Siamo passati molto velocemente, negli ultimi decenni, da una situazione nella quale lo stato di salute del singolo era una faccenda puramente privata, o al massimo familiare, alla consapevolezza che, invece, la salute individuale è una faccenda sociale.
Questi mesi di pandemia sono, per tanti versi, mesi di rivelazione. L'unicità e la tragicità dell'esperienza che, insieme, stiamo vivendo, produce come un affinamento dei sensi che ci aiuta a cogliere aspetti fondamentali della nostra vita che, nella normalità dei tempi, passavano, nel migliore dei casi, inosservati.
Uno di questi aspetti riguarda certamente la presa di coscienza del fatto che la salute, quella di ciascuno di noi, non possa essere pensata come un bene privato, come una faccenda individuale, ma abbia, piuttosto, tutte le caratteristiche di un bene comune, di un bene comune globale. Gli economisti tendono a classificare i beni sulla base dell'intensità con cui posseggono due caratteristiche: l'”escludibilità” e la “rivalità”. I beni altamente escludibili sono quelli dal cui godimento è relativamente semplice ed agevole escludere gli altri. Se mi compro una pizza, posso facilmente e legittimamente impedire a qualcun altro di mangiarsela; al contrario, se illumino la strada di fronte a casa mia, non posso facilmente impedire al mio vicino di godere della stessa illuminazione.
La seconda dimensione è quella della “rivalità”. I beni rivali sono, tipicamente, quelli che si consumano con l'uso. La pizza, una volta mangiata, non può nuovamente essere mangiata né da me, né da nessun altro. Al contrario, il fatto che il mio vicino goda dell'illuminazione notturna, non impedisce a me di fare lo stesso. L'illuminazione non è rivale.
L'elevata escludibilità e la rivalità sono le caratteristiche definitorie dei beni privati. Al polo opposto stanno quei beni che sono, invece, non-escludibili e non-rivali. Questi sono i cosiddetti beni pubblici. Un parco cittadino, per esempio; in tempi normali non si può legittimamente impedire a qualcuno di fare una passeggiata in quel parco o di goderne della vista rilassante e, allo stesso tempo, il fatto che qualcuno usufruisca di quel bene, non impedisce ad altri di fare lo stesso.
Il bene pubblico non si consuma, non è rivale. Sono beni simili, in tempi normali, la scuola, l'amministrazione della giustizia, la sanità, la libera stampa, la qualità del dibattito pubblico, solo per fare qualche esempio. A metà tra i beni pubblici e quelli privati, troviamo i beni comuni, quei beni, cioè, che sono, non-escludibili, ma rivali. Beni dal cui godimento non è possibile escludere nessuno, ma che, allo stesso tempo, con l'uso, si consumano. Questi beni sono particolarmente importanti, non solo perché la qualità della nostra vita dipende in maniera crescente dai beni comuni – un esempio per tutti, la qualità ambientale - ma anche perché questi sono particolarmente fragili.
Nel 1968 Garrett Hardin pubblicò su “Science” un articolo significativamente intitolato “The Tragedy of the Commons” (La tragedia dei beni comuni) nel quale metteva in luce un paradosso che emerge nella gestione di questi beni. Hardin utilizza l'esempio di un terreno comune dove un gruppo di allevatori possono portare il bestiame al pascolo. Ogni allevatore avrà interesse a far pascolare, ogni giorno, il maggior numero di capi di bestiame in modo da ricavarne il massimo beneficio per sé, tenendo conto del fatto che i costi associati a questo comportamento (il consumo del pascolo) verranno, per così dire, socializzati, cioè divisi tra tutti gli altri allevatori. Abbiamo, quindi, da un punto di vista individuale, alti benefici e bassi costi, il che indurrà ogni allevatore a sfruttare al massimo il pascolo. Questa scelta, benché ottimale da un punto di vista individuale, quando messa in atto da tutti gli altri allevatori (il bene è non-escludibile), determinerà un sovrasfruttamento del bene fino alla sua stessa distruzione. «L'essenza della tragedia – scrive Hardin nel giustificare il titolo del suo articolo – non è l'infelicità. Essa risiede, piuttosto, nella solennità dell'impietoso funzionamento delle cose (…) nell'inevitabilità del destino e nella futilità di ogni tentativo di sfuggirvi».
