sabato 19 giugno 2010

Mila Spicola, la prof infiamma la platea




Ma soprattutto c'era lei, una minuta e grintosa insegnante siciliana, salita sul palco del Palalottomatica di Roma per elencare i guasti alla scuola che imputa al governo.


Ghedini si ribella: «Ispezione a Milano»



MILANO
- Ispettori del Ministero alla Procura di Milano per verificare se vi siano le ragioni per avviare una azione disciplinare nei confronti del sostituto procuratore della Repubblica Massimo Meroni. Questa la richiesta che viene da Niccolò Ghedini, deputato del Pdl e avvocato di Silvio Berlusconi, protagonista pochi giorni fa di un braccio di ferro proprio con questo magistrato milanese. La Procura di Milano aveva messo in conto «l'accompagnamento coattivo» per Ghedini che doveva testimoniare sulla vicenda dell'intercettazione Fassino-Consorte nell'ambito dell'inchiesta Unipol. La questione si era risoltà dopo un duro rimpallo tra la Procura e Roma con la disponibilità data da Ghedini di essere interrogato.

L'INTERROGAZIONE - Oggi però Ghedini ha presentato una interrogazione di otto fitte pagine per ricostruire la vicenda che lo ha visto come protagonista e affermare che i Pm di Milano hanno avuto «comportamenti inqualificabili» e che si deve verificare la possibilità di una azione disciplinare nei confronti del magistrato. L'inusuale scelta della interrogazione su un fatto che lo coinvolge direttamente fa dire al Pd: siamo, «dopo le leggi "ad personam", all'uso privato degli atti parlamentari». Per Ghedini invece il minacciato uso dell'accompagnamento coatto è stato 'un gravissimo episodio che ha anche chiaramente connotazioni politiche«. In particolare (l'interrogazione è firmata anche dal capogruppo Cicchitto e da quello in commissione Giustizia, Costa) ricorda che il Pm Massimo Meroni ha firmato «un durissimo documento contro le leggi del governo Berlusconi del periodo 2001-2006». Elemento questo che aiuterebbe a capire «quale sia lo stato d'animo» con il quale il magistrato «sta agendo nei confronti dell'avvocato Ghedini».

LA BOBINA - Nelle 8 pagine di interrogazione si ricorda quindi l'intera vicenda che riguarda la famosa bobina con la conversazione tra Piero Fassino e il numero uno di Unipol Giovanni Consorte che sarebbe stata consegnata dall'ingegner Raffaelli e da Fabrizio Favata a casa Berlusconi nel Natale del 2005. Pochi giorni prima della sua pubblicazione su Il Giornale. E gli interroganti ripercorrono anche tutte le varie fasi del tentativo del Pm di ascoltare Ghedini visto che, secondo le ricostruzioni apparse sui giornali, al momento dell'incontro in casa del premier, sarebbe stato presente anche lui insieme al fratello del Cavaliere, Paolo Berlusconi, proprietario de Il Giornale. L'accusa che i deputati del Pdl muovono al sostituto procuratore di Milano è che, citando Ghedini come teste, pur essendo quest'ultimo difensore dei due fratelli Berlusconi, si punterebbe ad «inibire» all'avvocato di Padova «l'esercizio del suo mandato> di legale nei confronti dei suoi assistiti. Secondo quanto sostiene Ghedini, infatti, «nell'ambito dello stesso procedimento colui che assume la qualifica di testimone non può assumere la veste di difensore».

