lunedì 6 dicembre 2010

"Dopo le Holding del mistero, "salta" un altro tappo: la Banca Rasini L'istituto di "famiglia" passato al setaccio"




La nostra inchiesta sul mistero Berlusconi continua a procedere. Innanzitutto una notizia scivolata via dalla grande stampa nazionale - e mi pare ovvio... - soltanto alcuni giorni fa: la Procura di Palermo ha ordinato il sequestro dell'intero archivio della Banca Rasini.Ah, Cavaliere, che dolori in arrivo...Come più volte abbiamo scritto, la sede principale dove vennero custoditi alcuni dei capitali all'origine dei "grandi affari" berlusconiani è proprio questo istituto di credito siculo-meneghino, fondato a metà dagli anni Cinquanta da una strano miscuglio di persone: esponenti della nobile famiglia milanese dei Rasini, ed esponenti della più disgraziata periferia palermitana ad altissimo tasso mafioso: gli Azzaretto di Misilmeri. Per quasi vent'anni, e per tutto il primo periodo d'attività di Silvio Berlusconi, la Rasini ha rappresentato un punto fermo, un faro imprescindibile per le avventure professionali del futuro Cavaliere. Alla Rasini, voluto sia dagli Azzaretto sia dai Rasini, ha lavorato fino alla pensione Luigi Berlusconi, padre di Silvio. E non ebbe un ruolo marginale, anzi. Fu procuratore con potere di firma di tutto questo clan di strani banchieri, questa confraternita tenebrosa di uomini e interessi la cui natura diventerà tragicamente chiara nel 1983, il 15 febbraio, il giorno dell'operazione "San Valentino", grande retata della polizia milanese contro le cosche di Cosa Nostra annidate in città. Diversi degli arrestati, Luigi Monti, Antonio Virgilio, Robertino Enea e per loro conto il clan Fidanzati, il clan Bono, Carmelo Gaeta e i relativi referenti palermitani, ovvero Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano, erano correntisti multimilardari della Banca Rasini.Non solo questa "clientela" affezionata al riciclaggio finì in galera, anche il direttore generale della Rasini, tal Vecchione, in seguito subirà una condanna a 4 anni di carcere. Naturalmente, ripensando a tali vicende, non può che sorgere un interrogativo presto risolto: chi volle che tutta questa marmaglia operasse nella banca di Piazza dei Mercanti numero 8? Proprio Giuseppe e Dario Azzaretto, padre e figlio. Ora capite l'importanza del decreto di sequestro dell'archivio di questo istituto di credito presso la Banca Popolare di Lodi, che ha assorbito la Rasini qualche anno fa? È assolutamente basilare per poter ricostruire l'epopea di mister Forza Italia, ma anche altre vicende che apparentemente "sembrerebbero scollegate" dalla storia di Berlusconi. Infatti non finisce qui l'importanza della notizia dell'acquisizione di questa documentazione. La Rasini, dopo lo scandalo di mafia del 1983, venne ceduta dagli Azzaretto... indovinate a chi? L'avete già letto nella nostra inchiesta sull'Imi-Sir: a Nino Rovelli, il grande elemosiniere, colui che diede 2 miliardi a Giulio Andreotti, denaro di cui scrisse Mino Pecorelli (il famoso articolo: "Gli assegni del Presidente" che non venne mai pubblicato) costandogli la vita. Proprio un bell'ambientino, eh, quello della Rasini di berlusconiana memoria, non trovate? Tuttavia, per meglio capire fino a dove si spinse la ragnatela infame di questa banca, è necessario ricordare che Giuseppe Azzaretto sposò... la nipote di Papa Pacelli. Mancava giusto giusto questo tassello per completare il quadro. È fuori di dubbio che tale signora possedesse diverse e apprezzate qualità, non ultime le relazioni personali e perfino di parentela con importanti personaggi del Vaticano, ad iniziare dal Papa. Certo che ne fece di "carriera" quell'uomo, Giuseppe Azzaretto, partito da una delle frazioni più povere e miserabili di Palermo, e ritrovatosi nel volgere di pochi anni al vertice di una banca a Milano - da lui fondata - e perfino maritato con una damigella la cui famiglia era tra le meglio introdotte nei gangli del potere millenario della Roma dei Papi. C'è ancora molto da scoprire, come si vede. Se la Banca Rasini venisse davvero scoperchiata fino in fondo, sono convinto che una parte della storia d'Italia andrebbe riscritta, e sarebbero le pagine peggiori. Della storia più recente della Rasini - il lettore ricorderà anche questo - abbiamo scritto anche altro. Ad esempio abbiamo raccolto la testimonianza della baronessa Maria Giuseppina Cordopatri, che fu correntista di questo istituto di credito. La baronessa ha reso noto che il vero dominus della banca non era il clan Azzaretto sic et simpliciter, bensì un certo Giulio Andreotti. Non è notizia da poco, se si pensa che Nino Rovelli rileverà questa banca benché in vita sua non avesse mai operato nel settore. Per conto di chi Rovelli gestirà la Rasini fino all'arrivo della Banca Popolare di Lodi? Bella domanda.In ogni caso, come si diceva all'inizio, la nostra inchiesta sta avanzando. Nei prossimi giorni saremo in grado di approfondire in maniera circostanziata il ruolo e l'azione delle due società fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro, Saf e Servizio Italia, che tanto hanno avuto a che fare con la costruzione del Gruppo Fininvest all'epoca in cui il vero "burattinaio" si chiamava Licio Gelli. Eh sì, proprio lui, che nell'anno 1978 - quando vennero fondate 32 delle 38 Holding Italiane - annotò fra gli iscritti alla sua loggia infame anche Silvio Berlusconi, il piduista n° 1816, entrato nel cerchio infernale gelliano... esattamente lo stesso anno in cui nascono dal nulla (con l'uso del solito schermo di prestanome) le holding casseforti del suo futuro impero. Accidenti, che coincidenza, anzi: che pista investigativa.Su un altro versante, saremo presto nelle condizioni di svelare i rapporti fra alcune di queste Holding Italiane "occulte" e inquietanti personaggi palermitani, così pure saremo in grado di disegnare la "mappa" di intrecci societari fra queste Holding segrete e altri rami della pianta berlusconiana, ad esempio Mediaset.Mala tempora currunt, signor Berlusconi. Se n'è accorto? A proposito, Cavaliere: rammenta l'illustrissimo signor Aldrighetti e quel famoso aumento di capitale di 52 e passa miliardi? A presto.

