mercoledì 8 settembre 2010

B. minaccia Napolitano e manda avanti Minzolini - di Antonio Padellaro




Non è uno scherzo, ma ieri sera negli ambienti politici e nelle redazioni dei giornali si attendeva con curiosità l’“editoriale” del ventriloquo di Berlusconi, Minzolini, per capirci qualcosa nel casino di un governo ormai fuori controllo. Dagli schermi del Tg1, il portavoce del Caimano ha diramato gli ordini: elezioni al più presto e che Napolitano non si azzardi a fare “ribaltoni” con “governicchi” improvvisati. Sulla pretesa (bofonchiata da Bossi a nome del socio di Arcore) di far dimettere Finidalla presidenza della Camera, invece, silenzio. E si capisce, visto che è stata rispedita al mittente dal Quirinale e presa a ridere dallo stesso Fini (nel frattempo intervistato da Mentana). A questo punto, nel caos, restano poche cose certe.

1) Il 29 luglio B. espelle Fini dal
Pdl pensando che lo seguiranno in pochi. Si sbaglia. La consistenza dei gruppi parlamentari di Futuro e libertà è tale da far ballare la maggioranza.

2) La
Lega vuole il voto ma B. – sondaggi alla mano – sa che le elezioni sono un rischio. Per andare avanti chiede ai finiani di votare cinque punti generici del programma (da cui scompare l’indecente processo breve).

3) A
Mirabello Fini dice sì ai cinque punti, ma rivendica totale libertà d’azione mazzolando premier e colonnelli.

4) B. comprende che peggio del voto è farsi
logorare da Fini e gioca la carta dello sfascio. Se il nemico non sloggia, lui smette di far funzionare il Parlamento. E allora il capo dello Stato non potrà che sciogliere le Camere. E se invece cercasse una nuova maggioranza? Bè, ci pensa Minzolini.



No al razzismo, sì al pane - di Ettore Longhi

Francavilla, Puglia. Un consigliere comunale si inventa un'aggressione col coltello da parte di un immigrato nigeriano. Una panettiera lo smentisce, fa scarcerare il ragazzo e incriminare il politico per calunnia

(07 settembre 2010)
Alessandra LatartaraAlessandra LatartaraAlessandra Latartara fa la panettiera a Francavilla Fontana, comune di 35 mila abitanti in provincia di Brindisi noto per le sue splendide chiese un po' fatiscenti, le processioni della Settimana Santa e i dolci del luogo, le mandorle ricce. Il suo negozio si chiama "Voglia di pane" e sta in via Immacolata, a pochi passi da piazza Umberto I: insomma, in pieno centro. Non fa politica, non è un'eroina: ma forse un piccolo ringraziamento pubblico, nell'Italia del 2010, lo merita lo stesso.

La signora Latartara, nella tarda mattinata di lunedì 23 agosto, se ne sta come sempre al suo negozio. Subito fuori, a chiedere l'elemosina, c'è invece Friday Osas, immigrato nigeriano, 24 anni, a cui ogni tanto la panettiera allunga un po' focaccia. Ma quel 23 agosto in via Immacolata, proprio davanti a "Voglia di pane", è di passaggio Benedetto Proto, consigliere comunale del Pdl, già noto in città per aver promosso - tempo fa - le prime "ronde pugliesi" per vigilare sugli extracomunitari. Ignaro di questo pregresso, Friday chiede a Proto, come a tutti, qualche spicciolo, ma il consigliere gli risponde bruscamente di andarsene, che lì dà fastidio. Il nigeriano gli risponde, c'è qualche minuto di tensione, poi tutto sembra finire lì. Invece, continuando a camminare, Proto estrae il suo cellulare e, pochi minuti dopo ecco avvicinarsi al negozio due vigili urbani. L'immigrato li vede e, immediatamente, scappa. I due lo inseguono tra le vie del centro, come se fosse un rapinatore, lo acchiappano e lo arrestano. Il motivo? Il consigliere comunale sostiene che il nigeriano lo aveva minacciato con un coltello.

La panettiera, però, ha visto tutto. E lo ricorda benissimo: non c'è stata nessuna minaccia, né alcun coltello. Solo un paio di parole di troppo, più dal politico che dall'immigrato. Che fare? Proto è un personaggio di un certo peso, in città. Friday invece è solo un immigrato e un clochard. Alessandra ci pensa due giorni e due notti. Poi va dalla polizia a raccontare la verità: "Quello si è inventato tutto. L'unica cosa che Friday aveva in mano era un pezzo di focaccia che gli avevo dato io". Testimonianza poi confermata ai giornalisti locali e sotto giuramento, al processo per direttissima. E in udienza la panettiera va oltre: "Friday è un bravissimo ragazzo, non ha mai fatto del male a nessuno e aiuta gli invalidi in carrozzella a entrare nel mio negozio".


