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venerdì 11 maggio 2018

Occupazione, «lavoro federale per tutti». La sinistra Usa riscopre Roosevelt. - Marco Valsania

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Gli Stati Uniti hanno un insolito problema occupazionale. Con il tasso dei senza lavoro ai minimi storici del 3,9%, alla ribalta sale oggi l’esercito di sotto-occupati e degli occupati marginali. Vale a dire, accanto ai 6,6 milioni di ufficialmente ancora senza busta paga, gli oltre dieci milioni di americani che sfuggono a restrittive statistiche ufficiali. 
Perché restano fuori dalla forza lavoro, incapaci di dimostrare d’aver cercato attivamente un impiego. Oppure perché fanno parte dei cosiddetti forzati del part-time, impiegati poche ore al giorno nonostante aspirino a mestieri a tempo pieno.

Il «lavoro federale» di Sanders.
È da questa realtà meno rosea dietro agli exploit del mercato del lavoro che trova slancio una nuova proposta di legge formulata dai leader della sinistra del Partito Democratico, anzitutto l’ex e forse futuro candidato alle primarie presidenziali Bernie Sanders. Una proposta che prescrive non il reddito di cittadinanza, piuttosto un lavoro federale a tutti coloro che lo desiderano e ne abbiano bisogno, retribuito 15 dollari l’ora più benefit (calcolati in altri tre dollari). Qualche centro di ricerca ne ha già stimato il costo totale: 450 miliardi di dollari l’anno, meno del budget del Pentagono e l’equivalete del 2,3% del Pil.
L’idea, ancora nel recente passato considerata improponibile, trova eco tanto da suscitare dibattito e l’interesse della bibbia del business americano, il Wall Street Journal. Gli stessi detrattori non la denunciano tanto come contraria ai valori dell’individualismo e al governo ridotto all’osso. Non inveiscono contro il costo per le casse pubbliche, in realtà inferiore ai 450 miliardi, forse la metà visto che, come sottolineano i fautori del programma, non tutti gli aventi diritto se ne avvarrebbero e che ridurrebbe automaticamente altri servizi di assistenza.

Un programma «deprimente».
I critici semmai mettono l’accento sull’effetto deprimente che potrebbe avere altrove sulla creazione di occupazione, cioè sulla marcia di investimenti privati e economia di mercato. Con il 39% dei lavoratori, 54 milioni, che guadagna proprio 15 o meno dollari l’ora, l’attrazione dei nuovi impieghi federali potrebbe farsi sentire e, se in alcuni casi spingesse semplicemente al rialzo i salari di tutti, altrove potrebbe cancellare parte degli impieghi meno pagati. Un esempio citato deriva da uno studio di Harvard del 2011: quando un parlamentare diventa presidente di una Commissione importante, nello Stato che l’ha eletto arrivano maggiori fondi federali e però quel medesimo Stato soffre poi di contrazioni negli investimenti e impieghi privati.

Quando lo disse Roosevelt.
L’idea d’un programma federale per prosciugare non tanto lo stagno della politica inviso a Donald Trump ma quello della disoccupazione e della sotto-occupazione, ha tuttavia precedenti illustri. Nel 1944 il presidente democratico icona nazionale Franklin Delano Roosevelt, nel Discorso sullo Stato dell’Unione, propose esattamente una legge per offrire garanzie di lavoro e reddito. Un «Second Bill of Rights», una Seconda Carta dei Diritti in aggiunta ai principi iscritti nella Costituzione. Che recitava, tra gli altri, i seguenti «diritti»: lavoro, salario adeguato e decenti condizioni di vita.