LE REAZIONI - L'intervento di Ghedini suscita la immediata reazione dell'Idv e del Pd. Di Pietro commenta che il governo dovrebbe chiari come Berlusconi entro in possesso di quella intercettazione. «Siamo allo stato di polizia. Come al solito, Berlusconi e la sua corte vogliono bloccare i magistrati perché indagano sui loro sporchi affari. È provato che la telefonata tra Fassino e Consorte è stata pubblicata da Il Giornale della famiglia Berlusconi quando era coperta da segreto». Luigi De Magistris parla di riflesso condizionato » alla Pavlov« da parte del Pdl . «Dopo le leggi ad personam siamo adesso all'uso privato degli atti parlamentari», ha commentato la capogruppo democratica nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti: «Più che il merito della vicenda stupisce il metodo visto che Ghedini non si è ancora presentato in procura in qualità di persona informata sui fatti e questa sua iniziativa parlamentare ha tutto il sapore di una intimidazione preventiva nei confronti del magistrato che lo dovrà interrogare. È il solito modo di intendere la giustizia dove gli obblighi valgono per tutti, qualcuno escluso». (Fonte: Paolo Cucchiarelli-Ansa)

18 giugno 2010

http://www.corriere.it/politica/10_giugno_18/ghedini-interrogazione-procura-milano_fc2a96ae-7b0a-11df-aa33-00144f02aabe.shtml


venerdì 18 giugno 2010

Nominato un nuovo ministro.




Il curriculum del neo ministro del Federalismo Aldo Brancher è perfetto per il Governo Berlusconi (suo ex datore di lavoro) e una speranza per ogni italiano.

Anche un ex galeotto può ambire a diventare ministro della Repubblica.

"Detenuto per 3 mesi nel carcere di San Vittore, fu uno dei pochissimi inquisiti di Mani pulite a ricevere solidarietà dall'ambiente esterno: lo rivelò il suo datore di lavoro Silvio Berlusconi raccontando che "quando il nostro collaboratore Brancher era a San Vittore, io e Confalonieri giravamo intorno al carcere in automobile: volevamo metterci in comunicazione con lui".

Scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, è stato condannato con giudizio di primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito al Partito Socialista Italiano. Brancher viene assolto in Cassazione grazie alla prescrizione per il secondo reato e alla depenalizzazione del primo da parte del governo Berlusconi, del quale faceva parte.

Viene indagato a Milano per ricettazione nell’indagine sullo scandalo della Banca Antonveneta e la scalata di Gianpiero Fiorani all’istituto creditizio: la Procura ha rintracciato, presso la Banca Popolare di Lodi, un conto intestato alla moglie di Brancher con un affidamento e una plusvalenza sicura di 300mila euro in due anni". daWikipedia.

La nomina consentirà a Brancher di non presenziare il 26 giugno all'udienza del processo della Banca Antonveneta in cui è indagato per appropriazione indebita. Si tratta sicuramente di una coincidenza.

Marco Travaglio racconta una storia di mafia.




Martedì 22 giugno
il Fatto scioglie gli ormeggi


17 giugno 2010

Inizia il conto alla rovescia. Tra sei giorni partirà la nostra nuova edizione on line. Più di mille tra siti e blog hanno già aderito alla campagna virale di lancio

Pensavate che ce ne fossimo dimenticati? Ormai credevate che l'annuncio della nascita de
ilfattoquotidiano.it fosse una bufala? E invece, no. Eccoci qui. Tra sei giorni, saremo finalmente on-line con una versione Beta. Martedì 22 giugno il nostro nuovo sito scioglierà gli ormeggi. Le cose che non funzionano sono ancora tante. In queste settimane abbiamo spesso lavorato dalle otto del mattino alle due di notte per cercare di metterle a posto. La rotta da percorrere resta però lunga. Ma un risultato (straordinario) per ora ci conforta: la campagna virale di lancio del sito, che sta partendo in queste ore, ha raccolto - a scatola chiusa - un mare di adesioni. Più di mille siti e blog hanno accettato di ospitare i nostri banner non convenzionali e gli utenti vengono adesso ricontattati per i particolari tecnici. La casella e-mailiosupporto@ilfattoquotidiano.it è ancora in funzione. Speriamo che le adesioni continuino ad arrivare per toccare quota 1.500.