Tratto da "LA PADANIA" 30 settembre 1998 articolo di MAX PARISI

http://www.lapadania.com/1998/settembre/30/300998p10a2.htm


Provenzano for President - Marco Travaglio


domenica 5 dicembre 2010

Mastella, ora la casta lo salva dal processo. - di Marco Travaglio.


Le accuse: concussione,associazione a delinquere, truffa e peculato. Ma il Senato unito, meno l’Idv, ha detto “no”

Ricordate il processo a Clemente Mastella e famiglia (moglie, consuocero, cognato e mezza Udeur) per le lottizzazioni nelle Asl e negli enti pubblici della Campania, il mercato illegale degli appalti, la gestione allegra dei fondi pubblici al giornale Il Campanile con appartamenti romani incorporati? Bene, anzi male: il Parlamento ha deciso di abolirlo. Non Mastella: il processo. Venerdì, alla chetichella come si usa in questi casi, il Senato della Repubblica ha approvato per alzata di mano la proposta della giunta per le autorizzazioni a procedere di sollevare un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato dinanzi alla Consulta contro i giudici di Napoli che osano processare l’ex ministro della Giustizia del centrosinistra, ora eurodeputato di centrodestra, senza chiedere il permesso al Parlamento. Tutti d’accordo (Pdl, Lega, Udc, Pd), tranne l’Idv. Motivo: i reati contestati a Mastella nell’udienza preliminare in corso da mesi a Napoli sarebbero stati commessi nell’esercizio delle funzioni di Guardasigilli, dunque di natura ministeriale, dunque sottoposti alla giurisdizione del Tribunale dei ministri di Napoli, ma solo previa autorizzazione a procedere del Senato. I difensori di Mastella, nell’udienza di sabato, hanno subito chiesto al gip di sospendere tutto fino a quando la Corte costituzionale non si sarà pronunciata (fra un anno o due, visti i tempi biblici della Consulta). Se il gip dovesse accogliere l’istanza di rinvio sine die, il processo morirebbe lì, con prescrizione assicurata. E non solo per Mastella, ma anche per i suoi 50 coimputati, che hanno immediatamente fatto propria la richiesta dell’ex ministro, ritenendosi attratti per contagio dalla sua speciale immunità, peraltro sconosciuta alle leggi.

La vicenda è talmente intricata che, se non se ne illustrano bene i passaggi, si rischia di non afferrare appieno la portata dello scandalo. L’inchiesta è quella avviata quattro anni fa dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, che nel gennaio 2008 fece arrestare fra gli altri la signora Mastella, Sandrina Lonardo, il consuocero dei coniugi, Carlo Camilleri e un bel pezzo di Udeur campana per vari e gravissimi reati, poi notificò un avviso di garanzia all’allora ministro della Giustizia, che colse la palla al balzo per rovesciare il governo Prodi, passando armi e bagagli al centrodestra. Intanto, per competenza, il fascicolo fu trasmesso a Napoli, dove il pm Francesco Curcio proseguì le indagini, scoprì altri reati e lo scorso anno chiese i rinvii a giudizio sui quali, fra breve, dovrebbe pronunciarsi il gip Eduardo De Gregorio.

Le accuse: concussione,associazione a delinquere, truffa e peculato. Ma il Senato unito, meno l’Idv, ha detto “no”

Mastella è accusato di ben nove episodi delittuosi: quattro concussioni, tre abusi d’ufficio, un’associazione per delinquere e un caso di truffa, peculato e appropriazione indebita.

