DIAMO UN OCCHIATA VERSO LA GRANDE AMERICA.
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 13 marzo 2022
DIAMO UN OCCHIATA VERSO LA GRANDE AMERICA. - Gioacchino Musumeci
Da Bruxelles al massimo c’è l’Erasmus. - Antonio Padellaro
Immaginiamo qualcuno a cui viene promessa, e poi negata l’iscrizione a un circolo esclusivo, salvo poi garantirgli la partecipazione a qualche gita sociale. A leggere le cronache del vertice europeo di Versailles, è ciò che sarebbe accaduto a proposito della candidatura dell’Ucraina come Stato membro dell’Ue, accantonata come “una questione troppo grossa”. Mentre, stando sempre alle fonti diplomatiche, l’Europa dovrebbe concentrarsi “su cosa possiamo fare per gli ucraini nei prossimi mesi, offrendogli di entrare al limite nel programma Erasmus” (Il Foglio).
Immaginiamo che accedere ai programmi di mobilità studentesca non sia esattamente il sogno del popolo ucraino, né tantomeno quello del premier Zelensky che, in sovrappiù, ha dichiarato di “aver raffreddato molto tempo fa il suo entusiasmo per un’adesione alla Nato dopo aver capito che la Nato ha paura di uno scontro con la Russia”. E poiché l’uomo di Kiev e la sua gente “non hanno mai voluto essere un Paese che prega in ginocchio per qualcosa”, arrivederci e grazie.
Si discuterà, quando sarà il momento, sulle vere ragioni di tali attese tradite. O, se si preferisce, di tali promesse fraintese.
Infatti, può anche darsi che l’ex comico divenuto presidente abbia riposto eccessivo affidamento sulle possibili aperture politiche e militari dell’Unione. Che, tuttavia, non può essersi inventato di sana pianta, alla luce anche della insistente richiesta di una no fly zone. Di cui potrebbe aver parlato con chi a Bruxelles era legittimato a farlo, prima s’intende dell’aggressione di Putin. Con il risultato che oggi al “raffreddamento” di Kiev fa da contraltare il gelo dei 27 sul possibile ingresso di un partner accerchiato, bombardato e con sullo sfondo l’incubo nucleare. Sembra come se questi “preferirei di no”, di stampo europeo e atlantico, stessero preparando il terreno a quella neutralità dell’Ucraina da qui all’eternità, che resta per Mosca la condizione irrinunciabile per qualsiasi negoziato di pace. Zelensky (al contrario di Groucho Marx) non farebbe mai parte di un club che non accettasse tra i suoi soci uno come lui. Anche se qui c’è molto poco da ridere.
Salvare il salvabile. - Marco Travaglio
Se l’Unione europea esistesse, i suoi ridicoli e ridanciani rappresentanti non si sarebbero riuniti a Versailles, ma da due settimane (anzi da prima, quando il peggio si poteva forse evitare) farebbero la spola fra Kiev e Mosca per trascinare Putin e Zelensky a quel tavolo che, almeno a parole, nessuno dei due esclude. E proporrebbero un negoziato sui tre punti che, almeno a parole, Putin ritiene fondamentali e Zelensky ha definito trattabili: Donbass, Crimea, Nato. E, se gli Usa non fossero d’accordo, l’Ue andrebbe avanti comunque, perché dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia all’Ucraina, i loro interessi sono diametralmente opposti ai nostri. A Biden questa guerra nel cuore dell’Europa fa stracomodo: deve far dimenticare l’umiliante débâcle afghana e allevarsi il nemico ideale, il nuovo Male Assoluto, per non perdere le elezioni di mid-term, mentre la sua economia ingrassa sull’indebolimento di quella europea dissanguata dal conflitto armato, dall’instabilità politica, dalla catastrofe umanitaria dei profughi e dal boomerang economico delle sanzioni. Perciò i servi furbi dello Zio Sam, ben nascosti dietro l’eroica resistenza ucraina, soffiano sul fuoco affinché la guerra criminale di Putin duri il più possibile e faccia più morti possibili (inviando sempre più armi) e criminalizzano come quinta colonna del nuovo Hitler chiunque lavori o accenni a una via diplomatica. Che non è utopica: è pragmatica.