È stata poi aperta una
nuova pagina Facebook interamente dedicata a il Fatto Quotidiano che sostituirà quella dell'Antefatto. Chi vuole può già iscriversi.Facebook infatti resterà un canale importante per comunicare in tempo reale le nostre iniziative e per discutere quanto sta accadendo nel mondo e in Italia. I prossimi mesi si annunciano cruciali per il Paese. Chi è al potere vuole riscrivere la Costituzione, imbavagliare la stampa, imbrigliare la magistratura, approvare una legge finanziaria che, tagliando senza criterio lo stato sociale, finirà per colpire i soliti noti. Ci sarà insomma molto da raccontare e molto da dire. Noi lo faremo come sempre. Riportando tutti i fatti (anche i più scomodi) che riteniamo essere notizie e proponendo con chiarezza soluzioni alternative ai problemi che vengono discussi (ma più spesso ignorati) in Parlamento. Anche per questo nasce il sito delFatto Quotidiano: per far sentire il fiato sul collo a chi sta nel palazzo. E per dimostrare che un'altra Italia esiste e vuol far sentire la sua voce.

Quando saremo
on-line (permetteteci di non anticipare niente sui contenuti in modo da sfruttare a fondo l'effetto sorpresa) ci si renderà conto di come il nostro sforzo sia stato quello di mettere a disposizione della Rete uno spazio dove sia davvero possibile confrontarsi, ragionare e denunciare. Uno spazio dove si sarà liberi di dire e liberi di sapere.

La sfida è difficile. Come spesso ci è accaduto in passato partiamo svantaggiati rispetto agli altri big della cosiddetta informazione su Internet: abbiamo meno soldi, meno giornalisti, meno tecnici di tutti gli altri. Una cosa però ci lascia fiduciosi: abbiamo un solo padrone, il lettore. Anzi il navigatore del web.

Senza il sostegno della Rete, lo sappiamo, questa avventura è destinata al naufragio. Ma dove ci porterà lo capiremo presto. Abbiamo davanti a noi tutta l'estate per approntare, grazie al vostro supporto e ai vostri suggerimenti, la versione definitiva del sito. E per far lavorare al meglio la piccola squadra del
Fatto Quotidiano. Poi sarà solo mare aperto. Augurateci buon vento.

Peter Gomez e Marco Travaglio

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2500315&title=2500315

Spatuzza, il killer che parla anche di Berlusconi



PALERMO.
Prima nei verbali, poi anche in aula, Gaspare Spatuzza, l'aspirante collaboratore di giustizia al quale non è stato riconosciuto oggi il programma di protezione dalla Commissione del Viminale sui pentiti, ha ricostruito, dal suo punto di vista, tanti filoni investigativi: dalle relazioni tra mafia e politica alle verità nascoste sulle stragi del 1992 e sulle bombe del 1993.

Dalle sue rivelazioni, che hanno toccato anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri quale "referente" di Cosa nostra, sono scaturite una serie di nuovi spunti su un tema generale riconducibile al cosiddetto "patto" tra Stato e mafia.

Se ne occupano, sotto profili distinti, le tre Procure che avevano chiesto di ammettere il collaboratore, fedelissimo dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, al programma di protezione: Firenze, Palermo e Caltanissetta.

Il racconto più ampio Spatuzza lo ha consegnato in prima battuta ai magistrati fiorentini che indagano sulle stragi del 1993.

Ma le connessione e le affinità criminali con altre vicende hanno finito per smistare i verbali anche ai magistrati siciliani.

A Palermo le dichiarazioni del collaboratore di Brancaccio, che in carcere si è dedicato agli studi teologici, sono stati incanalati verso il capitolo della "trattativa" già da tempo alimentato (lo ha fatto ancora oggi) dal lungo racconto di Massimo Ciancimino.

A Caltanissetta il contributo di Spatuzza è finito nell'ambito delle inchieste ancora aperte sulle stragi Falcone e Borsellino.