1) Concussione: in combutta col consuocero Camilleri, leader dell’Udeur beneventana e con due assessori regionali, Mastella avrebbe costretto il governatore Antonio Bassolino ad “assicurare loro la nomina a Commissario dell’Area sviluppo industriale (Asi) di Benevento di una persona liberamente designata dal Mastella” per “compensare la mancata attribuzione al suo gruppo politico della carica di presidente dello Iacp di Benevento”; per coartare la volontà di Bassolino, i due assessori presero a disertare le riunioni di giunta e Mastella ad “attaccarlo strumentalmente sulla gestione dei rifiuti”.

2) Tentata concussione: Mastella e la moglie Sandrina (presidente del Consiglio regionale) avrebbero perpetrato una “costante intimidazione” e “denigrazione” contro Luigi Annunziata, direttore generale dell’ospedale San Sebastiano di Caserta per cacciarlo dal suo incarico, visto che rifiutava di “procacciare favori, appalti, posti, incarichi dirigenziali e primariati a membri dell’Udeur”.

3) Abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio: Mastella avrebbe “istigato” il presidente della III sezione del Tar Campania, Ugo De Maio, ad aggiustare una causa in camera di consiglio per favorire un suo protetto e svantaggiare un’altra persona.

4) Abuso d’ufficio: Mastella, assieme al solito Camilleri, avrebbe istigato un suo assessore regionale a favorire un suo raccomandato ai vertici della comunità montana del Taburno.

5) Concussione: Mastella avrebbe costretto il sindaco di Cerreto Sannita a nominare un amico dell’Udeur ad assessore ai Lavori pubblici e ad assegnare il progetto dell’area industriale allo studio ingegneristico del consuocero Camilleri, minacciando in caso contrario “il congelamento dei finanziamenti regionali destinati al Piano di insediamento produttivo di Cerreto”.

6) Abuso d’ufficio: Mastella, assieme al consuocero, al cognato Pasquale Giuditta e ad altri, avrebbe chiesto e ottenuto l’assunzione indebita all’Arpac di ben 158 raccomandati suoi e dell’Udeur, in barba alle regole sulle competenze professionali, “per coltivare interessi di natura politico clientelare”.

7) Tentata concussione: Mastella & C. avrebbero intimato al direttore generale dell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli di nominare primario un loro amico a scopo esclusivamente “clientelare”; e, quando quello rifiutò, fu investito da un’interpellanza dell’Udeur in Consiglio regionale che lo dipingeva come un incapace e dunque costituiva una minaccia di “rimozione dall’incarico”.

Associazione per delinquere: Mastella, la moglie Sandra e altri avrebbero dato vita a “un’associazione per delinquere, operante prevalentemente nella regione Campania, finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro la Pubblica amministrazione e, soprattutto, all’acquisizione del controllo delle attività pubbliche di concorso e gare pubbliche bandite dagli Enti territoriali campani, attraverso la realizzazione di reati di falsità ideologica, turbata libertà degli incanti, corruzioni, abuso di ufficio e rilevazioni del segreto di ufficio… essendo capi e promotori del sodalizio Mastella Clemente, Camilleri Carlo e Lonardo Alessandrina”.

9) Peculato, truffa e appropriazione indebita: Mastella, “al fine di procurare ingiusto vantaggio patrimoniale ai suoi congiunti Mastella Elio e Mastella Pellegrino” (i figli, che “attraverso lo schermo societario costituito dalla società Campanile srl, senza averne titolo, acquistavano dalla Scip a prezzo più basso di quello di mercato, l’immobile in Roma Largo Arenula già di proprietà dell’Inail, utilizzando anche fondi pubblici destinati al sostentamento dell’editoria”), “si appropriava indebitamente dell’intero capitale sociale del detentore del logo della testata Il Campanile Nuovo” e sarebbe riuscito persino a truffare l’Inail.
Tutti questi reati, secondo la Procura di Napoli, Mastella li avrebbe commessi “agendo in qualità di Segretario Nazionale del partito politico Udeur”. Dunque, mai come ministro. Del resto, alcuni gli vengono contestati “fino al luglio 2009”, quando non era più ministro da un anno e mezzo. E altri prima che lo diventasse. Che dice la legge sui reati commessi da un ministro? La risposta è nell’articolo 96 della Costituzione e nella legge costituzionale 1/1989 (che abolì la Commissione Inquirente), ma anche nella costante giurisprudenza della Cassazione: spetta al pm, titolare dell’azione penale, decidere se il reato commesso da chi fa il ministro è di natura “ministeriale” o ordinaria. Nel primo caso, il fascicolo passa al Tribunale dei ministri (una sezione ad hoc del Tribunale distrettuale), che però può procedere solo dopo aver avuto l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Nel secondo, si va avanti come in un normale processo. Ma, fatta la legge, trovato l’inganno.