Alla fine quella della signora Latartara viene considerata una testimonianza credibile al punto che anche il pm, Giuseppe De Nozza, si convince dell'innocenza di Friday Osas e ne chiede l'assoluzione. Che infatti arriva pochi giorni dopo, con formula piena, e le scuse a nome di tutta la comunità. "Sono cristiano, non provo nessun rancore, conosco il valore del perdono", commenta il nigeriano uscito di galera. Proto invece si arrabbia: "Perché alla vista dei vigili l'immigrato è fuggito? Evidentemente aveva qualcosa da nascondere", insiste il consigliere comunale. Ma con poco successo, perché ora rischia l'imputazione per calunnia. E intanto - su pressione tanto non solo dell'opposizione ma anche di buona parte del suo partito - ha dovuto anche dimettersi da consigliere comunale: "Questa città non merita il mio impegno", ha scritto nella lettera d'addio.

'Happy end', dunque. Forse sì. Ma i siti locali raccontano che la panettiera in questi giorni ha ricevuto degli "avvertimenti". Non si sa di chi, non si sa perché. Ecco: Alessandra Latartara è solo una cittadina italiana per bene, come dovremmo essere tutti. Facciamo in modo che non diventi mai un'eroina.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/no-al-razzismo-si-al-pane/2133769

lunedì 6 settembre 2010

Se il Pd sceglie Schifani - Peter Gomez




È sbagliato paragonare agli “squadristi” i cittadini che hanno rumorosamente contestato la presenza di Renato Schifani alla festa del PD. Ieri a Torino, chi ha tentato di partecipare al dibattito pubblico tra il presidente del Senato e Piero Fassino, senza però poterlo fare a causa del servizio d’ordine, era infatti spinto non solo da una perfettamente legittima e democratica indignazione. A convincerlo alla protesta c’era pure un altro desiderio. Porre delle domande e avere delle spiegazioni. Ottenere dei chiarimenti sul passato della seconda carica dello Stato e sul tipo di attività professionale da lui svolta in favore di personaggi legati a Cosa Nostra.

Nell’ultimo anno, del resto, sebbene sul conto di Schifani siano emersi interrogativi di ogni tipo, nessuno in Parlamento ha detto una parola.
Il Fatto Quotidiano, assieme a pochi altri, con un duro lavoro d’inchiesta ha ricostruito parte della sua carriera di avvocato civilista e di affari. Ha fornito un primo elenco dei sui assistiti, i cui nomi erano fin qui rimasti segreti. E ha avanzato un quesito squisitamente politico: per il buon nome delle istituzioni è un bene o un male avere alla testa di Palazzo Madama un uomo che oggi si scopre aver fornito consulenze all’imprenditoria considerata mafiosa? È ovvio che gli eventuali aspetti penali della vita di Schifani siano di competenza della magistratura. In Parlamento non si può e non si deve discutere delle dichiarazioni, ancora da verificare, dei pentiti (Spatuzza e Campanella). Si può, e si deve, invece, discutere di fatti.

In ogni democrazia che si rispetti il primo potere di controllo su ciò che accade nelle istituzioni e sul loro decoro non è né dei giornali, né dei giudici, ma delle opposizioni. Il Partito Democratico sul caso Schifani (e su molti altri), però non lo ha esercitato. E continua a non esercitarlo. Invitare alla propria festa il presidente del Senato, senza prima avergli domandato di chiarire tutto, magari rendendo nota la lista completa della sua discutibile clientela e dell’attività di consulenza legale e paralegale svolta per essa, vuol dire non capire ciò che chiedono gli elettori. E soprattutto vuol dire venir meno a un proprio dovere. Perché i cittadini leggono, s’informano sul Web, e domandano di essere rappresentati. Non farlo, per la democrazia, è molto più grave di qualche fischio e urlo indirizzato, non verso un avversario politico, ma contro chi ostinatamente siede ai vertici delle istituzioni rifiutando la trasparenza
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NIENTE PAURA come siamo come eravamo e le canzoni di Luciano Ligabue - trailer




Su gentile suggerimento di un'amica che la pensa come me e come Ligabue che sto scoprendo tramite lei........