Ed è proprio a Caltanissetta che il pentito viene gestito con interesse, dal momento che ha rivelato di possedere tante conoscenze sui "mandanti senza volto" degli attentati di Capaci e via D'Amelio.

La sua collaborazione è cominciata, con un nuovo percorso spirituale, mentre era detenuto nel carcere di Ascoli Piceno il 26 giugno 2008 ma, almeno per il processo a Marcello Dell'Utri nel quale ha deposto il 4 dicembre 2009, avrebbe dato l'impressione di fare rivelazioni "a rate".

In realtà, secondo i magistrati siciliani, non è possibile fissare in modo così netto i tempi della collaborazione passata attraverso vari momenti e vari temi.

Del resto la carriera criminale di Spatuzza è stata molto intensa: il killer della cosca di Brancaccio è stato infatti accusato di sei stragi e 40 omicidi, collezionando numerosi ergastoli. In questo rosario di delitti c'é di tutto: dall'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, alla partecipazione alla strage Borsellino per la quale si autoaccusa di avere rubato la 126 usata per l'attentato smentendo la ricostruzione del pentito Vincenzo Scarantino.




Pezzi di trattativa: Massimo Ciancimino




di Claudio Forleo

Vito Ciancimino è stato un "uomo d'onore" per quasi mezzo secolo. Se Cosa Nostra a Palermo è riuscita a fare una montagna di denaro lo deve anche a don Vito che, da assessore ai Lavori Pubblici (con Salvo Lima sindaco), concesse in quattro anni oltre 4mila concessioni edilizie, tutte alle stesse ditte legate alla mafia: è il cosiddetto "sacco di Palermo".

Vito ha tre figli, uno di questi si chiama Massimo. Il padre nel corso degli anni ha accumulato un capitale difficile da quantificare e che dopo la sua morte, avvenuta nel 2002, è stato gestito dal figlio. A questo proposito Massimo è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Palermo a 5 anni e tre mesi per riciclaggio. Oltre a conservare, e a quanto pare riciclare, il suo denaro custodito in diverse banche all'estero, Massimo è stato anche il confidente del padre. Ha visto tante cose, ha sentito tanti discorsi e, soprattutto, è "custode" delle carte del genitore. Carte che potrebbero far tremare dalle fondamenta la Seconda Repubblica. Il tema è sempre lo stesso: la trattativa fra Stato e Cosa Nostra.

Fino al 2007 Ciancimino junior si è difeso nel suo processo ma poi, incalzato dai magistrati, ha iniziato a parlare di altri argomenti. Nel 2005 la Procura di Palermo era passata dalle mani di Piero Grasso (assunto a Procuratore Nazionale Antimafia e recentemente confermato dal Csm per un secondo mandato) a quelle di Francesco Messineo. Ciancimino inizia a parlare delle istituzioni, tema mai toccato dalla precedente gestione Grasso durante la quale casa Ciancimino era stata perquisita ma senza che i Carabinieri toccassero il contenuto di una cassaforte ben visibile nell'abitazione. Come quando il Ros "dimenticò" di sorvegliare il covo di Riina e perquisirlo. Un deja vù.

Nel febbraio 2005, ancora durante la gestione Grasso, a casa Ciancimino era stato trovato un documento scottante. Una lettera scritta da Bernardo Provenzano e indirizzata al Presidente del Consiglio di allora e di oggi. Una lettera, tagliata quasi a metà, in cui si legge: "... posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive". Secondo i magistrati la lettera poteva essere scritta da ''uno che sa scrivere, sotto la dettatura di uno che non sa parlare''. Ovvero come se l'avesse scritta Vito Ciancimino sotto la dettatura del boss Provenzano. Poi l'esame calligrafico ha escluso che a scriverla fossero stati tanto don Vito quanto il figlio. Che sia davvero di Provenzano?