Le sanzioni, specie se danneggiano più il sanzionatore che il sanzionato, vanno modulate e condizionate. Se lo scopo è ricacciare Putin entro i confini russi, non c’è misura economica o invio di armi che tenga: serve la terza guerra mondiale (che però nessuno vuole). Se invece l’obiettivo è salvare il salvabile della sovranità ucraina e il maggior numero di vite, non resta che concedere alla Russia ciò che già ha – Donbass e Crimea – e rassicurarla con una nuova conferenza di Helsinki per la sicurezza europea che impegni tutti (Ue, Nato, Ucraina e Russia), parta dalla neutralità di Kiev, rimedi agli errori passati, blocchi nuove provocazioni e invasioni. Le sanzioni possono diventare un’ottima arma di ricatto se l’Ue è disposta ad attenuarle in cambio di un impegno russo a risparmiare i civili (che però, inviando armi, è molto più difficile distinguere dai militari) e a revocarle in cambio di un cessate il fuoco e di un negoziato vero. Senza chiedere il permesso a Biden, che somiglia tanto a quel personaggio del film di John Landis Ridere per ridere: il “cacciatore di pericoli” che irrompe ad Harlem, urla “Negriii!” e scappa, inseguito e menato da una gang di teppisti di colore. Con la differenza che, quando gli americani vengono a far danni in casa nostra, quelli inseguiti e menati non sono loro: siamo noi.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/13/salvare-il-salvabile/6524119/
sabato 12 marzo 2022
Hedge fund, grandi banche, big oil: ecco chi specula sui prezzi record del gas. - Sissi Bellomo e Cheo Condina
Per alcuni fondi rendimenti a tre cifre grazie alla volatilità: tra speculazioni e stoccaggi al minimo, perso ogni contatto con i fondamentali di mercato.
Le grandi banche d'affari, gli hedge fund specializzati sulle commodity – guidati da specialisti ormai capaci di muoversi a occhi chiusi sull’ottovolante dei mercati – e le principali major mondiali, che stanno macinando miliardi di profitti anche grazie alle differenze di prezzo sull’approvvigionamento di materie prime. Se l’altissima volatilità del gas, con le quotazioni che lunedì scorso hanno toccato il massimo storico di 345 euro per MWh, rischia di avere impatti devastanti su industria e bollette di mezza Europa, c’è anche chi – ormai da mesi – realizza profitti record e rendimenti a tre cifre in un contesto di assoluta incertezza.
«Per vedere movimenti simili bisogna tornare alla crisi del 1973: durante la pandemia il gas valeva 6-7 euro per MWh, oggi si oscilla di oltre 100 euro in una giornata, domina il panico», sintetizza un trader di lungo corso, che aggiunge: «Si è perso ogni contatto con i fondamentali: a febbraio avevamo ipotizzato che i prezzi potessero salire massimo oltre 80 euro, con un “premio guerra” del 25%».
Tra mercato e speculazione.
Ma qual è il confine tra la capacità di sapere leggere in anticipo il mercato e la speculazione? Nel 2015, quando diversi hedge fund specializzati sulle commodity sono andati in crisi, un certo Ron Ozer, laureato in matematica al Mit con il massimo dei voti e al tempo già trader affermato, disse che si stava creando «un’occasione unica per il mercato del gas». Oggi, con la sua Statar Capital – hedge di Miami specializzato in materie prime – Ozer è considerato un guru visti i rendimenti: da ottobre 2018 +266% contro il 66% dell’indice S&P 500. Come lui, altri gestori di fondi hanno intuito le potenzialità del settore, specie in momenti di alta volatilità. Motivo in più per cercare una spiegazione ai movimenti delle ultime settimane, legati sia a fattori di carattere finanziario sia ai fondamentali del mercato energetico.