giovedì 11 gennaio 2018

I giovani? Pagati 6.500 euro in meno dei coetanei europei. - Alberto Magnani



L'attacco (con retromarcia) di Berlusconi al Jobs act ha fatto riemergere numeri e risultati della riforma voluta dal governo Renzi nel 2014. Tra i primi beneficiari della legge ci sarebbero dovuti essere i giovani, una delle categorie che ha sofferto e continua a soffrire di più sul mercato italiano. Come è andata dal 2015 ad oggi? Gli ultimi dati Istat hanno registrato una disoccupazione giovanile al 32,7%, dato che brilla rispetto ai picchi di oltre il 40% raggiunti dopo la crisi. Ma la statistica inquadra il fenomeno solo in parte. In primo luogo perché con «giovanile» si intende esclusivamente la fascia dai 15 ai 24 anni, in larga parte assorbita dagli studi secondari e universitari (dove è più raro dedicarsi a tempo pieno alla ricerca di lavoro, l’attività che qualifica appunto come disoccupati). In seconda battuta perché non contempla alcuni fattori integrati all'occupazione in sé, dalla tipologia di contratto alla retribuzione media.
Se si dà uno sguardo all'andamento delle assunzioni tra 2015 e 2017, secondo i dati stimati dall'Inps, emerge un quadro un po' più articolato. Le assunzioni dei giovani sono in crescita, ma con contratti a termine e retribuzioni basse sia rispetto agli altri blocchi anagrafici che alla media in Europa.
Crescono le assunzioni, cala la stabilità 
Per iniziare dai contratti, il triennio 2015-2017 rispecchia l'andamento complessivo del mercato: un calo delle assunzioni a tempo indeterminato che si bilancia alla crescita di quelle a termine, incoraggiate anche dall'obbligo di stabilizzare i vecchi rapporti di collaborazione (aboliti proprio dal Jobs Act). Il risultato è che, nell'arco di tre anni, si è passati dalle 397.878 nuove assunzioni a tempo indeterminato per 15-29enni nel periodo gennaio-ottobre 2015 alle 235.600 dello stesso periodo del 2017: 
144.278 rapporti permanenti in meno rispetto agli standard di tre anni prima, nonostante il viatico delle cosiddette tutele crescenti. Viceversa, i contratti a termine per under 29 sono lievitati nello stesso periodo dai circa 1,01 milioni del 2015 agli 1,5 milioni del 2017.
La prevalenza dei rapporti a termine non è di per sé patologica, e si allinea agli standard europei sui cosiddetti temporary contracts (contratti temporanei). Su scala continentale, secondo dati Eurostat, il 43,8% dei lavoratori dai 15 ai 24 viene assunto con contratti a breve termine, con picchi di oltre il 70% in paesi come la Slovenia e Spagna, del 66,3% in Portogallo e del 58,3% in Francia. Il problema è che nel resto d’Europa la percentuale scende al 13,1% quando si passa alla fascia 25-49 anni d’età. In Italia, sempre tra 2015 e 2017, i lavoratori nella fascia 25-29 anni hanno visto aumentare le assunzioni a termine da 501.386 a 690.718 (+189.332) e calare quelle a tempo indeterminato da 222.727 a 132.288 (-90.439).
Stipendi al palo: in Germania un giovane guadagna 11mila euro in più. 
L’instabilità si fa sentire anche in busta paga. Sulle circa 4 milioni di assunzioni a tempo attivate nel 2017, quelle che prevedono retribuzioni sotto ai 1.500 euro lordi sono oltre 1,4 milioni. Più di una su tre. Le retribuzioni dei giovani, però, sembrano anche più confinate in una sorta di limbo distante sia dalla media delle altre fasce anagrafiche sia, e soprattutto, rispetto alle attese dei coetanei assunti in Francia e Germania. JobPricing, una società, di ricerca, ha evidenziato che la Ral (retribuzione annua lorda) per il 2017 nella fascia 25-34 anni viaggia sui 25.632 euro lordi, contro i 29.238 euro lordi della platea complessiva di lavoratori dai 15 ai 55 anni. E il dato è anche generoso rispetto a quello rilevato dall’Istat per il blocco 16-29 anni nel 2015, anno di debutto del Jobs Act: 13.553 euro lordi, in discesa dai 13.667 euro del 2014.
Potrebbe essere ovvio che la retribuzione cresca con l’esperienza, permettendo a un over 50 di guadagnare di più di un 26enne ai primi contratti. Ma l’anomalia italiana sta nel fatto che la curva degli stipendi viaggia a un ritmo rallentato rispetto alla media Ue: nel resto del Continente le remunerazioni salgono già dai primi anni e raggiungono l’apice a 40, in Italia bisogna aspettare oltre ai 55 per avvicinarsi alle stesse condizioni.
Non a caso il paragone si fa più pesante su scala europea, termine di confronto naturale per neolaureati e professionisti disposti a trasferirsi (anche) a seconda delle retribuzioni. Secondo dati di Willis Tower Watson, una società di consulenza, un giovane assunto comeentry level (contratto di ingresso) dopo la laurea magistrale in Germania guadagna in media 37mila euro lordi all’anno: circa 11mila euro in più rispetto ai 25-34enni italiani fotografati da JobPricing. Se si allarga il confronto ad altri paesi Ue, la forbice si allarga a oltre 6.500 euro lordi: dai circa 25.600 euro lordi che si guadagnano in Italia ai 32.214 euro nella media dei laureati magistrali tra Francia Irlanda, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svezia .

sabato 28 novembre 2015

Lavoro, Poletti sogna il cottimo: “Penso a contratto non legato a ore ma ai risultati”.