Le accuse: concussione,associazione a delinquere, truffa e peculato. Ma il Senato unito, meno l’Idv, ha detto “no”

Il 30 luglio scorso, la Camera (tutti d’accordo, tranne l’Idv) si costituisce in giudizio dinanzi alla Consulta contro i giudici di Livorno che stanno processando il ministro Altero Matteoli (Pdl) per favoreggiamento del prefetto: l’accusa è di averlo avvertito nel 2004 delle indagini e delle intercettazioni a suo carico per una brutta storia di abusi edilizi all’isola d’Elba. Il caso Matteoli è un unicum: la Procura aveva ritenuto che il reato Matteoli l’avesse commesso in quanto (nel 2004) ministro dell’Ambiente, dunque che fosse di natura ministeriale. Ma il Tribunale dei ministri giudicò diversamente: derubricò il reato da ministeriale a comune e restituì il fascicolo al Tribunale ordinario. La Camera però decise che, prima di farlo, il Tribunale dei ministri dovesse informarla. E sollevò un conflitto di attribuzioni alla Consulta, che le diede ragione con una sentenza controversa (l’illustre consesso si spaccò a metà e il relatore si dimise per protesta): il Tribunale, prima di riprendere il processo, avrebbe dovuto chiedere il permesso a Montecitorio. A quel punto la Camera, senza che nessuno gliel’avesse chiesta, negò l’autorizzazione a procedere contro Matteoli. Il Tribunale di Livorno sollevò a sua volta un conflitto alla Consulta contro la Camera per quell’obbrobrio giuridico. E il 30 luglio scorso la Camera si costituì in giudizio contro i giudici. Spalancando la strada al ritorno all’immunità automatica, almeno per i ministri, senza neppure cambiare la legge o la Costituzione. Venerdì 19 novembre, infatti, il Senato ha trascinato alla Consulta anche il Tribunale di Livorno per salvare Mastella e i suoi cari. Richiamandosi al precedente di Matteoli che, per quanto scandaloso, precedente non è perché è un caso totalmente diverso.

Per Matteoli la Procura (poi smentita dal Tribunale dei ministri) aveva ritenuto il reato “ministeriale”. Per Mastella nessuno ha mai ventilato un’ipotesi tanto assurda: né la Procura di Napoli, né tantomeno Mastella, che in due anni di indagini e udienza non ha mai eccepito nulla del genere. Del resto, basta leggere i capi d’imputazione: tutti fatti che, comunque li si voglia giudicare, riguardano Mastella come leader dell’Udeur, non certo come ministro della Giustizia. I ministri della Giustizia non si occupano di Asl, Arpac, Aisi, comunità montane, assessori in piccoli comuni, giornali e alloggi di partito. Dunque non c’è motivo per cui la Procura o il Gip debbano investire il Tribunale dei ministri o il Senato. Tutto fila liscio fino all’11 ottobre, quando nella fase finale della discussione in udienza preliminare, la difesa Mastella scopre all’improvviso la competenza del Tribunale dei ministri, invocando il precedente fasullo di Matteoli e sostenendo la ministerialità dei reati. Il Gip ovviamente risponde picche. A quel punto il Senato entra a piedi giunti nel processo e, col voto-inciucio di venerdì, tenta di mandarlo in fumo, denunciando i giudici di Napoli alla Consulta e sostenendo che spetta al Parlamento e non ai magistrati stabilire la ministerialità o meno dei reati commessi da ministri ed ex ministri.

Il paradosso tragicomico è che, secondo la legge costituzionale 1/1989, il Parlamento “può negare l’autorizzazione a procedere” solo se il ministro inquisito “ha agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Ecco: forse lottizzare gli enti pubblici piazzando parenti e raccomandati, concutere pubblici ufficiali, pilotare appalti a fini clientelari, intascare soldi del finanziamento pubblico all’editoria o truffare l’Inail sono condotte tipiche di un ministro della Giustizia e vanno tutelate perché finalizzate a un “preminente interesse pubblico”. Nel qual caso, bloccare il processo a Mastella è poco: bisogna erigergli un monumento equestre.




Pd, prove di rivolta generazionale. - di Peter Gomez.




Per ora è solo un venticello. Poco più di un refolo che comincia a spirare gelido da nord. Eppure il tentativo di rottamazione della vecchia e inefficiente classe dirigente del Pd lanciato, sulle orme diMatteo Renzi, Pippo Civati e Debora Serracchiani, da 130 sindaci e responsabili del partito in Lombardia, è l’unica carta in mano al centro-sinistra per sperare di poter tornare un giorno al governo del Paese.

Mentre a Roma i borontocratosauri della nomenklatura democratica dialogano con i teorici avversari del neonato terzo polo nella speranza di far fuori (politicamente) l’ormai imbarazzante settantaquattrenne Silvio Berlusconi, in periferia quella che un tempo si chiamava la base raccoglie le firme per far fuori la propria dirigenza.