Derivati e coperture dietro il rally. All’origine dell’estrema volatilità «ci sono margin call e mercati molto illiquidi e incerti», osserva Ole Hansen, head of commodity strategy di Saxo Bank: i margini di garanzia richiesti per operare hanno raggiunto livelli esorbitanti e spingono a liquidare posizioni, a volte in modo frettoloso, o ad acquistare future, vendendo gas anche in perdita sul mercato over-the-counter, per compensare le oscillazioni dei prezzi. In parole povere, ci sono soggetti commerciali – non certo speculatori – costretti a rincorrere la volatilità per evitare guai peggiori. La Commissione europea finora non ha puntato il dito contro nessuno e anche il regolatore dei mercati energetici (Acer) e l'Esma hanno effettuato indagini senza riscontrare irregolarità.
Non c’è dubbio comunque che oggi il mercato europeo del gas, come quello dell’elettricità e dei permessi per la CO2, è fortemente finanziarizzato. È successo con la nascita e l’enorme sviluppo degli scambi di futures e altri derivati che hanno come sottostante il gas “vero”, quello che bruciamo nelle nostre caldaie, comprato e venduto in forma fisica nei diversi hub. Il più grande e il più liquido in Europa è il TTF olandese, i cui prezzi vengono usati come riferimento nei contratti di fornitura e nelle bollette. Ormai ci sono operatori di tutto il mondo (e di tutti i generi, tra cui hedge fund ma anche grandi utilities o produttori Usa di Gnl) che intervengono sul mercato, di solito negoziando i futures quotati alla Borsa regolamentata Ice-Endex. Se hanno una view di mercato rialzista, perché si aspettano problemi di offerta fisica della commodity, comprano e fanno salire i prezzi o viceversa. Oppure, nel caso di soggetti commerciali, effettuano operazioni di copertura: ad esempio vendendo a termine la produzione di gas.
Le statistiche della borsa evidenziano che al 4 marzo c’erano 218 soggetti finanziari esposti sul gas del TTF: tra loro fondi (in tutto 164), ma anche banche e altre entità. Il numero complessivo è invariato rispetto a inizio febbraio, prima dell'invasione dell'Ucraina, e quasi doppio rispetto a quello dei soggetti commerciali che erano invece 134. Sono però questi ultimi a “controllare” il mercato, con il 75,3% delle posizioni lunghe (all’acquisto) e il 61,9% di quelle corte (alla vendita). Gli “speculatori” (classificati come fondi di investimento) hanno invece in mano il 17,8% delle posizioni lunghe e il 12,1% di quelle corte. Molto più speculativo il mercato della CO2: «Il numero di fondi di investimenti attivi ha raggiunto un picco di 373 a inizio febbraio, con un aumento del 74% nel 2021», fa notare Massimiano Capobianchi, sales manager Italia di Vertis Environmental Finance.
Una cosa è certa: chi a inizio autunno è entrato “lungo” su questi mercati ha cavalcato con profitto la spirale rialzista dei prezzi, ulteriormente accelerata dalla guerra in Ucraina e dalla paura di un blocco delle forniture russe.
I vincitori: hedge fund e major.
Chi ci ha guadagnato? Sicuramente anche i fondi: quanto meno quelli che hanno saputo districarsi in uno dei mercati più volatili di sempre, in cui anche tra i più esperti c’è chi si è fatto male. Statar Capital ad esempio nel 2021 con la sua “Natural Gas Strategy” ha registrato un +56%: solo a ottobre ha guadagnato 400 milioni (ma a settembre ne aveva persi 130). Anche Andurand Capital Management aveva puntato fin dal 2021 sul rialzo delle commodity, nel suo caso il petrolio: quest’hanno ha guadagnato il +109% dopo il +87% dell’anno scorso e il +154% del 2020 (quando invece aveva scommesso sul ribasso delle quotazioni). La texana E360 Power, focalizzata sull’elettricità, vanta una performance del 187% nel 2021 e del 32% a gennaio.