Lavoro, Poletti sogna il cottimo: “Penso a contratto non legato a ore ma ai risultati”

Il ministro ha detto agli studenti della Luiss che "l’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione". Nuova picconata a quelli che secondo l'ex presidente Legacoop sono miti da sfatare. Giovedì aveva affermato che "la storia secondo cui c’è un posto dove si va a lavorare, la fabbrica, è finita".

“Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera. L’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione”. Dopo l’uscita sulla laurea (meglio finire l’università a 21 anni con 97 che tirarla in lungo per prendere 110 e lode) il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è tornato alla carica per demolire quello che, a sua detta, è un altro vecchio mito da sfatare. Quello, cioè, che il lavoratore debba essere pagato in maniera proporzionale all’impegno in termini di tempo, straordinari compresi. Un capitolo chiuso, secondo il ministro. Che sembra favorevole a rispolverare il cottimo, cioè appunto la remunerazione sulla base del risultato. “Si tratta di un tema di cultura su cui dovremo lavorare. E pongo a voi il tema, che siete dei ricercatori”, ha detto Poletti agli studenti della Luiss durante un convegno sul Jobs act.
Giovedì del resto il ministro aveva anticipato una parte del ragionamento sui cambiamenti del mercato del lavoro, affermando che “la storia secondo cui c’è un posto dove si va a lavorare, la fabbrica, è finita. Il lavoro non si fa in un posto: il lavoro è un’attività umana, si fa in mille posti“. L’idea di avere un luogo di lavoro, dunque, per Poletti è superata. Così come, emerge oggi, l’orario.
Nel frattempo l’ex presidente Legacoop ha puntualizzato il suo pensiero di giovedì spiegando in una nota: “Le mie valutazioni erano riferite alla esigenza generale che la società italiana tutta, non i giovani, si chieda se il nostro modo di pensare la relazione tra l’organizzazione sociale, il sistema formativo, il lavoro e l’impresa sia adeguato ai nostri tempi e se offra ai nostri giovani le migliori opportunità per costruirsi un buon futuro. In questo contesto ho riportato, probabilmente in modo troppo crudo, le osservazioni che mi fanno quotidianamente sia le persone che si occupano di ricercare e selezionare le persone per le imprese del nostro Paese, sia molti giovani che fanno esperienze internazionali, secondo cui in Italia si esce mediamente più tardi dal sistema formativo e questo rappresenta una limitazione delle opportunità per i giovani. Tutto qui. Mi piacerebbe che anziché schierarsi, come spesso accade nel nostro Paese, tra partigiani del pro e del contro, si provasse a sviluppare un confronto utile a fare insieme un passo in avanti in direzione della modernizzazione del Paese e nell’interesse dei nostri giovani”.

martedì 10 novembre 2015

Luciano Gallino, morto il sociologo che denunciò il neoliberismo e la crisi del lavoro. - Davide Turrini

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Il professore si è spento a Torino a 88 anni. Nella sua vasta produzione di libri e interventi, la critica serrata alla degenerazione dell'impresa e della finanza. E all'ideologia dominante di Thatcher e Reagan incarnata oggi dall'Unione europea. Dagli esordi all'Olivetti di Ivrea al recente tentativo di smuovere la sinistra con Alba.