All’ombra della Madonina, come ci racconta Davide Vecchi, la direzione regionale e provinciale del partito di Bersani voterà una petizione che contiene due richieste: rendere obbligatorie le primarie nella scelta dei candidati (o meglio nominati) a un posto di deputato o senatore; impedire a chiunque di fare il parlamentare per più di due legislature. Documenti analoghi circolano pure in Liguria ed Emilia Romagna. In altre regioni (Toscana e Friuli Venezia) ordini del giorno di questo tipo sono già stati approvati. E non c’è circolo del Pd dove l’idea non trovi un buon seguito.

Solo la direzione nazionale non ci sente. Poco male. Se l’iniziativa, cosa tutt’altro che improbabile, prende piede i Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e le tante altre facce stanche e perdenti che da vent’anni governano (con scarso successo) il centro-sinistra, dovranno fare i conti con una salutare rivolta generazionale. Salutare per il centrosinistra e per il Paese.

I sondaggi e sopratutto gli umori dei cittadini, del resto, parlano chiaro. Sebbene Berlusconi si sia ormai rivelato agli occhi della maggioranza degli italiani per quello che è (il peggior premier del dopo guerra) il Pd non avanza di un passo. Anzi continua a perdere consensi. E se mai riuscisse a superare i berluscones (fatto improbabile) ciò accadrà solo perché il Popolo delle Libertà ha perso più voti di lui. La corsa, insomma, è al ribasso.

Di possibilità che la situazione cambi da sola non ce ne sono. Certo, l’esecutivo Pdl-Lega tra poco cadrà (forse già il 14 dicembre). Ma se si guarda al dopo diventa evidente come la prospettiva di questo centro-sinistra sia solo quella di essere ancora sconfitto. Anche Bersani lo sa. Per questo ha tanta paura delle elezioni. E ne avrà ancor di più se la chiamata alle urne dovesse giungere tra un anno, un anno mezzo, dopo mesi e mesi di un sempre più probabile governo tecnico sostenuto pure dai suoi uomini.

Le cose cambiano, e di molto, se invece si pensa a un partito che affronta l’appuntamento con il voto (in qualunque momento arrivi) dopo aver rinnovato almeno l’80 per cento delle sue candidature. Se si guarda a un Pd che viene costretto, dai suoi circoli, a non ripresentare gente che occupa la Camera e il Senato da tempi immemorabili (le famose eccezioni alla regola dei tre mandati). E che, come aspirante squadra di governo, mette in campo volti e storie di persone diverse. Uomini e donne che magari hanno ben meritato nel mondo del lavoro o come amministratori locali (ce ne sono molti più di quanto non si creda).

In questo caso il Pd può vincere. Può recuperare un pezzo importate di coloro i quali hanno deciso di non andare più a votare. E sopratutto può sperare di convincere anche i suoi avversari a rinnovare la propria classe dirigente. Ovvio, se tutto questo accadrà, non sarà indolore.

È illusorio pensare che l’attuale classe dirigente di quel partito (e di tutti gli altri partiti) si faccia da parte da sola. È formata da persone rotte a ogni esperienza, di consumata astuzia, d’incomparabile cinismo politico. E, oltretutto, come ogni oligarchia, è ricchissima: la legge sui rimborsi elettorali ha infatti finito per ricoprire d’oro le un tempo povere tesorerie dei movimenti politici. Le manca però una cosa: il consenso.

Per questo gli iscritti al Pd hanno oggi il dovere di andarselo a prendere da soli quel consenso. Cominciando davvero a far la guerra a chi in questi anni lo ha delapidato. La strada è ripida e in salita. Ma non ce ne sono altre.



Rottamazione continua.

Dal Pd lombardo parte l'offensiva su Roma: primarie per ogni parlamentare e limite di due mandati

Primarie per tutti i candidati parlamentari del Partito Democratico e limite di due mandati consecutivi. Quando lo proposero Giuseppe Civati e Matteo Renzi furono coperti di insulti dai vertici del Pd. Ma l’idea si è insinuata nella base, è maturata e adesso da Milano parte la rottamazione: un gruppo di oltre centotrenta tra sindaci e responsabili locali del partito hanno messo nero su bianco la proposta e la voteranno alla direzione provinciale e regionale. Dove sarà approvata facilmente, perché deputati e senatori sono in minoranza e raramente partecipano alle riunioni.

Al provinciale milanese, ad esempio, dei circa 150 esponenti territoriali almeno ottanta hanno firmato la petizione e i parlamentari che potrebbero votare contro sono meno di quaranta. Dalla Lombardia l’iniziativa si è già diffusa in Liguria ed Emilia Romagna. In Toscana le primarie per i parlamentari sono già previste nello statuto regionale del partito, che però la direzione nazionale non ha mai approvato, mentre in Friuli Venezia Giulia un ordine del giorno impegna i vertici del Pd locali a introdurre le primarie per i candidati di Montecitorio e Palazzo Madama entro i 15 giorni successivi dallo scioglimento delle Camere. Anche in Puglia il segretario regionale Sergio Blasi è pronto ad avviare il percorso.

