Investment Banking Association): i due colossi «buttarono sul tavolo della trattativa le loro proposte per l’autoregolamentazione della trasparenza sui “derivati”, a pieno sostegno del “Group of 30”».

Per dare un’idea agli scettici del complotto, aggiunge Barnard, basta ricordare che proprio la Iif è la lobby che, poche settimane fa, ha dato gli ordini nella trattativa suicida della povera Grecia verso la trappola del secondo “bailout”. E dire che l’occasione per capire e controllare la distruttività dei “derivati” Otc si era presentata già all’inizio degli anni ’90: ma il “Group of 30” fu il primario attore nell’annullamento di ogni tentativo di portare questi killer sotto il controllo pubblico, con le conseguenze che sappiamo: crimini globali. Utile riflettere, dice Barnard, su «cosa questi mostri hanno fatto alla vita di centinaia di milioni di famiglie, a milioni di aziende e alle democrazie dei maggiori paesi occidentali, per non parlare degli orrori nel Terzo Mondo e sull’ambiente». Oggi, in pratica, «viviamo tutti su un ordigno termonucleare finanziario fuori controllo che si chiama 650.000 miliardi di “Frankenstein-Derivatives” in grado di far fallire il pianeta». Apriamo gli occhi: «Nessuna Tommaso Padoa-Schioppa- democrazia ha un senso, quando tutta la ricchezza è nelle mani di queste lobby senza pietà, a cui tutti i politici devono rispondere a bacchetta, invece che ai propri elettori».

E tanto per non far nomi, Paolo Barnard avverte che il “Gruppo dei 30” è fatto di persone in carne e ossa, ovviamente potentissime. Come gli americani Paul Volcker e Gerald Corrigan, passati dalla Fed a gruppi come Chase Manhattan Bank, Goldman Sachs, Morgan Stanley. Ci sono gli inglesi come lord Richardson of Duntisbourne (Banca Centrale d’Inghilterra, Lloyds Bank), l’ex ministro Geoffrey Bell, dirigente anche di Schroders, e lo stesso Mervyn King, governatore della Banca Centrale d’Inghilterra. Se dominano gli esponenti della finanza anglosassone come gli statunitensi William McDonough (Dipartimento di Stato e First National Bank of Chicago) e Lawrence Summers (Segretario del Tesoro Usa, fedele del Bilderberg) non manca il resto del mondo: l’israeliano Jacob Frenkel (Banca Centrale d’Israele e Merrill Lynch), il giapponese Toyoo Gyohten (Ministero delle Finanze del Giappone, dirigente della Banca di Tokyo), il brasiliano Arminio Fraga Neto (Banca Centrale del Brasile, Solomon Brothers Ny, Soros Management Fund),  l’iberico Guillermo de la Dehesa (Banca Centrale di Axel WeberSpagna e ministro delle finanze, nonché banchiere del Banco Santander Central Hispanico e di Goldman Sachs).

Alcuni membri del “Group of 30” hanno legato il proprio nome a famosissimi disastri: è il caso dell’ex ministro argentino dell’economia, Domingo Cavallo, padre della catastrofe che travolse il paese latinoamericano e “diligente allievo” del super-clan, i cui esponenti sono specializzati nel doppio incarico: Bundesbank e Dresdner Bank per il tedesco Gerd Hausler, Banca Centrale di Francia e Bnp Paribas per il transalpino Jacques de Larosière. Oltre a quello di Draghi, fra gli italiani spicca il nome dell’ex ministro prodiano Tommaso Padoa-Schioppa, quello dei “bamboccioni”, membro del Bilderberg come il francese Jean-Claude Trichet, già ministro delle finanze a Parigi e poi a capo della Bce. Conflitti d’interesse permanenti: chi lavora per la speculazione è chiamato anche a presiedere le autorità europee di controllo sulla finanza. E’ il caso del tedesco Axel Weber: Bundesbank, poi Ubs, quindi “European Systemic Risk Board” e “Financial Stability Board”.

Grottesco, annota Barnard: uno che lavora per il profitto speculativo con la super-lobby che ha scatenato il peggior rischio sistemico della storia della finanza mondiale, poi siede anche fra i funzionari che valutano il rischio sistemico in Europa, dichiarando di vigilare sulle crisi. Altro controllore, l’inglese Adair Turner, presidente della Financial Services Authority della Gran Bretagna, l’istituto nazionale deputato a controllare l’industria dei servizi finanziari. Eppure: «Eccolo a busta paga della super-banca speculativa Merrill Lynch Europe come vice-presidente, e in bella mostra al “Group of 30”», dopo aver anche fatto parte, a Londra, delle commissioni per le pensioni e per i salari minimi. Un altro controllore, il tedesco Gerd Häusler (Global Financial Stability Report e Financial Stability Forum) ce lo ritroviamo come direttore dell’Institute of International Finance di Paolo Barnard Washington, altro deregolamentatore dei “derivati”. Membro del “Group of 30”, Häusler compare anche a New York nell’agguerrita agenzia Lazard, che nel caso-Grecia «faceva il doppio gioco», come consulente sia degli “investitori-strangolatori”, sia del governo di Papademos.