Anche le grandi banche d’affari – circolano i nomi di Goldman Sachs, BofA, Bnp Paribas e Morgan Stanley – si sono mosse sulle commodity. Tra chi ha senz’altro beneficiato dei prezzi record del petrolio e del gas ci sono poi le compagnie petrolifere: le grandi Major globali hanno registrato profitti in aumento tra le due e le sei volte rispetto al 2020. Oltre a produrre idrocarburi alcune hanno sfruttato il vantaggio offerto dai contratti di lungo termine per l’importazione di gas: i cosiddetti take-or-pay, che sono spesso diventati molto vantaggiosi rispetto al valore del gas sul mercato spot europeo, ovvero il TTF, usato come riferimento per i prezzi di vendita al consumatore finale. Secondo alcune stime, a dicembre la differenza tra il prezzo del TTF e quello delle importazioni contrattuali nella Ue era di 25 euro per MWh: forbice che saliva a 80 euro per quei take-or pay che sono rimasti indicizzati al petrolio.
Bce, l’ora dei falchi. “Sparita” la guerra, via ai rialzi dei tassi. - Francesco Lenzi
INFLAZIONE - Precipita il potere d’acquisto dei salari.
Nella conferenza stampa di giovedì scorso, la presidente della Bce non è stata esplicita come avvenne esattamente due anni fa. La frase “non siamo qui per chiudere gli spread”, che fece esplodere lo spread di tutti i titoli di Stato della periferia della zona euro, compreso il Btp italiano, non è stata ripetuta, ma la sensazione sul mercato non è quella di uno scampato pericolo. L’avvio dell’invasione russa in Ucraina aveva fatto ritenere che la Banca centrale europea potesse avere un atteggiamento molto più prudente rispetto a quanto si immaginava a inizio anno. La politica monetaria non può aumentare l’offerta di petrolio e altre materie prime, non può fornire al mercato i beni alimentari o i fertilizzanti che mancano dalla Russia, e così si era portati a ritenere che l’abbassamento delle stime di crescita avrebbe giustificato un atteggiamento più attendista. È compito della politica fiscale intervenire per ridurre il peso di queste strozzature e dell’aumento dei prezzi che determinano. La politica monetaria può far ben poco, ma rischia di far collassare ancor più domanda, consumi e investimenti.
Nelle pieghe del discorso della Lagarde, però, non si è visto alcun ragionamento di questo tipo. Il tema centrale della conferenza stampa è stato l’inflazione e la sua evoluzione per la guerra. Il rischio al ribasso per la crescita e il pericolo di una crisi finanziaria a causa delle sanzioni non ha trovato molto spazio. Per frenare l’inflazione, che si ipotizza possa raggiungere il 5,1% nel 2022, il programma di acquisti di titoli finanziari varato per contrastare la pandemia terminerà questo mese e anche il programma ordinario di acquisti si ridurrà più velocemente, passando dai 40 miliardi al mese di aprile al 20 di giugno, per concludersi nel terzo trimestre. Se non ci saranno sconvolgimenti particolari a raffreddare l’inflazione, dal terzo trimestre, la Bce non interverrà più sul mercato dei titoli di Stato e sarà pronta a rialzare i tassi d’interesse. Sebbene non sia stato fornito un timing preciso per l’avvio di questi rialzi e Lagarde abbia più volte ripetuto che le decisioni dipenderanno esclusivamente dai dati, l’impressione è che si sia arrivati a una svolta. Il Financial Times ha titolato che i falchi sono ormai al comando della Bce. In un Consiglio direttivo diviso al suo interno, focalizzare l’attenzione solo su inflazione e impatto della guerra sui prezzi vuol dire lasciare la guida a chi tradizionalmente vede nel rialzo dei prezzi il nemico principale, senza tener conto del contesto e delle ragioni.