Nessuna domanda è stata posta a Massimo Ciancimino dall'allora Procuratore di Palermo Piero Grasso a proposito di quella lettera. Nè da lui nè da Giuseppe Pignatone, attualmente procuratore capo a Reggio Calabria, che allora faceva parte della Procura di Palermo e che condusse molti di quegli interrogatori con Ciancimino

La lettera viene dimenticata negli archivi della Procura per quattro anni. Nel 2009 Messineo la trova e riesce, sul filo di lana, a farla depositare agli atti del processo d'appello per concorso esterno in associazione mafiosa a carica di Marcello Dell'Utri. Quando Ciancimino jr. vede la lettera "sbianca". Capisce che sta per entrare in un terreno pericoloso. Ma poi inizia a parlare e pare riesca a "ricostruire" a memoria il resto della lettera. In ogni caso afferma di avere la copia di quella lettera, nella sua versione integrale, fra le carte del padre custodite all'estero.

Ciancimo racconta anche dei rapporti tra don Vito e il colonnello Mario Mori nel giugno del 1992, fra Capaci e Via D'Amelio. In pratica il momento in cui lo Stato inizia a tessere la trattativa con Cosa Nostra. Ma racconta anche che suo padre, agli arresti domiciliari dal 1993 per una condanna a 13 anni, ha intrattenuto rapporti con Bernardo Provenzano e lo avrebbe incontrato spesso almeno fino al 2000. Ciancimino jr non sapeva chi fosse quell'uomo che lui conosceva come l'ingengner Lo Verde. Poi lo riconobbe da un'identikit pubblicato su un giornale e chiese conferma al padre: si, era lui, il capo di Cosa Nostra.

Il testimone diretto della trattativa è un fiume in piena: racconta di aver visto il "papello", vale a dire quel foglio di carta sul quale Cosa Nostra (Riina) aveva scritto le richieste che lo Stato avrebbe dovuto esaudire per vedere la fine della strategia stragista. Una copia originale del "papello" è stata consegnata da Ciancimino ai magistrati nell'ottobre del 2009.

Il figlio di don Vito racconta anche dell'altro. Ad esempio il coinvolgimento dei servizi segreti, di un tale "Carlo" o "Franco" che per anni è stato una sorta di ombra del padre. Spiega come Vito fosse sicuro che durante la trattativa dietro Mori ci fosse una "copertura politica". E dice che quella lettera di Provenzano a Berlusconi non è l'unica, ma che complessivamente sarebbero tre. Una dell'inizio e un'altra alla fine del 1992, l'ultima nei primi mesi del 1994. Prima e dopo le stragi e prima delle elezioni politiche del marzo 1994 che videro la vittoria della coalizione guidata da Berlusconi.

Se nella lettera trovata dai Carabinieri a casa Ciancimino Provenzano si rivolge a Berlusconi chiamandolo "onorevole" viene naturale pensare che quella sia la lettera numero tre.

E cosa significa "mettere a disposizione le televisioni"? Secondo Marco Travaglio gli attacchi quotidiani riservati alle reti Mediaset alla Procura di Palermo guidata dal 1993 da Giancarlo Caselli, e impegnata a istruire i processi contro Dell'Utri, Andreotti e Contrada, sono più di un indizio. Vittorio Sgarbi, conduttore su Canale 5 di una rubrica quotidiana chiamata "Sgarbi Quotidiani" arriverà a definire "assassino" il procuratore Caselli. Una diffamazione continua nei confronti di tutta la Procura di Palermo che si fermò nel 2000 quando alla guida della stessa arrivò Piero Grasso, lo stesso che non si curò della lettera di Provenzano a Berlusconi, dimenticandola in archivio e non ponendo, o facendo mai porre, mai alcuna domanda a Massimo Ciancimino.

Ma la questione principale è un'altra: per quale motivo Cosa Nostra aveva la certezza che una lettera della mafia sarebbe arrivata all'attenzione dell'allora imprenditore Berlusconi? Secondo il figlio di don Vito la catena di comunicazione fra Provenzano e Berlusconi seguiva questo iter: il capo di Cosa Nostra – Vito Ciancimino – Marcello Dell'Utri – l'attuale Presidente del Consiglio.

