sabato 17 luglio 2021

Violenze al G8: con la “Cartabia” zero condanne. - Marco Grasso e Alessandro Mantovani

 

Il massacro della scuola Diaz, i depistaggi e i verbali falsi firmati da funzionari ai vertici della polizia italiana, secondo Amnesty International “la più grave violazione dei diritti umani in un Paese democratico avvenuta nel Dopoguerra”. Gli orrori della caserma di Bolzaneto, dove vennero portati i manifestanti arrestati illegalmente, torturati per giorni, umiliati, costretti a ripetere slogan fascisti e nazisti da uomini (e donne) delle forze dell’ordine. E ancora: ricordate Alessandro Perugini, l’esperto vicecapo della Digos in jeans e maglietta gialla che tira un calcio a un ragazzino allora minorenne, che poi compare insanguinato e con un occhio tumefatto? O l’ex questore di Genova, Francesco Colucci, processato per falsa testimonianza per aver tentato di proteggere gli imputati della Diaz e l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro? Tutti e due prescritti.

Nei giorni in cui si celebra il ventennale del G8 di Genova del 2001, la riforma della Giustizia del ministro Marta Cartabia sta per approdare in Parlamento. La norma cancella la legge dell’ex guardasigilli M5S Alfonso Bonafede, che per i fatti successivi al gennaio 2020 sospende la prescrizione dopo la condanna in primo grado. E di fatto la reintroduce, chiamandola però “improcedibilità”: i processi si fermano se durano più di due anni in appello e uno in Cassazione. Che ne sarebbe stato dei processi per il G8? Nessuno, con quelle regole, sarebbe arrivato in fondo.

La “macelleria messicana”.

Il copyright è di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari finiti a processo. Coniò anche la grottesca definizione di “colluttazioni unilaterali”. In altre parole: le botte le avevano date solo i poliziotti a 93 persone indifese e inermi, arrestate per reati inventati. La ciliegina sulla torta furono due bottiglie Molotov, portate nella scuola proprio dai poliziotti (e incredibilmente sparite durante il processo: le custodiva la polizia). Sono state la chiave di un processo terribile, condotto da due pm, Enrico Zucca e Francesco Cardona, trattati con sufficienza da gran parte dei media e dalla politica, osteggiati dalla polizia (molti degli agenti picchiatori non sono mai stati identificati) e poco sostenuti anche dal capo della Procura.

Di tutte le accuse di lesioni personali rivolte a pubblici ufficiali per il G8 di Genova la prescrizione non ne ha lasciata in piedi neanche una. Si sono prescritte perfino le lesioni gravi contestate ai capisquadra del reparto ex Celere di Roma, gli uomini di Vincenzo Canterini e di Fournier. Prescritte le calunnie e gli arresti illegali. Furono condannati solo i responsabili del gigantesco depistaggio, cioè coloro che firmarono (o da capi ispirarono) i falsi verbali della Diaz. Non proprio tutti: il quindicesimo firmatario non fu mai identificato, nessuno ne fece il nome, un caso limite di ufficiale di polizia giudiziaria rimasto anonimo… Però il processo è finito con la condanna a quattro anni di un dirigente come Francesco Gratteri, che 20 anni fa guidava lo Sco – il Servizio centrale operativo, l’élite investigativa della polizia –, era stato promosso prefetto da imputato e studiava da capo della polizia. Tre anni e otto mesi al suo vice Gilberto Caldarozzi e a diversi dirigenti e funzionari delle Squadre mobili.

Cosa sarebbe accaduto con la riforma Cartabia? L’appello (2010) si è tenuto entro due anni dal primo grado (2008). Ma la durata del processo di Cassazione (arrivato nel 2012, dopo 1 anno e 11 mesi) avrebbe fatto saltare in aria ciò che ne rimaneva. Con la riforma di Bonafede, invece, le condanne di primo grado per lesioni sarebbero potute diventare definitive.

Le sevizie nella caserma.

I manifestanti arrestati alla scuola Diaz furono trasferiti alla caserma di Bolzaneto, l’altro grande black-out costituzionale di quei giorni. Persone sotto custodia dello Stato subirono abusi e vessazioni terrificanti: costretti a stare in piedi per ore, nella posizione del cigno o della ballerina, picchiati e umiliati, seviziati, costretti a ripetere slogan antisemiti o inneggianti alla dittatura di Pinochet, detenute denudate e oggetto di insulti a sfondo sessuale. Come nel caso Diaz il processo, condotto dai pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, scontava l’assenza, in Italia, di una legge sulla tortura. E come nel processo Diaz, la sentenza di primo grado (il 14 luglio 2008) fu complessivamente più favorevole agli imputati (agenti, funzionari e medici di polizia penitenziaria, più carabinieri e poliziotti): 16 condannati, 29 assolti; riconosciuti solo una trentina dei 120 capi di imputazione. In secondo grado la sentenza fu pronunciata il 5 marzo 2010 (meno di due anni dopo): quasi tutti colpevoli. Ma la maggior parte dei reati erano ormai prescritti. Particolare non trascurabile: chi viene condannato per reati prescritti è comunque responsabile in sede civile, infatti stanno versando i risarcimenti anticipati dai ministeri dell’Interno e della Giustizia. Con la riforma Cartabia, su questo punto, non si sa ancora: cosa accadrà alle vittime quando una condanna di primo grado finirà nella tagliola dell’improcedibilità?

Nel caso Bolzaneto, però, nemmeno la legge Bonafede avrebbe evitato le prescrizioni: la stesura finale non sospende la prescrizione in caso di assoluzione in primo grado. Se invece fosse stata in vigore la riforma Cartabia, il processo sarebbe stato dichiarato improcedibile in Cassazione, con l’azzeramento anche delle sette condanne rimaste in piedi. La più alta al poliziotto Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), responsabile della divaricazione fino all’osso della mano di un giovane manifestante. Nessuna prescrizione, invece, per le accuse di devastazione e saccheggio che hanno portato a condanne fino a 15 anni per una decina di manifestanti.

La ferita alla democrazia italiana, invece, è stata certificata da due condanne della Corte europea per i diritti umani: era stata tortura, sia a Bolzaneto che alla Diaz. E così, solo nel 2017, l’Italia si è dotata di una legge in materia, per quanto discutibile nel merito. Mancano tuttora, però, le norme necessarie ad allontanare i responsabili dai corpi di appartenenza e a rendere riconoscibili gli agenti attraverso codici alfanumerici, come reclama la stessa Corte europea. Per i giudici di Strasburgo non c’è dubbio: la tortura non deve andare in prescrizione, è un reato troppo grave che giustifica anche lunghi processi. L’Italia per ora ha fatto solo il minimo.

ILFQ

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