Il mercato valuta adesso che nel 2022 ci saranno almeno due rialzi dei tassi della Bce, ciascuno da 25 punti base, rialzi che continueranno anche nel 2023. I rendimenti dei titoli di Stato sono saliti di conseguenza, penalizzando in particolare l’Italia e gli altri Paesi periferici. La sorpresa di questa virata è che è stata compiuta quando le aspettative di inflazione a lungo termine rimangono ancorate intorno al target del 2% e non c’è alcuna pressione salariale. Lagarde ha fatto notare che nel 2021 i salari sono cresciuti meno che nel 2020. Se si mantenesse questa dinamica, il colpo sul potere d’acquisto dei cittadini europei sarebbe tremendo. La Bce dovrebbe evitare di aggiungere anche il colpo dei tassi d’interesse. Sembra che si sia deciso di abbandonare il regime affermatosi negli otto anni di Draghi. Si ritorna a prima del 2012 e il problema dell’inflazione non è più affrontato in modo prudente, ma anticipando gli eventi. L’ultima volta che questo avvenne, con i due rialzi del 2011, non andò molto bene e l’eurozona si trovò poi vicina al rischio di frantumarsi. Quello che servirebbe in questa fase è invece una politica monetaria attendista e una politica fiscale invece più aggressiva, che riesca a partorire velocemente delle risposte che lo stesso vertice di Versailles di ieri ha affrontato: tassazione degli extra-profitti delle società energetiche e prezzi calmierati dell’energia. Il compito è evitare che il rialzo dei prezzi dei beni energetici contagi tutto il sistema produttivo amplificando gli effetti sui prezzi per il consumatore. La speranza è che si riesca a far qualcosa di concreto prima che questo accada, ma il tempo stringe e i segnali che arrivano non ispirano molta fiducia.
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L’invasione e lo stupore dei “buoni”. - Antonio Padellaro
L’invasione russa dell’Ucraina era solo una questione di tempo, scrive il generale Fabio Mini su Limes, nell’articolo anticipato ieri dal Fatto. Dal momento che, a partire dal 1997, la progressiva espansione della Nato, secondo i più accreditati osservatori occidentali (compreso William Perry, ex Segretario alla Difesa durante la presidenza Clinton), sarebbe stata inevitabilmente considerata dai russi una minaccia, “e che andare avanti avrebbe avvelenato le relazioni con Mosca”.
Ora, tutto ciò nulla toglie ai crimini contro l’umanità di cui si sta macchiando Putin, mentre ci dice qualcosa sulla cecità dei “buoni” che non avendo calcolato, per oltre un ventennio, le conseguenze dei propri atti subiscono oggi la sanguinaria ritorsione dei “cattivi”. E lo fanno chiedendosi come diavolo sia potuto accadere. Detto che i “buoni” continueranno a sentirsi infallibili (e Dio ci aiuti), sia però consentito interrogarsi sull’utilità del vecchio espediente retorico che consiste nel considerare un pazzo furioso chiunque non si comporti secondo le nostre attese, soprattutto quando sbagliatissime. Leggiamo, infatti, sulla stampa belligerante, dotte analisi sulle disastrose condizioni in cui versa l’autocrate. Con titoli del tipo: “Dal cancro alla pazzia, le intelligence occidentali s’interrogano sulla salute fisica e mentale di Putin” (Repubblica).
Secondo il Daily Star (ripreso dal Giornale), Mad Vlad “prova costante dolore e potrebbe avere problemi di non poco conto che spaziano dalla follia a un tumore all’intestino”. Si cita una fonte, naturalmente anonima, del Pentagono, secondo cui “in passato lo abbiamo visto sorridere, ma nel 2022 ci sono poche foto in cui sembra felice”. Non basta, “perché addirittura alcuni pensano che come ultima traccia da lasciare sulla Terra prima della sua morte ci sia stata l’invasione dell’Ucraina”. Tutto molto credibile: infatti, chi prima di tirare le cuoia come estremo desiderio non vorrebbe appiccare il fuoco all’appartamento del vicino o magari bombardare Kiev?