Oltre al papello, alla lettera e ai ricordi, non vanno dimenticate le carte custodite da Massimo Ciancimino nelle cassaforti delle banche estere. Secondo Peter Gomez e Marco Lillo esisterebbe una sorta di manoscritto di don Vito Ciancimino. I due giornalisti sostengono che "ci sarebbero elementi documentali sul ruolo che svolse negli anni Settanta e Ottanta Ciancimino per portare capitali mafiosi dentro queste società di Milano o di Milano 2, Banca Rasini, famiglie Buscemi, Bonura, Teresi, Bontate". La Banca Rasini, nella quale ha lavorato per anni Luigi Berlusconi, padre del premier, come procuratore con potere di firma, è stata indicata da Michele Sindona come una delle banche preferite dalla mafia per riciclare i proventi. Tra i clienti più "illustri" vale la pena di citare Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra.

Che le carte di Ciancimino possano soddisfare la domanda alla quale Berlusconi ha rifiutato di rispondere nel 2002? Interrogato dai magistrati di Palermo sulle origini misteriose dei capitali sui quali ha fondato il suo impero, l'attuale Presidente del Consiglio rispose: "Mi avvalgo della facoltà di non rispondere".

Tra il 1975 e il 1983 una cifra pari a circa 300 milioni di euro di provenienza innota transitò su 22 delle 38 holding finanziarie che Berlusconi controllava. Holding, in cui il nome del premier non appariva mai, che saranno la base sulla quale il Presidente del Consiglio darà vita alla Fininvest, la holding principale che è oggi il contenitore che detiene le proprietà del premier, da Mediaset a Mondadori...

Ma, in definitiva, le dichiarazioni di Ciancimino sono da considerarsi attendibili? Lo sono secondo la Seconda Sezione del Tribunale di Palermo che nel gennaio di quest'anno ha condannato per associazione mafiosa l'ex deputato regionale di Forza Italia Giovanni Mercadante. "Ritiene il Tribunale di poter esprimere un giudizio di alta credibilità su quanto dichiarato da Massimo Ciancimino... racconto fluido e coerente, senza contraddizioni di sorta: ogni circostanza riferita ha trovato... ulteriori precisazioni e argomentazioni a riscontro...Quel che è certo e può indiscutibilmente affermarsi nel presente processo è che egli ebbe realmente modo di assistere a incontri tra il padre e Provenzano...che parlavano di affari, appalti, mafia e politica..."

Non è d'accordo invece la Corte d'Appello di Palermo che ha rigettato per due volte la richiesta dell'accusa di ammettere la testimonianza di Massimo Ciancimino nel processo a carico di Marcello Dell'Utri. La Corte, senza ascoltare il figlio di Don Vito, ha considerato le sue parole "generiche e contraddittorie". Giova ricordare che la Corte è la stessa che ha respinto un'altra richiesta. Lo ha ricordato recentemente Marco Travaglio nella rubrica Signornò che il giornalista cura su L'Espresso: "... (La Corte)ha respinto le carte di un'inchiesta a Reggio Calabria da cui risulta che prima delle elezioni 2008 Dell'Utri telefonava al bancarottiere Aldo Miccichè, legato alla 'ndrangheta e rifiugiato in Venezuela, e lo ringraziava per avergli mandato in ufficio a Milano "due bravi picciotti": Antonio Piromalli, reggente del clan omonimo, e suo cugino Gioacchino, avvocato radiato dall'Ordine per una condanna di mafia. Possibile che i rapporti fra Dell'Utri e uomini della 'ndrangheta non interessino alla Corte che lo sta giudicando per mafia? Proprio così: un conto è la mafia, un altro la 'ndrangheta. Richiesta respinta...".