La radice del paradosso che emerge dalla logica dei beni comuni ha a che fare con il conflitto tra la razionalità autointeressata e l'irrazionalità dei suoi esiti: è proprio il perseguimento razionale dell'interesse individuale a produrre il risultato peggiore dal punto di vista sia collettivo che individuale. Il “self-interest” è “self-defeating”; l'auto-interesse, in quest'ambito, distrugge se stesso.
La prima implicazione di questo discorso riguarda il fatto che i beni comuni sono per loro natura fragili e che, quindi, vanno attivamente protetti e tutelati. Se non proteggiamo attivamente l'ambiente questo, naturalmente, verrà sovra-sfruttato e distrutto. Le risposte tradizionali a questo problema hanno, storicamente, puntato verso due direzioni opposte ma complementari: la privatizzazione e la statalizzazione. Le difficoltà nel preservare i beni comuni possono essere eliminate nel momento in cui la proprietà comune diventa proprietà privata o, all'opposto, pubblica. Nel primo caso interesse privato e interesse sociale si allineano, semplicemente perché la dimensione sociale viene eliminata; nel secondo caso, invece, l'interesse privato viene tutelato attraverso una limitazione della libertà individuale ad opera di un potere superiore, lo Stato appunto.
Nel contesto della società globalizzata nella quale oggi viviamo, le soluzioni tradizionali mostrano i loro limiti perché si sta trasformando la natura stessa dei beni comuni, i più importanti dei quali hanno assunto una dimensione globale.
Nel contesto della società globalizzata nella quale oggi viviamo, queste soluzioni tradizionali, mostrano, però, i loro limiti, in particolare, perché si sta trasformando la natura stessa dei beni comuni, i più importanti dei quali hanno assunto una dimensione globale. I global commons, i beni comuni globali, sono quei beni comuni il cui effetto si dispiega oltre i limiti dei confini nazionali. Proviamo a pensare all'acqua del fiume Nilo. Dalla sua disponibilità e qualità dipende la vita di milioni di persone in tutti gli otto stati che il fiume attraversa. Ognuno di questi paesi ha un incentivo, nello spirito tragico evidenziato da Hardin, a sovra-sfruttare quella risorsa per ottenere maggiori benefici a danno degli altri e nessuna di queste spinte appropriative potrà mai essere limitata e regolamentata dall'intervento di una singola legislazione nazionale. Dal Nilo all'atmosfera, alle grandi foreste, agli oceani, nessuno di questi global commons potrà, quindi, essere tutelato adeguatamente usando gli strumenti del mercato o quelli delle autorità nazionali.
Siamo passati molto velocemente, negli ultimi decenni, da una situazione nella quale lo stato di salute del singolo era una faccenda puramente privata, o al massimo familiare, alla consapevolezza che, invece, la salute individuale è una faccenda sociale. Se mio figlio è immunodepresso e va a scuola con un compagno non vaccinato, vuol dire che i genitori si stanno comportando come gli allevatori egoisti di Hardin, stanno cercando di ottenere i massimi benefici individuali facendo ricadere i costi su tutti gli altri, senza rendersi conto, però, che tra “gli altri” ci sono anche loro. Da qui la necessità di un intervento legislativo a tutela della salute pubblica.
Oggi l'epidemia ci fa compiere un ulteriore passo, mostrandoci come la salute abbia, in realtà, tutte le caratteristiche di un bene comune e di un bene comune globale.
Oggi l'epidemia ci fa compiere un ulteriore passo, mostrandoci come la salute abbia, in realtà, tutte le caratteristiche di un bene comune e di un bene comune globale. Una questione tutt'altro che privata, dunque. Non basta cioè tutelare la salute dei cittadini all'interno dei confini nazionali, perché, con il livello di permeabilità delle nostre frontiere ai sacrosanti movimenti di persone, o siamo tutti al sicuro o nessuno è al sicuro. Lo diceva Papa Francesco qualche giorno fa: “Nessuno si salva da solo”. Lo ha scritto Garrett Hardin qualche decennio prima a proposito della sua etica della scialuppa di salvataggio (lifeboat ethics). E allora va benissimo se le misure di distanziamento sociale in Italia hanno appiattito la curva dei contagi al punto da non superare la soglia critica della disponibilità dei letti in terapia intensiva.