È vero che gli abbiamo piazzato qualche testata nucleare con vista Cremlino, però lui è sempre così malmostoso. Mai una bella risata, e che diamine.
Ma quanto mi costi? - Massimo Erbetti
Ma quanto mi costi?...e perché mi costi così tanto?...oggi preparatevi ad impazzire con i numeri…mi spiace ma ve tocca…nel prepararli sono impazzito io…adesso tocca a voi…per fare il pieno ci vuole un mutuo?...parliamo del costo della benzina…ed ecco perché costa così tanto:
– Guerra d’Etiopia del 1935-1936: 1,90 lire (0,000981 euro);
– Crisi di Suez del 1956: 14 lire (0,00723 euro);
– Ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963: 10 lire (0,00516 euro);
– Ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966: 10 lire (0,00516 euro);
– la Ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968: 10 lire (0,00516 euro);
– Ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976: 99 lire (0,0511 euro);
– Ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980: 75 lire (0,0387 euro);
– Missione ONU durante la guerra del Libano del 1982: 205 lire (0,106 euro);
– Missione ONU durante la guerra in Bosnia del 1995: 22 lire (0,0114 euro);
– Rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004: 0,02 euro;
– Acquisto di autobus ecologici nel 2005: 0,005 euro;
– Emergenza terremoto in Abruzzo del 2009: 0,0051 euro;
– Finanziamento alla cultura nel 2011: da 0,0071 a 0,0055 euro;
– Gestione immigrati dopo la crisi libica del 2011: 0,04 euro;
– Emergenza alluvione Liguria e Toscana del novembre 2011: 0,0089 euro;
– Decreto ‘Salva Italia’ del dicembre 2011: 0,082 euro (0,113 sul diesel);
– Emergenza terremoti dell’Emilia del 2012: 0,024 euro;
– Finanziamento del ‘Bonus gestori’ e riduzione delle tasse ai terremotati dell’Abruzzo: 0,005 euro;
– Spese del ‘decreto Fare’ del 2014: 0,0024 euro
Per un totale di circa 0,4519 euro…
a cui si deve aggiungere l’imposta di fabbricazione sui carburanti…che porta il totale finale dell'accisa totale (accise+imposta di fabbricazione) a 0,7284 euro/litro per la benzina.
Altra cosa da non trascurare è L'IVA che viene calcolata sul prezzo totale (prodotto+accise) che logicamente aumenta all'aumentare del prezzo stesso.
La cosa bella però è che l’elenco delle varie accise è ormai puramente indicativo, visto che dal 1995 l’imposta sul carburante è definita in modo unico e il gettito che ne deriva non finanzia le casse statali in voci specifiche, per cui togliere una sola delle accise è pressoché impossibile…e di chi è questa genialata? Dell'allora governo Dini.
I colpevoli vengono sempre da lontano…le scelte fatte quasi 30 anni fa portano conseguenze catastrofiche oggi…e questo dovrebbe insegnarci che ad esempio sottovalutare la transizione ecologica oggi…transizione ecologica…che ricordo a tutti è una scelta che solo il M5s ha portato avanti con forza…porterà alla catastrofe nel 2050 (data che guarda caso sta nel simbolo del Movimento).
…e adesso?...cosa facciamo adesso?... Tagliamo qualche accisa? Quale? E come? Visto che ormai la suddivisione sta solo sulla carta? Bisognerebbe abbassarle un po', ma è quasi impossibile…abbassare l'iva? Altrettanto complicato…ma allora?...Allora c'è solo una cosa da fare: uno scostamento di bilancio per abbattere i costi di carburante ed energia…e bisogna farlo subito…il M5s è da dicembre che dice queste cose…e la prova di questo è che in sede di legge di bilancio presentammo e fu approvato un nostro Ordine del giorno che impegnava il governo a intervenire in questo senso. (questo nessuno ve lo ha detto vero?)
Bisogna fare qualcosa e farla subito…perché oggi è già tardi.
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