Gli elettori hanno dato fiducia alla speranza e al cambiamento. Hanno detto chiaramente che non ne possono più del mondo alla rovescia propagandato dal premier e dai suoi media: un mondo che bolla come pazzo che tenta di far rispettare la legge e indica invece come esempio chi è amico della mafia, un mondo che premia i furbi e penalizza gli onesti, un mondo che ritiene giusto privilegiare il censo al posto del merito. Un mondo che fino a ieri – allargando le braccia compiaciuto – ha continuato a ripetere: che ci volete fare, gli italiani sono fatti così.
No, gli italiani non sono fatti così. Sono meglio. E oggi lo hanno dimostrato.
Da domani, però, è tutta un’altra storia. Chiusi i festeggiamenti, archiviata la sbornia elettorale, si ricomincia. La strada per il Paese resta in salita. Anzi è più in salita di prima. Silvio Berlusconi non ha nessuna intenzione di lasciare Palazzo Chigi. Il Pdl, è vero, è percorso da fibrillazioni di ogni tipo. La voglia di un gran consiglio che esautori l’anziano padre padrone degli azzurri cresce pure da quelle parti. Ma la prospettiva di far fuori (politicamente) il premier, per poi dover lasciare con lui le stanze dei bottoni, paralizza il centro-destra. Anche per questo i referendum di giugno sono importanti: se otterranno il quorum diventeranno una vera e propria lettera di sfratto per il Cavaliere. Saranno il segnale di come oltre quella soglia di sfiducia non si possa davvero più andare.
Una cosa però e bene affermarla con franchezza: chiudere l’era Berlusconi non basterà per fare dell’Italia una democrazia normale. Anche senza il sempre più vecchio multimiliardario brianzolo (acquisito) il nostro paese resterà in preda alle Caste, ai conflitti d’interesse e alla partitocrazia. Pensate, se oggi si votasse per le politiche, sarebbero di nuovo le segreterie dei partiti a nominare onorevoli e senatori. A Montecitorio e a Palazzo Madama ci ritroveremmo insomma la stessa pletora di gente, spesso senza arte né parte, che negli ultimi 15 anni ha felicemente contribuito al declino del Belpaese.
Per questo, se è pure giusto dare atto al Pd di aver introdotto in Italia l’istituto delle primarie, bisogna ricordare quale è il secondo dato suggerito dalle amministrative (almeno nelle piazze principali). A Milano come a Napoli hanno avuto successo due candidati che non uscivano dagli apparati dei partiti. Uno dei due, De Magistris, il più votato, ha anzi corso esplicitamente contro i partiti. Ha rifiutato gli apparentamenti. E ha stravinto.
Quella di De Magistris è una lezione che, a destra come a sinistra, merita di essere ricordata. Perché la pazienza degli elettori è tanta. Ma non è eterna. E se i partiti e i vecchi leader non cambiano, i cittadini se ne trovano di nuovi. Da soli.
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