Obiettivo condiviso è quello di non permettere più alla direzione nazionale di preparare le liste a tavolino e imporle. “Si sta diffondendo una coscienza critica nel partito stesso”, commenta Civati, tra i primi firmatari della petizione lombarda. “Tutti devono sottoporsi alle primarie. Quando lo proponemmo io e Renzi – ricorda – ci diedero degli stronzi, ora però si può realizzare e l’importante è questo: che si avvii il meccanismo, poi se il limite dei mandati viene fissato a due o tre non importa, ciò che conta è il principio”.

Principio che preoccupa non poco Roma. Tanto che lunedì scorso dagli uffici di Pierluigi Bersanisono partite due telefonate dirette a Maurizio Martina e Roberto Cornelli, rispettivamente segretario regionale e provinciale del Pd, per suggerire loro di non sostenere in alcun modo l’iniziativa. E così finora è stato. “Quando sarà il momento ne discuteremo”, ribatte Martina. Insistiamo: che ne pensa? “Sicuramente bisognerà individuare un meccanismo che garantisca una larga partecipazione alla costruzione delle liste, ma non adesso”. Cornelli, invece, pubblicamente ha parlato di una “idea legittima” ma ieri durante l’assemblea provinciale ha distrutto l’iniziativa. “È uno strumento populista e non ci perdo neanche dieci secondi”. A chi gli ha ricordato che da solo non decide niente, è sbottato: “Le liste le stabilisce il partito nazionale e a Milano non possiamo andare contro il partito nazionale”. Esattamente l’opposto di quello previsto nella petizione: avanti a prescindere. Cornelli ha ripiegato proponendo di “attivare una commissione che elabori una proposta da inviare a Roma”. Ma non basta e non basterà.

Martina e Cornelli sono considerati responsabili, con altri dirigenti locali, della sconfitta di Stefano Boeri alle primarie di coalizione per il candidato sindaco di Milano vinte da Giuliano Pisapia. E che le loro dimissioni siano state respinte ha ulteriormente inasprito gli animi. “Siamo ancora lì a elaborare il lutto”, dichiara uno dei giovani emergenti cittadini del Pd, Pietro Bussolati. “Serve vitalità, dobbiamo svegliare il partito e tutti noi ci aspettiamo che i leader prendano decisioni nette e precise a prescindere da Roma” perché “Milano deve uscire dall’angolo e serve coraggio”. Da qui “deve partire il segnale di rinnovamento per tutta Italia e per il Pd”, aggiunge Civati. Fiduciosa che il progetto si realizzi Debora Serracchiani. L’eurodeputata è anche segretario regionale del partito in Friuli Venezia Giulia. “Nel Pd ci sono più forze fresche di quel che si vede in Tv o si legge sui giornali”, dice. “È per questo che, anche se ora sembra dura, io ho fiducia. Da noi si discute e si litiga ma, a parte qualcuno che ha sbagliato strada dall’inizio, il Partito democratico non è in discussione, anzi è ben vivo”.

In discussione semmai sono gli attuali vertici. Che potrebbero essere azzerati. Se venisse introdotto il limite dei due mandati, pochi degli attuali parlamentari potrebbero candidarsi. Nella sola Lombardia ben 25 rimarrebbero esclusi. Barbara Pollastrini, Gerardo D’Ambrosio, Roberto Zaccaria, Enrico Letta, tra gli altri. “La rottamazione ha inizio e a volerla è la base”, Civati docet.


sabato 4 dicembre 2010

Un Articolo21-bis per Internet. - di Stefano Rodotà.




Perché proporre una modifica della Costituzione che sancisca il diritto di accedere a Internet? E’ davvero necessario muoversi in questa direzione? E’ una astuta operazione di marketing sollecitata da Wired? E’ una mossa inutile, poiché già le norme costituzionali vigenti comprendono questa ipotesi, come fa l’art. 21 parlando del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione? E’ una mossa inutile, perché già l’art. 53 del Codice delle comunicazioni elettroniche comprende il servizio universale? E’ una proposta riduttiva, considerando solo il digital divide? E’ una iniziativa pericolosa, perché mette le mani proprio su quella prima parte della Costituzione che si vuole difendere da ogni attacco?