“Quel che vorrei provare a raccontarvi, cari nipoti, è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione europea”. L’ultimo anelito di speranza di fronte all’invasione del pensiero neoliberista in Europa, Luciano Gallino, professore emerito di sociologia all’Università di Torino dal ’65 al 2002, morto a 88 anni nella sua casa nel capoluogo piemontese dopo una lunga malattia, lo aveva affidato alle pagine del suo “Il denaro, il debito e la doppia crisi”, appena uscito in libreria per Einaudi, rivolgendosi proprio alle generazioni che verranno.
Perché la funzione della trasmissione del sapere sociologico ed economico, fuori da ogni paludata e conformista materializzazione dello status quo, Gallino l’aveva messa al primo posto da tempo. Parlare, e scrivere, di temi complessi con chiarezza e senza finalità meramente partitiche, da casacche dell’uno o dell’altro “sinistrato” orticello politico italiano, era la stella polare del professore che in gioventù, da trentenne, quando ancora l’ateneo non aveva bussato per prospettargli una lunga e brillante carriera, aveva accettato di lavorare per Adriano Olivetti. A Ivrea nella fabbrica utopista dove l’ “ingegnere” tentò di unire in equilibrio solidarietà sociale e profitto, Gallino iniziò a collaborare all’Ufficio Studi Relazioni Sociali della Olivetti, unico esempio del genere all’interno di un’attività industriale di grandi proporzioni – e alcuni anni dopo dal ’60 al ’70 diventò direttore del Servizio di Ricerche sociologiche e di Studi sull’organizzazione, che faceva capo alla Direzione del Personale e dei Servizi sociali, di cui fu responsabile a lungo il poeta Paolo Volponi. Un reparto aziendale tutto teso alla difesa dei diritti dei lavoratori, che a proporlo oggi in una qualunque azienda del paese verrebbe segnalato come un covo di sovversivi.
Gallino sarà per due anni “fellow research scientist” a Stanford, in California, e infine ordinario di Sociologia nella Facoltà di scienze dalla formazione di Torino dal 1972. Il periodo in Olivetti, però, deve averlo segnato parecchio, tanto che poi nel 2014 con “L’impresa responsabile” (Einaudi) tornerà a sottolineare il valore di quell’esperimento democratico nel campo del lavoro, e farà il paio speculare, con l’altro suo libro “L’impresa irresponsabile” (Einaudi, 2005) dove il professore torinese sottolineò come fosse deleterio, per un’impresa, concentrarsi esclusivamente sulla creazione del plusvalore per gli azionisti, non tenendo nella dovuta considerazione la produzione di beni; e soprattutto come l’impresa dovesse avere, e avesse in qualche modo irrimediabilmente perduto, l’obbligo etico di rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, o all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività.
Difficile e allo stesso tempo affascinante mettere ordine sull’immenso corpus di saggi pubblicati con un certo successo commerciale da Luciano Gallino. Sostanzialmente negli anni ottanta è tra i primi ad affrontare l’arrembante arrivo della tecnologizzazione sui processi industriali nel mondo del lavoro e suoi effetti sociali, soprattutto in Italia; poi dai primi anni duemila inizia ad indagare la famigerata “flessibilità” fino a quando nel 2006 pubblicando “Italia in frantumi” (Laterza) oltre a farci aprire gli occhi con dati e fatti precisi dovuti alle conseguenze delle liberalizzazioni di mercato e di interi settori di servizi pubblici ci invita ad usare le parole adeguate per i fenomeni sociali: flessibilità, modernizzazione dell’industria e della scuola, riforma di tasse e pensioni, globalizzazione, non significano altro che “precarietà”.
