martedì 17 gennaio 2023

Covi, pizzini e coperture: la vita “al buio” di Matteo Messina Denaro. - Giovanni BIanconi

 


Cercato anche all’estero,  era nascosto nella sua Sicilia. Con i gli affari illeciti avrebbe accumulato un tesoro di 4 miliardi di euro.

Trent’anni di latitanza sono un segno di potere e di esercizio del potere; una sfida nella quale Matteo Messina Denaro non è soltanto sfuggito alla cattura, ma ha continuato a guidare un pezzo importante di Cosa nostra contando sul prestigio derivante anche dall’essere l’ultimo latitante della mafia stragista che aveva messo in ginocchio lo Stato. All’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei «rampolli» di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del «capo dei capi», mentre era in corso l’attacco terroristico della mafia corleonese alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti. 

Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il «popolo di Cosa nostra» un legame col passato e con la storia. Al punto da essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza. Era il sospetto di un mafioso di medio calibro della provincia trapanese, che — intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante — diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…». 

Invece non si era ritirato, ed era ancora là. Ha continuato a gestire il potere e il patrimonio accumulato grazie agli affari: droga, estorsioni, riciclaggio, investimenti nell’eolico, nei supermercati, nel turismo e in altri settori. Un tesoro stimato da qualcuno in 4 miliardi di euro, sebbene avventurarsi in cifre e calcoli sia un esercizio rischioso. Una latitanza trascorsa in Sicilia e in altre parti d’Italia, forse con qualche puntata fuori dai confini.

 Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante nel 1998, per il quale Matteo ha continuato a far pubblicare l’annuale necrologio di ricordo insieme al resto della famiglia, firmato «i tuoi cari». In quella terra e in quel legame hanno germinato le radici mafiose di un boss che è sempre stato «nel cuore» di Totò Riina. 

Il legame stretto dei Messina Denaro con il «capo dei capi» corleonese lo confermò lo stesso Riina nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanti anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione. Guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina, che sui giornali ha letto degli investimenti nell’energia eolica ed è sbottato: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…».

  Fu quasi una scomunica nei confronti del figlioccio che dopo il ‘93 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo…. Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero». 

Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9.30 se la può venire a prendere») finché le indagini della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel «fermo posta».

Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando — anche a distanza — quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Di sicuro ha avuto dalla sua parte qualcuno che gli ha procurato i documenti semi-autentici (con la sua foto e il nome di un altro, ma il timbro regolare del Comune di Campobello) che aveva in tasca al momento dell’arresto.

Catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo si adeguò alla metamorfosi della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro. Sempre a proposito di affari e spartizioni.

I pizzini recapitati a mano sono sempre stati la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non lo avrebbe «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi. Un anno e mezzo fa quella donna l’ha reso nonno, ma il bambino non si chiama Matteo.

https://infosannio.com/2023/01/17/covi-pizzini-e-coperture-la-vita-al-buio-di-matteo-messina-denaro/

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