Domande tutte legittime, e che aiutano a chiarire meglio il senso dell’iniziativa. Ricordo anzitutto che il tema è ormai al centro di una attenzione davvero planetaria. Diversi paesi hanno già dato riconosciuto il diritto di accedere a Internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti - costituzioni (Estonia, Grecia, Ecuador), decisioni di organi costituzionali (Conseil Constitutionnel, Francia), legislazione ordinaria (Finlandia) -; il piano Obama contiene una significativa reinterpretazione del servizio universale; l’Unione europea e il Consiglio d’Europa si sono già espressi in questo senso; proprio in questo momento se ne discute intensamente in rete. Si potrebbe continuare, ma queste citazioni bastano per smentire la tesi che l’iniziativa italiana sia solo una operazione di facciata o di marketing. E’, invece, la via per connettere la discussione italiana con quella globale.
Il fatto, poi, che in Italia si possa già fare riferimento a norme costituzionali o ordinarie non è considerazione di per sè risolutiva. Al contrario, abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a continue incursioni che considerano Internet come un territorio dove si possano mettere impunemente le mani, nella sostanza negando proprio che si tratti di materia già accompagnata da una adeguata copertura costituzionale. Se la proposta di un articolo aggiuntivo spingerà ad una reinterpretazione dell’art. 21 e ad una estensione della garanzia costituzionale, non sarà un risultato da poco.
Toccare la Costituzione? Bisogna intendersi. Quando si è modificato l’art. 51, per promuovere le pari opportunità tra donne e uomini, nessuno ha manifestato preoccupazioni, perché in questo modo si sviluppava la logica propria della prima parte della Costituzione. Esattamente il contrario delle pericolose iniziative che vorrebbero cancellare il riferimento al lavoro dall’art. 1, liberare il mercato dall’obbligo di rispettare sicurezza, libertà, dignità, e simili regressioni culturali e civili. La proposta di un art. 21-bis, invece, va proprio nella direzione di ribadire e espandere i principi costituzionali riguardanti l’eguaglianza e la libera costruzione della personalità. Non a caso alcune espressioni vengono dritte dall’art. 3.
Non solo una proposta sul digital divide, dunque. Anzi, l’apertura verso un diritto ad Internet rafforza indirettamente, ma in modo evidente, il principio di neutralità della rete e la considerazione della conoscenza in rete come bene comune, al quale deve essere garantito l’accesso. Per questo è necessario affermare una responsabilità pubblica nel garantire quella che deve ormai essere considerata una precondizione della cittadinanza, dunque della stessa democrazia. E, in questo modo, si fa emergere anche l’inammissibilità di iniziative censorie.
Proprio per indirizzare la discussione pubblica in questa direzione è necessario mettere sul tavolo carte adeguate. Solo se cresce la consapevolezza che siamo di fronte ad un diritto fondamentale della persona è possibile contrastare le logiche securitarie e mercantili che restringono il diritto a Internet. I decreti Pisanu e Romani, la pretesa dell’Agicom di regolare in via amministrativa e restrittiva l’essenziale questione del diritto d’autore hanno a loro fondamento una cultura che ritiene che le materie legate a Internet non siano accompagnate da garanzie adeguate, smentendo così nei fatti la tesi che le norme già esistenti offrano tutte le necessarie tutele. Un dialogo tra le norme esistenti e una loro formale estensione al mondo della rete farebbe avanzare nel suo insieme tutto il fronte dei diritti.
Quel che serve, allora, è una modifica dell’agenda politica in questa fondamentale materia. La proposta di una innovazione costituzionale va in questa direzione. E non costituisce una rinuncia alla più generale prospettiva di un Internet Bill of Rights, di una Costituzione per Internet. Chi ha seguito questa discussione, chi ha acquisito la consapevolezza che Internet promuove una logica costituzionale nuova, sa che si è entrati in una dimensione dove si intrecciano soggetti, livelli e tempi diversi. La garanzia dei diritti in rete non nasce né da un solo luogo, né da una sola iniziativa. E’, e soprattutto sarà, l’esito di un processo continuo, forse ininterrotto, alimentato da molteplici attori, con modalità diverse anche se convergenti verso lo stesso obiettivo. Un modo per essere coerenti con la natura della rete, e esaltarne la ricchezza.

"Condividiamo la riflessione e l'iniziativa di Stefano Rodotà ed è per questo che a partire dalla giornata di oggi cominceremo una raccolta di firme sul nostro giornale on line a sostegno della proposta di integrazione dell'articolo 21 della Costituzione perchè siamo convinti che in un Paese tra l'altro inquinato dal conflitto di interesse la libertà della rete, alla pari di quella degli altri media deve essere un principio garantito costituzionalmente". Lo affermano Stefano Corradino e Giuseppe Giulietti, direttore e portavoce di Articolo21.

La libertà di stampa dopo wikileaks - di Stefano Corradino*

http://www.articolo21.org/2183/notizia/un-articolo21bis-per-internet-.html


Governo, Verdini: “Delle prerogative del Capo dello Stato ce ne freghiamo”


Bocchino: "Confermato disprezzo del Pdl di ogni regola". Poi il coordinatore smentisce: "Intendevo politicamente, non volevo mancare di rispetto"

L’ex repubblicano Denis Verdini per rispondere al Capo dello Stato rispolvera il fascistissimo motto “Me ne frego”. Il coordinatore del Pdl, infatti, ha così ribattuto a Giorgio Napolitano che, dopo una giornata trascorsa ad assistere dal Colle a un botta e riposta a distanza tra Fini e Berlusconi sugli scenari del dopo 14 dicembre, si è visto costretto a intervenire: “La polemica non oscuri le prerogative del capo dello Stato”. E Verdini ha commentato: “Noi sappiamo che le ha ma ce ne freghiamo”. Mai prima d’ora la maggioranza aveva ribattutto con toni così duri al Quirinale. La settimana di sospensione dei lavori del Parlamento si annuncia carica di nervosismo e scontri frontali. Contro tutto e tutti, Napolitano compreso.