Gallino non si sottrae allo scontro dialettico, riprende in mano parecchi filoni sociologici legati al marxismo e le opere in campo economico di Karl Marx rinvigorendo una controtesi antiliberista strutturata su due punti chiave: il concetto di “classe sociale” esiste ancora come del resto l’altrettanto abusato concetto di “lotta di classe”, che Gallino descrive quasi al contrario rispetto alla direzione tradizionale nell’esposizione marxiana; ma soprattutto l’Europa e l’Unione Europea sono diventate rispettivamente terreno di manovra e manovratore per l’applicazione delle dottrine neoliberiste thatcheriane e reaganiane che annientarono pace sociale, sviluppo economico delle classi medie e basse, diritti dei lavoratori conquistati dagli anni ’50 fino agli anni ‘80.
Ne “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (Laterza, 2012) Gallino scrive: “Oggi le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto”. E ancora: “Questa classe formata da imprenditori, manager, titolari di grandi patrimoni, banchieri, ancora vari decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale presentava dimensioni ridotte (..) Al presente questa classe ha acquisito ovunque un peso massiccio, sia come entità numerica che di capitale controllato (…) Nel sistema finanziario degli ultimi 40 anni si è affermata una forte novità: decine di trilioni di dollari, che per almeno l’80% rappresentano risparmi delle classi lavoratrici, vengono gestiti a loro totale discrezione dai dirigenti dei cosiddetti investitori istituzionali: fondi pensione, fondi comuni d’investimento, compagnie di assicurazione, enti affini. Sono quelli che ho chiamato “capitalisti per procura” che non possiedono a titolo personale grandissime ricchezze”.
Quando, infine, venne intervistato dal fattoquotidiano.it poco tempo fa spiegò nuovamente l’irresponsabilità etica soggiacente all’ideologia neoliberista che attraverso Bce e Fmi si è palesata con forza nel continente europeo a partire dagli anni ottanta: “Si è affermato il processo cosiddetto della “finanziarizzazione”, per cui interessi e paradigmi finanziari hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico. Il percorso di liberalizzazioni avviato in Usa da Reagan è avvenuto anche in Gran Bretagna con la Thatcher, e in Francia ad opera nientemeno che di un socialista come Mitterand. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema ‘ombra’ delle banche, non assoggettabile in pratica ad alcune forma di regolazione, oggi valga quanto il sistema bancario che lavora per così dire alla ‘luce del sole’. Sono stati compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente danneggiato l’economia reale. Qualunque dirigente o imprenditore di fronte alla possibilità di fare il 15% di utile speculando a livello finanziario o il 5% producendo beni reali, ha cominciato a scegliere la prima opzione senza stare più a pensarci troppo”.
Gallino nella stessa intervista non ebbe timore nel considerare la politica economica del governo Renzi diretta discendente del thatcherismo, come priva di differenza dai precedenti governi di Monti e dell’epoca berlusconiana. Nel 2012 per il professore torinese, assieme, tra gli altri, a Stefano RodotàPaul Ginsborg e Marco Revelli ci fu anche il tentativo di fondare Alba, “un soggetto politico nuovo che catalizzi un ampio spettro di energie politiche volte a superare il neoliberismo”, ma che non ebbe il successo sperato. Rimane allora la lucidità di pensiero e la capacità di analisi del reale con il baricentro della propria riflessione orientato verso i più deboli, con un coraggio di ribellione al pensiero dominante che di solito l’essere umano riserva più alla fase della giovane età che a quella degli ultrasessantenni. In questo cortocircuito anagrafico e politico Gallino è stato sicuramente tra gli esempi etici più limpido di tutta l’Europa contemporanea.