Questi, dice Barnard, sono gli uomini che hanno creato le leggi-capestro che oggi dissanguano la nostra economia e confiscano la nostra sovranità: «Stiamo parlando del sistema che ha messo in ginocchio l’economia del mondo in meno di un decennio». E’ il super-potere che, anche in Italia, ha minato il futuro dei nostri bambini, regalandoci le immense sofferenze di cui ormai sono pieni ogni giorno i titoli del giornali, con buona pace di qualsiasi residua democrazia reale. «Questo è il “Group of 30”, la lobby che ha aiutato in modo decisivo a causare questo allucinante scenario, questo livello di crimine internazionale», conclude Barnard: «Trenta individui a rotazione, ma solo trenta, col nostro Draghi in prima fila. Roba da far apparire Goldfinger un patetico principiante».

http://www.libreidee.org/2012/05/barnard-attenti-a-quei-30-sono-loro-che-ricattano-il-mondo/

Ilulissat fiordo Groenlandia






mercoledì 29 maggio 2019

Evasione, Corte dei Conti: “Bene la lotteria degli scontrini. Studiare anche premi a estrazione per chi paga con carta”.

Evasione, Corte dei Conti: “Bene la lotteria degli scontrini. Studiare anche premi a estrazione per chi paga con carta”

La magistratura contabile si dice preoccupata per la "flessione che si è registrata negli ultimi anni nelle potenzialità operative espresse dell’apparato di controllo, ripetutamente distolto dalle ordinarie attività". E auspica una riduzione del tetto ai pagamenti in contante e un maggiore utilizzo delle banche dati, non solo per le verifiche successive ma anche nella fase dell’adempimento spontaneo.

