Torino. Le accuse del pm Pelosi ai 21 agenti penitenziari “Pestaggi” e lesioni documentate. Contestato ai vertici il favoreggiamento.
Le celle delle torture erano quattro, nella Decima sezione: qui, secondo l’accusa, gli agenti portavano i detenuti “che davano segno di scompensi psichici”. Poi c’era la stanza al piano terra dove all’improvviso il carcerato da punire, preso da tre o quattro poliziotti dalla propria cella, veniva colpito con calci e pugni. Di solito due picchiavano, gli altri due guardavano. Ma le violenze, all’interno del carcere delle Vallette di Torino, avvenivano anche nei luoghi teoricamente pensati per la cura della persona. Come, sostiene il pm, l’infermeria. È qui che due poliziotti, tre anni fa, portano un detenuto, e gli sputano addosso mentre gli dicono “Figlio di puttana, ti devi impiccare”. Poi lo colpiscono con pugni al volto. Il carcerato uscirà da quel calvario con “un ematoma al volto, epistassi dal naso e lesione al dente incisivo superiore che ne provocherà la caduta”. E gli aguzzini lo minacceranno: “Devi dire che è stato un altro detenuto a picchiarti, se no lo rifacciamo”.
È soltanto uno dei numerosi episodi di violenza che il pm Francesco Saverio Pelosi contesta a 21 poliziotti penitenziari del carcere Lorusso e Cutugno, 17 dei quali sono accusati del reato di tortura. L’avviso di chiusura delle indagini, iniziate due anni fa, è stato notificato ieri agli agenti e due giorni fa ai vertici del carcere, indagati invece per favoreggiamento: il direttore Domenico Minervini (che risponde anche di omessa denuncia) e il comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza. Secondo quanto accertato dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, che ha svolto le indagini coordinato dalla procura, Minervini e Alberotanza sarebbero stati consapevoli delle “crudeltà” che avvenivano dietro alle sbarre, ma avrebbero coperto i poliziotti, senza denunciare i fatti all’autorità giudiziaria. Le vittime delle sevizie sono almeno dieci: carcerati condannati per reati sessuali o pedofilia.
Agire con “crudeltà”, per il pm Pelosi, così scrive nella descrizione dei capi di imputazione, significa provocare “acute sofferenze fisiche e psichiche” ai detenuti ledendo la loro “dignità”. L’elenco degli abusi di potere e delle violenze mostra uno spaccato da incubo.
Il 17 novembre 2018 tre poliziotti portano una vittima in una stanza in cui non c’è nessuno. “Per quale reato sei detenuto?”, è la domanda che dà il via alle botte. Secondo l’accusa, il primo agente dà al detenuto uno schiaffo al volto. Il secondo mette i guanti, così può picchiarlo senza lasciare troppi segni: infierisce in pieno volto e sulla testa. Il terzo lo riempie di pugni alla schiena. Quando, dopo il pestaggio, il carcerato viene riportato nella sua cella, non è finita. Viene obbligato a stare in piedi contro il muro, di modo che lo vedano tutti i compagni che stanno per tornare dall’ora d’aria.
Le presunte torture sarebbero avvenute anche nei confronti dei malati. Come a un detenuto colpito da “una crisi psicomotoria e legato in barella”. Mentre era immobile, un agente “lo colpiva ripetutamente al volto facendogli sanguinare il naso”. Un altro carcerato, a terra sofferente in attesa del Tso, veniva invece “colpito ripetutamente con violenti pugni al costato”. Lui urlava, “i poliziotti ridevano”, scrive il pm. Sul perché avvenissero i pestaggi, non ci sarebbero molte spiegazioni. Se non la volontà di “punire” persone condannate per reati consideranti infamanti, come la violenza sessuale. La rabbia di volere attuare una sorta di perversa giustizia fai da te trapela dalle parole di un agente indagato, che dopo aver buttato giù dalle scale a calci un uomo, urla: “Ti ammazzerei, invece devo tutelarti”. O ancora: “Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia di stare qui”. L’accoglienza riservata a chi metteva piede per la prima volta nel carcere, è spiegata nella descrizione dei reati contestati a tre agenti. Al nuovo arrivato, ricostruisce il pm, consegnano il kit con le lenzuola, poi lo accompagnano in cella. Mentre sale le scale, lo atterrano con un calcio a gamba tesa: le ferite riportate lo faranno zoppicare per tre mesi. Il “neo giunto” sarà costretto a dormire sulla lastra di metallo del materasso. Lo priveranno, sempre secondo l’accusa, dell’ora d’aria e della possibilità di vedere un medico.