La vicenda giudiziaria del politico palermitano che oggi è tra i favoriti nella scalata al Colle. Coinvolto negli anni Novanta nell’inchiesta sulle mazzette ai leader siciliani di tutti i partiti, e tirato in ballo dalle dichiarazioni dell’imprenditore Filippo Salamone, il giudice della Corte Costituzionale è stato assolto ”perchè il fatto non sussiste”. L’avvocato Basilio Milio, difensore di Mori e Subranni, lo ha citato nel processo sulla trattativa Stato-mafia come teste della difesa. Se dovesse diventare il successore di Napolitano, sarebbe il secondo capo dello Stato a testimoniare in quel dibattimento.
Alla vigilia delle elezioni politiche del ’92, aveva ricevuto nella sua segreteria di via Libertà a Palermo una busta: il mittente era l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone titolare della Impresem, che qualche anno dopo si sarebbe beccato un condanna per concorso in mafia con l’accusa di essere l’erede di Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Dentro quella busta, c’era parte di un blocchetto di buoni-benzina per un valore complessivo di tre milioni di lire. L’incorruttibile Sergio Mattarella, all’epoca deputato e commissario della Dc siciliana, raccontò di averli accettati come un regalo, ‘’di modesto valore’’, inviatogli a titolo personale da un privato cittadino, e di averli distribuiti dopo le elezioni ai suoi collaboratori. Ma per questo contributo, il notabile siciliano che oggi è considerato uno dei favoriti nella corsa per il Quirinale, finì per un decennio nel tritacarne del processo sulla Tangentopoli siciliana che negli anni Novanta travolse i vertici di tutti i partiti: dai Dc Calogero Mannino, Rino Nicolosi, Angelo La Russa e Severino Citaristi, ai socialisti Nicola Capria e Nino Buttitta, al Pds Michelangelo Russo.
Scaturita dalle dichiarazioni di Salamone, l’inchiesta raccontò il sistema di spartizione delle tangenti (cifre tra i 150 e i 400 milioni) versate a deputati e segretari politici con l’obiettivo di orientare gli appalti e la spesa pubblica in Sicilia. Mattarella fu assolto dall’accusa di finanziamento illecito al suo partito ‘’perché il fatto non sussiste’’: l’ammontare dei tre milioni di lire non esponeva il parlamentare ad alcun obbligo di dichiarazione e i giudici non riuscirono a provare le accuse di Salamone, che sosteneva di avergli consegnato personalmente denaro per 50 milioni: 40 in contanti e 10 in buoni-benzina. Le parole dell’imprenditore, recita la sentenza di assoluzione, ‘’non hanno trovato alcun riscontro’’, non potendo ritenersi tale la copia della fattura da poco più di 197 milioni, rilasciata dalla Ip alla società di Salamone (poi scomparso nel 2012) di cui ‘’è del tutto incerta la destinazione’’. Sul punto, comunque, osserva il Tribunale, ‘’la pubblica accusa non ha svolto alcuno specifico accertamento al fine di verificare quali auto avessero usufruito dei buoni-benzina’’. Uno dei pm è Gaspare Sturzo, pronipote del fondatore del Partito Popolare, l’ispiratore di tutti i politici cresciuti all’ombra dello Scudocrociato.
Mattarella, insomma, la fa franca, e come lui gli altri imputati eccellenti, assolti in blocco dall’accusa di corruzione, tutti tranne l’ex assessore siciliano Turi Lombardo, condannato in primo grado a 4 anni, poi cancellati in appello. Un nulla di fatto, insomma. Ma il processo lascia comunque uno strascico di ‘’amarezza’’; dopo le accuse, Mattarella si dimette da commissario regionale Dc e dichiara: ‘’La mia famiglia mi fa notare di aver pagato prezzi troppo alti; ho preso decisioni spesso dure che mi hanno provocato avversione: qualche insidia era da mettere nel conto’’.
Un uomo senza macchia e senza paura: questa l’immagine che l’attuale giudice della Corte Costituzionale, fratello di Piersanti, il presidente della Regione assassinato a Palermo da Cosa nostra nell’80, ha sempre tenuto a presentare nell’agone politico, ma il suo nome torna a risuonare a sorpresa nell’appello del processo Andreotti, quando nel 2003 Pino Lipari, braccio destro del boss Provenzano, in aula racconta: ‘’Il contatto politico principale, quello più qualificato, si pensava fosse Salvo Lima, ma Cosa nostra attraverso i cugini Salvo aveva stabilito contatti anche con Mannino, con Nicolosi, attraverso l’imprenditore Salamone, con Ruffini, con Sergio Mattarella’’. E ancora: ‘’Non so se il padre di Mattarella avesse rapporti con Badalamenti, ma ritengo di si’’. Dichiarazioni senza seguito di un geometra che tenta di accreditarsi come pentito ma viene considerato un depistatore, che però fanno il paio con le parole che nel 2012 l’architetto Giuseppe Liga, condannato a 20 anni per associazione mafiosa e considerato l’erede del boss di San Lorenzo Salvatore Lo Piccolo, rilascia ad una rivista palermitana: ‘’Sono stato in contatto con Mattarella, il fratello Piersanti e Leoluca Orlando’’. Lui, Sergio, il diretto interessato, non ha mai replicato, preferendo la sobrietà del silenzio istituzionale. Dovrà intervenire, però, nel processo sulla trattativa Stato–mafia, dove il difensore degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, l’avvocato Basilio Milio, lo ha citato come teste: se dovesse essere eletto al Quirinale, sarebbe il secondo presidente in carica a dover testimoniare nel processo sul patto tra boss e istituzioni.