Ridurre la soglia dei pagamenti in contanti, che a 3.000 euro “appare alquanto elevata e poco coerente con i pagamenti ordinariamente effettuati dai consumatori”. Estendere le ritenute fiscali concesse a chi paga con sistemi tracciabili. E, in attesa della lotteria degli scontrini che dopo vari rinvii sarà operativa dal prossimo gennaio, esplorare altri incentivi alla moneta elettronica. 
A partire da “sistemi di estrazione in tempo reale di premi collegati all’operazione di pagamento”. Secondo la Corte dei Conti sono queste le carte che il governo potrebbe giocarsi per aumentare l’efficacia della lotta all’evasione, in vista di una legge di Bilancio da almeno 30 miliardi. Positivo il giudizio sulla fatturazione elettronica, ma con molti caveat legati all’esonero delle partite Iva che aderiscono alla flat taxSullo sfondo c’è la preoccupazione per la “flessione che si è registrata negli ultimi anni nelle effettive potenzialità operative espresse dell’apparato di controllo, ripetutamente distolto dalle ordinarie attività dal susseguirsi di misure straordinarie quali voluntary disclosure 1 e 2, reiterate ‘rottamazioni’ delle cartelle, chiusura delle liti fiscali pendenti, ecc”.
La Corte, nel focus contenuto nel Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica, parte dai dati sull’evasione. Che in Italia supera i 100 miliardi l’anno raggiungendo “livelli non comparabili con quelli degli altri Paesi sviluppati”. Per esempio nella sconfortante classifica del tax gap stimato per l’Iva” la Commissione europea per il 2016 “colloca l’Italia al terzo poco onorevole posto della graduatoria, preceduta soltanto dalla Romania e dalla Grecia”. Per questo motivo “è del tutto ovvio come l’azione di contrasto dell’evasione fiscale debba costituire un elemento centrale nella complessiva strategia di salvaguardia dei conti pubblici e di rilancio dell’economia attraverso la riduzione del carico fiscale“.
La lista delle strategie con cui perseguire l’obiettivo di ridurre l’evasione va dall’uso delle tecnologie “in chiave soprattutto preventiva e persuasiva e non solo ai fini dei controlli successivi”, alle misure “volte a far emergere spontaneamente le basi imponibili”, fino a una “più equilibrata e razionale disciplina delle conseguenze che derivano dall’inadempimento degli obblighi di legge, oggi troppo spesso interpretati da una parte dei contribuenti in chiave meramente esortativa piuttosto che di vera e propria violazione delle regole”. Avviata la fatturazione elettronica, “non andrebbero trascurati i benefici che potrebbero derivare, in termini di emersione di basi imponibili occultate e di innalzamento del livello complessivo della legalità economica, da una revisione degli attuali limiti di utilizzazione del contante” rivisti al rialzo dal governo Renzi “e degli obblighi di pagamento tracciato per talune operazioni nonché, più in generale, da misure volte a favorire l’impiego di strumenti di pagamento elettronico”.
Lotteria degli scontrini e premi a estrazione per chi paga con carta – Da questo punto di vista, nel gennaio 2020 dovrebbe partire la “lotteria dei corrispettivi”, che consentirà, attraverso l’inserimento del codice fiscale nello scontrino, di partecipare a estrazioni mensili e annuali “caratterizzate da premi di rilevante entità”: fino a 1 milione di euro stando alle bozze del decreto attuativo. L’auspicio è che, in analogia a quanto già avvenuto in Paesi che si caratterizzavano per livelli di evasione marcati (è il caso, in particolare, del Portogallo), l’incentivo valga a diffondere la corretta contabilizzazione dei corrispettivi.
In più “potrebbero essere esplorate ulteriori misure di incentivazione dei pagamenti mediante carte di debito o di credito direttamente ad opera degli operatori finanziari, introducendo sistemi di estrazione in tempo reale di premi collegati all’operazione di pagamento, in particolar modo nei casi di pagamenti effettuati a favore di operatori economici di contenute dimensioni, presso i quali si osserva una più frequente violazione degli obblighi di emissione del documento fiscale”. Secondo il rapporto “un sistema direttamente governato dagli operatori finanziari avrebbe il pregio di poter fornire immediata risposta sia all’esercente che al consumatore, esercitando su entrambi una forte spinta ad utilizzare il mezzo di pagamento elettronico. Altri strumenti, pur sempre legati alla tecnologia, attengono all’utilizzazione più efficace delle banche dati e, segnatamente, dell’archivio dei rapporti finanziari, finora utilizzato “solo marginalmente ai fini del contrasto dell’evasione”. Oggi “sembra prefigurarsi un uso più ampio di tale banca dati, ma pur sempre finalizzato allo svolgimento di analisi di rischio per i successivi controlli. Tale impostazione appare riduttiva rispetto alle potenzialità dello strumento, che potrebbe essere opportunamente utilizzato in via sistematica e persuasiva già nella fase dell’adempimento spontaneo“.
“Esonero di chi aderisce alla flat tax è un vulnus” – La fatturazione elettronica, secondo la Corte, “può portare a un sensibile ridimensionamento del fenomeno evasivo”, ma l’esonero concesso ai professionisti e commercianti che hanno scelto il regime forfetario allargato è “un vulnus per almeno tre ordini di ragioni”. Per prima cosa “si è determinata una vasta zona d’ombra nel sistema appena avviato, data la numerosità dei contribuenti interessati”. In secondo luogo, “l’obiettivo di collocarsi e permanere entro il limite stabilito per il regime forfetario potrebbe determinare un ulteriore incentivo al nero o, comunque, indurre a un rinvio del momento di contabilizzazione di ricavi e compensi”. In terzo luogo, “per il soggetto rientrante in tale regime verrebbe meno l’interesse a documentare le componenti passive del reddito, beneficiando egli di un abbattimento forfetario che prescinde dall’effettività dell’onere sostenuto”.
La Corte ricorda poi che da luglio per le imprese con ricavi superiori a 400mila euro e dal gennaio 2020 per tutte le altre imprese partirà l’obbligo di contabilizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi, il cosiddetto scontrino elettronico. E avverte che occorre che “il processo di telematizzazione non subisca rinvii e venga confermato il calendario di attivazione già previsto e ribadito nel Def” e “va mantenuta, superando prevedibili sollecitazioni, l’inclusione delle imprese in regime forfetario nell’obbligo di trasmissione telematica dei corrispettivi dal prossimo gennaio”.
Indebolita la capacità operativa dell’amministrazione fiscale – Altri aspetti sui quali viene auspicata una riflessione riguardano il “regime giuridico che disciplina gli obblighi dichiarativi”: l’estensione dell’istituto del ravvedimento, “oggi possibile senza limiti di tempo e anche dopo l’avvio dell’indagine tributaria, ha fatto perdere di rilievo il momento della dichiarazione, senza che ciò sia stato controbilanciato da una maggiore capacità operativa dell’Amministrazione fiscale, la cui intensità di azione è, al contrario, risultata negli ultimi anni indebolita. Ed è proprio il funzionamento dell’Amministrazione fiscale che costituisce il terzo aspetto della strategia di riduzione dell’evasione, insieme all’uso delle tecnologie e delle banche dati e alla salvaguardia del principio dell’adempimento spontaneo, sul quale continuano a fondarsi i moderni sistemi fiscali”.