mercoledì 19 agosto 2020

Il Parlamento sembra il Palio, ma quasi mai vince il cavallo migliore. - Daniele Luttazzi

File:Il Palio di Siena luglio 2008 4.jpg - Wikipedia

Il Palio di Siena 2020 non si correrà (FQ Magazine, 14 maggio 2020).
Il leghista Paolo Paternoster si toglie la mascherina. Il presidente Fico prova ripetutamente a convincerlo a rimettersela (“Non possiamo andare avanti così”), fino a sospendere la seduta per cinque minuti. Poi si riprende, con la Lega sempre nervosissima (FQ, 1 maggio 2020).
Il Parlamento è come un Palio di cui i presidenti delle due camere sono i mossieri, che giudicano la regolarità del dibattito in aula, richiamando e ammonendo i politici in caso di comportamento scorretto. In Parlamento, la politica si respira tutto l’anno, ma diventa una cosa che si può toccare con mano a ridosso della corsa elettorale, quando i candidati, nella speranza di mettersi in luce e di essere scelti, fanno la loro apparizione ufficiale in programmi tv dove i conduttori, come veterinari, li sottopongono a una visita accurata. I partiti impongono agli elettori il candidato che gli pare: a volte, la giustizia ne tiene in carcere qualcuno fino al giorno in cui, moralmente smacchiato e disinfettato, viene catapultato in Parlamento, cui apporta la legittima allegria che proviene da un acquisto così insperato.
Chiunque può essere candidato al Parlamento: nel giugno dell’83, per esempio, il Msi di Almirante mise in lista l’avvocato Manfredi Orbetello d’Aragona: era morto qualche settimana prima, ma portava migliaia di voti. Il Msi prese parte alla tribuna politica con la bandiera repubblichina abbrunata, su un cuscino i piedi del parlamentare deceduto, insieme con il fiore (un tulipano bianco) inviato dal partito nemico, il Pci di Berlinguer. Ho detto nemico, perché i partiti hanno rapporti di alleanza con altri partiti, ma soprattutto hanno un rapporto di fiera inimicizia con il loro nemico. Il fatto che non vinca il nemico è più importante della vittoria stessa, e contro il partito avversario si indirizzano canti dai versi a volte pesanti, che vengono pareggiati da quelli indirizzati in senso inverso. I capicorrente si incontrano in gran segreto per stipulare accordi con i quali cercano di danneggiare i nemici: ogni partito, anche se ha avuto in sorte dei brocchi, vuole vincere.
Questi accordi fanno parte del gioco bello che si chiama politica italiana, che, lo avete ormai capito, non è una corsa nella quale vince il migliore. Il giorno prima del silenzio elettorale, che proibisce la propaganda, i candidati cercano di apparire un’ultima volta da Vespa (“il cencio”, come lo chiamano affettuosamente in Rai): nello studio tv c’è un grande silenzio, perché i candidati, a quest’ora già abbondantemente trattati con sostanze stimolanti, non si innervosiscano. Una volta eletti, impareranno presto a conciliare ciò che avevano in programma con ciò che viene loro consigliato dall’opportunità, dalla convenienza e dall’inevitabile; e capiranno che, spesso, rimediare a grandi ingiustizie metterebbe in gioco interessi ai quali nessuno vuole rinunciare. Momenti che verranno rivissuti nei giorni a venire con racconti alla buvette, dove si ride ancora della volta che un giornalista cercò di attaccar bottone con Andreotti parlando della legge elettorale, e Andreotti lo tacitò dicendo: “Guardi, ho ottant’anni e non mi sono mai interessato di politica”. Il Parlamento, infatti, vive di tradizione orale: è una cosa politica fatta dai politici per i politici. I giornalisti possono interessarsene, ma in punta di piedi, senza disturbare. E così la cronaca politica diventa storia, diventa leggenda, diventa mito.

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