lunedì 16 giugno 2014

Crisi, l’addio all’Italia degli over 50: “Nel 2013 quasi 100 mila espatriati” - Francesco Maria Borrelli

Crisi, l’addio all’Italia degli over 50: “Nel 2013 quasi 100 mila espatriati”

Licenziamenti, pagamenti che non arrivano, impossibilità di ricollocarsi. Secondo il ministero dell’Interno, dal 2009 a fine 2013, gli italiani tra i 50 e i 59 anni che hanno cercato fortuna all'estero sono stati 362mila, con incrementi sostanziosi negli ultimi anni. Spesso lasciano a casa la famiglia e all'estero si adattano al precariato.
“Da quando è iniziata la crisi economica la mia agenzia immobiliare aveva perdite fino al novanta per cento del fatturato. Dal 2009 in poi le banche hanno chiuso i rubinetti e ai miei clienti non sono più stati concessi prestiti. Così ho deciso di lasciare l’Italia anche perché, un domani, non vorrò vedere le mie figlie laureate e a spasso perché non ci sono prospettive”.  A parlare è Armando Sacco, un agente immobiliare operativo da 22 anni su Roma che da qualche mese è a Toronto, dove è stato costretto ad andare per continuare a lavorare. E’ soltanto uno dei tantissimi cinquantenni che hanno dovuto lasciare l’Italia per emigrare all’estero con la loro valigia di speranze, sempre più pesante.
Secondo il “Rapporto italiani nel mondo 2013” dell’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero), il 25 per cento di chi emigra ha tra 35 e 49 anni, ed il 19,1 per cento ha un’età compresa tra i 50 e i 64 anni. In totale, va ricordato, gli italiani nel mondo (Aire 2014) sono quattro milioni e ottocentoventottomila, e da quando è iniziata la crisi economica internazionale (2009) la cifra è aumentata di oltre seicentomila persone; dal dato del 2013 a quello del 2014 c’è stato un incremento di centosettantamila unità.
Secondo il ministero dell’Interno, che può contare sulle informazioni in arrivo direttamente dagli uffici anagrafe dei Comuni italiani, dal 2009 a fine 2013 gli italiani cinquantenni andati all’estero (esattamente, i compresi tra i 50 e i 59 anni) sono 362mila, e ogni anno c’è stato un incremento compreso tra sessantamila e settantottomila persone, fino ad arrivare al 2013 quando gli espatri sono stati 94mila.
“Come molte persone della mia età che conosco, a 54 anni ho dovuto lasciare l’Italia, dove da 28 anni facevo un lavoro autonomo, per andare a Perth – spiega Paolo Bellachioma, autotrasportatore emigrato in Australia -. Negli ultimi due o tre anni capitava sempre più spesso che a fine mese non si incassasse, anche da aziende importanti. Quindi mi ritrovavo a dover pagare 10-12 mila euro di carburante e a non riuscire neanche a rientrare delle spese. Restando in Italia avrei rischiato di mangiarmi il lavoro di una vita. È stato così che ho deciso di partire per un Paese del quale non conosco neanche la lingua”.
Il trend per gli over 50 è confermato anche dalla Farnesina, poiché in media negli ultimi cinque anni si è registrato un aumento di oltre 100mila italiani l’anno che emigrano. Ma il dato è sottovalutato e incompleto, come spiega il dottor Giovanni De Vita, funzionario del ministero degli Esteri. “Queste sono le persone che si iscrivono all’Aire, ma in realtà a lasciare il nostro Paese sono molte di più e una stima completa è difficile da fare, sia perché a volte c’è un ritardo nella trasmissione dei dati, sia perché alcuni si fermano in un Paese per un periodo limitato e quindi non si iscrivono all’Aire. Sarebbe come voler essere sicuri del numero dei clandestini presenti in Italia, non si sa”.
Il problema è che manca il lavoro non solo per giovani, ma anche per i padri e le madri di famiglia. Secondo Andrea Malpassi, coordinatore Area estero dell’Inca Cgil Nazionale, “chi emigra oggi non è soltanto il giovane ma sempre più una persona adulta, intorno ai 50 anni e spesso con famiglia e figli, che ha perso il posto di lavoro in Italia ed è costretta cercarlo fuori dai confini nazionali. Si tratta di uomini e donne che partono senza conoscere la lingua, le leggi, gli usi e costumi, ma sono alla ricerca, talvolta disperata, di un impiego. Spesso, però, anche all’estero, devono accettare contratti atipici che in pratica li rendono precari, mi riferisco all’escamotage della partita iva o del lavoro fintamente autonomo ed ai contratti a progetto che in realtà sostituiscono il lavoro vero. Insomma, il precariato si sta diffondendo a macchia d’olio inEuropa e nel resto del mondo”.
“Sono sempre stato costretto a emigrare in cerca di lavoro, fin da giovane quando ero andato in Germania per trovare un’occupazione. Poi, messo via un gruzzoletto, sono ritornato in Italia, dove ho moglie e due figli, e con quei soldi ero riuscito a comprare casa – racconta Antonio Morelli -. L’anno scorso a 58 anni ho perso il posto di lavoro, trovarlo alla mia età è impossibile. Così da un paio di settimane sono ritornato in Germania dove almeno ho un lavoro per la stagione estiva. Tornare in Italia? Solo se avessi un lavoro che mi permettesse di arrivare alla pensione“.
Quarantenni e cinquantenni sono i più colpiti dalla crisi. “La ripresa dell’emigrazione ai nostri giorni è causata di sicuro dalla crisi economica ma soprattutto dalla crisi del sistema Italia”, osserva il professor Alfonso Gambacurta, docente di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma ed esperto di emigrazione italiana – Chi va all’estero è sia il giovane che rientra nella categoria della ‘emigrazione desiderata’ – cioè che vuole lasciare un Paese che lo ha deluso -, sia i quarantenni e cinquantenni, che partono per cercar lavoro e che sono i più colpiti dalla crisi. Questo è un tipo di emigrazione in particolar modo pesante. Perché partire a cinquant’anni comporta problemi e criticità molto più aspre rispetto a quelle che può incontrare un giovane”. Ritornando al dato complessivo dell’Aire, conclude Gambacurta, “se si considera anche l’emigrazione interna, credo che il valore vada raddoppiato”.