Verdini dunque ha solo aperto le danze. Dal palco di un comizio a favore del Governo a Prato è sbottato, fra gli applausi dei presenti: “Noi sappiamo che in caso di caduta del Governo il Capo dello Stato ha le sue prerogative”, ha detto. “Lo sappiamo benissimo che funziona così. Ciò che non sappiamo e non vogliamo capire, e che non ci piace per niente, è che il Capo dello Stato, nelle sue prerogative, possa pensare che per risolvere i problemi di questo Paese si mandi a casa chi ha vinto le elezioni, Berlusconi e Bossi, e si mandi al governo chi le ha perse, Casini e Bersani. E su questo si innesca una polemica perché noi andiamo a toccare le prerogative del capo dello Stato. Noi sappiamo che le ha ma ce ne freghiamo, cioè politicamente riteniamo che non possa accadere questo. Anche i partiti hanno le loro prerogative. Ricordate che dal 1994 da quando c’è questo sistema, nessun Capo dello Stato si è mai sognato di affidare il Governo a qualcuno di diverso da chi aveva vinto le elezioni, fosse questi Prodi o Berlusconi. L’incarico lo ha dato a chi le elezioni le ha vinte. Voglio vedere: come fa se cade il Governo a dare l’incarico a chi le elezioni le ha perse?”.

Napolitano si era visto costretto ad intervenire a seguito di alcune dichiarazioni di Gianfranco Fini. Il presidente della Camera, nel pomeriggio, ribattendo a Berlusconi che aveva detto che il terzo Polo non esiste, ha sottolineato che “governare non vuol dire comandare”, concludendo con una frase sibillina: “Il Capo dello Stato sa cosa fare”. Napolitano si è limitato a ricordare il rispetto per le prerogative che la Costituzione attribuisce al Colle, quindi rivolgendosi al leader di Fli più che al Governo. Ma Verdini è partito all’attacco. “Noi ce ne freghiamo”.

Immediate le reazioni. Per Italo Bocchino, capogruppo alla Camera di Fli, “la dichiarazione di Verdini conferma l’assoluto disprezzo del Pdl per ogni regola, ed è ancor più grave perchè è relativa alle prerogative che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato”. Aggiunge Silvano Moffa di Fli: “In un momento così delicato della vita politica del Paese, è assurdo che esponenti politici perdano il senso delle istituzioni dimenticando il ruolo fondamentale rappresentato dal Capo dello Stato, il quale non può essere esposto a offese gratuite, nè condizionato da interessi di parte”. Per Leoluca Orlando, portavoce dell’Italia dei Valori, “da Verdini arriva uno schiaffo alla Carta e un vocabolario nonché un atteggiamento di stampo fascista. Verdini – aggiunge – è l’emblema di questa classe politica arrogante e indegna: se ne vadano tutti a casa”.

Dal Partito Democratico arriva la nota del segretario, Pierluigi Bersani. “Le parole di Verdini sono vergognose e di una gravità inaudita. La smentita è peggio delle affermazioni precedenti. La squadra di Berlusconi sta perdendo la testa. L’Italia deve uscire al più presto da questa situazione”. Ed Enrico Letta ha aggiunto: “Il Pdl smentisca senza se e senza ma le parole di Verdini, che costituiscono una grave rottura dell’equilibrio istituzionale in un momento così delicato, e tenga presente che la situazione è ancora nei binari istituzionali solo grazie all’azione del presidente Napolitano. E che questa azione, sempre svolta nell’interesse del Paese, sarà determinante per la gestione della crisi che la testardaggine di Berlusconi renderà inevitabile dopo il 14 dicembre”. E la smentita è arrivata direttamente da Verdini.

La nota arriva dopo le 22. “Poiché assistiamo al solito gioco di strumentalizzare e sintetizzare fino all’estremo parole pronunciate all’interno di un lungo e articolato discorso, estrapolandone solo alcune fino al punto da distorcerne il senso, intendo chiarire quanto segue a beneficio dei giornalisti e di chi, come il solerte Bocchino, ha già cominciato a stracciarsi le vesti: non ho mai né pensato, né a maggior ragione detto che noi ce ne freghiamo delle prerogative del capo dello Stato”, scrive Denis Verdini. “Ho spiegato che ce ne ‘freghiamo politicamentè, nel senso che se la Costituzione riconosce al Presidente della Repubblica il diritto di seguire il percorso che ritiene più giusto, altrettanto la Carta suprema riconosce ai partiti, che nello specifico hanno il diritto di chiedere, anche a gran voce, di non escludere da un eventuale governo chi ha stravinto le elezioni. Ciò ho detto e ribadisco – conclude – senza mai aver avuto l’intenzione di mancare di rispetto al capo dello Stato nè di disconoscerne le sue prerogative”.