Ma questa soglia, in Italia, è pari a 12.5 letti ogni 100.000 abitanti, in Inghilterra a 6.6, ma nelle Filippine è 2.2, e in Bangladesh 0.7 letti ogni 100.000 abitanti. L'accesso alle strutture sanitarie, così come alle terapie farmacologiche e, in un futuro che speriamo non troppo remoto, al vaccino, non è garantito a tutti nello stesso modo. Il virus non è affatto democratico, così come qualcuno ancora si ostina a scrivere. I costi della pandemia non sono distribuiti in maniera equa e gli impatti futuri saranno più forti per i più fragili e vulnerabili, siano essi individui o paesi. Ma qui sta il punto vero della questione. Quei paesi che avranno subito un impatto più ridotto, che avranno potuto garantire ai propri cittadini livelli di protezione maggiore, che potranno ripartire prima, continueranno, comunque, ad essere esposti al rischio di un contagio di ritorno e all'apparire di nuovi focolai in misura proporzionale alla protezione ottenuta, non tanto e non solo dai loro cittadini, ma dai cittadini dei paesi meno protetti. Come la forza complessiva di una catena è determinata dalla forza del suo anello più debole, così anche l'efficacia del sistema di protezione sanitario mondiale è definito dalla qualità della protezione garantita ai più deboli. L'utopia di vivere in un mondo globalizzato, ma chiusi dentro confini nazionali, si scontra con la realtà tragica dei fatti e non basteranno le mascherine a mascherare quei volti che da troppo tempo non vogliamo guardare. Così come l'”alluvione razzista” che devastò New Orleans a seguito dell'uragano Katrina, innescò, nel 2005, una catarsi sociale che portò allo sviluppo del movimento mondiale per la “global climate justice”, forse anche da questa pandemia potrà scaturire del bene come effetto collaterale del male.
Il virus non è affatto democratico, così come qualcuno ancora si ostina a scrivere. I costi della pandemia non sono distribuiti in maniera equa e gli impatti futuri saranno più forti per i più fragili e vulnerabili, siano essi individui o paesi.
Lo shock antropologico che stiamo sperimentando lascerà segni indelebili nelle nostre coscienze e nella nostra memoria che cambieranno radicalmente il modo in cui penseremo il futuro. Potrà forse essere un'occasione, un esempio di quel “catastrofismo empancipatorio”, per usare l'efficace espressione di Ulrich Beck, grazie alla quale, forse, ripensare le condizioni della nostra vita in comune, del nostro agire sociale, all'interno di un nuovo orizzonte di fraternità.
L'emergere di un nuovo orizzonte normativo e perfino istituzionale non è, certamente, un processo automatico, ma dev'essere sostenuto da un lavoro culturale e trasformativo nel quale il principio dimenticato della Rivoluzione Francese, potrà, forse, esercitare un'azione catalizzatrice. Ancora questa pandemia ci insegna che mentre una distribuzione dei beni, anche fortemente diseguale, è perfettamente compatibile con il nostro attuale sistema geopolitico ed economico, perché incentrata sulle unità politiche nazionali, la distribuzione dei mali, può essere colta solo con uno sguardo cosmopolita. E allora, con questo sguardo, il panorama che si contempla è davvero sconsolante. L'epidemia ci aiuta a ragionare oltre la prospettiva nazionale, perché è vero che ogni paese sta vivendo storie parzialmente differenti, ma tutte dentro la stessa vicenda globale, che ci accomuna e che ci fa cogliere, in maniera inedita, la dimensione della nostra interdipendenza. Il virus (ri)guarda tutti. In questa condizione di rischio e precarietà, allora diventa ancora più forte la convinzione espressa sempre da Ulrich Beck secondo cui viviamo una metamorfosi “che fino a ieri era impensabile e che oggi è diventata reale e possibile”.
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