domenica 5 settembre 2010

Quando Schifani diceva: “E’ giusto fischiare” -



Una gazzarra intimidatoria“. Così il presidente Napolitano ha definito i fischi a Torino contro Schifani. Piero Fassino ha invece accusato di “squadrismo” i militanti viola e del movimento cinque stelle che alla festa dell’Unità di Torino sventolavano copie del Fatto di fronte al presidente del Senato. Ma anche Schifani ha voluto rispondere a chi lo contestava: “Siete un esempio di antidemocrazia – ha detto – perché volete impedire a due personalità politiche di parlare“. “Antidemocrazia”. Parola curiosa che evidentemente deve essere molto di moda da quando Schifani è a Palazzo Madama. Basta fare una breve ricerca nell’archivio Ansa, infatti, per vedere come quattro anni fa, quando non era ancora un “padre della patria”, Schifani aveva tutt’altre opinioni sui fischi alle “personalità politiche”.

Il 10 dicembre 2006, l’allora presidente del Consiglio Romano
Prodi è al Motor Show nella sua Bologna. Un gruppo di ragazzi lo fischia e lo contesta dentro e fuori gli stand. Cos’è? “Una gazzarra intimidatoria”?; “un esempio di antidemocrazia”? Per Schifani, allora capogruppo di Forza Italia in Senato, è “troppo semplicistico affermare che chi ha contestato Prodi a Bologna è solo un gruppo di propagandisti. Il professore chiude gli occhi di fronte ad una realtà che non gli piace e che ha colpevolmente determinato”. ”I fischi al Motor Show – continua Schifani nella dichiarazione di allora – sono l’ennesimo segnale della protesta diffusa in tutto il Paese contro questa Finanziaria… quello che sorprende è che oggi Prodi si sorprenda”.

La dichiarazione di Schifani si conclude con un invito: “
Il premier vada ogni giorno tra la gente comune: si renderà conto che le contestazioni della sua Bologna sono ben poca cosa“. Ipse Dixit.


Pier Paolo Pasolini


Sono riusciti a cambiarci, ci son riusciti, lo sai. - Alessandro Gilioli.



Ho visto in giro un podi video su quello che è successo a Torino.

Chi passa ogni tanto di di qui lo sa, io da sempre sono convinto che le idee sbagliate si combattano con le idee giuste, non con il rumore delle vuvuzele. Almeno, nel mondo in cui vorrei vivere.

Ma aldilà della già discussa questione di base (dove finisce la libertà di espressione di un Dell’Utri e di uno Schifani, e dove inizia la libertà di contestazione di chi desidera contestarli?) a me sembra che quello che sta succedendo adesso (appunto, l’altro giorno Dell’Utri, oggi Schifani e domani chissà) meriti un po’ di memoria su quello che è successo in questo benedetto paese negli ultimi anni.

Sì, perché i festival dell’Unità – oggi del Pd – sono come si sa il cascame di un’epoca in cui, più o meno, i partiti contrapposti si riconoscevano in un’unica Carta costituzionale e in una democrazia parlamentare rappresentativa. Quelli che non facevano parte del cosiddetto ‘arco costituzionale’ erano pochissimi: i missini da una parte e la sinistra extraparlamentare dall’altra. Infatti né i missini né quelli di Lotta Continua venivano invitati ai dibattiti nelle feste dell’Unità.

Non so se mi spiego: c’era, dal Pli al Pci, passando per tutti i partiti che stavano in mezzo, l’idea che la guerra civile fosse alle spalle da venti o trent’anni e che quindi ci si potesse confrontare riconoscendosi in regole democratiche condivise.

A un certo punto tutto questo è saltato.

Perché il potere politico e la gran parte di quello mediatico sono stati ingoiati da un avido gruppo di interessi a cui della Costituzione non fregava proprio nulla. Anzi, cercava (cerca) di liberarsene, se ne fa beffe e produce leggi dello Stato sapendo benissimo che sono incostituzionali, ma intanto salvano la ghirba al capo. Un gruppo di interessi che se ha un avversario non lo invita alle sue feste: lo consegna ai dossieratori di Feltri, lo fa pedinare dalle telecamere delle sue tivù, lo fa seguire dalle sue barbe finte a pagamento. Un gruppo di interessi che se perde le elezioni non riconosce la vittoria dell’avversario. Un gruppo di interessi che perfino i suoi ex alleati definiscono «rancido, servile e popolato di scagnozzi» al soldo del capo.

In questo contesto, sono saltate le regole di civiltà e di confronto: era inevitabile, e le hanno fatte saltare loro.

Mi piace questo? No, mi fa schifo. Al contrario di Beppe Grillo, io non gioisco affatto per quello che è accaduto a Milano. Perché con Grillo stasera stanno festeggiando anche Feltri, Schifani, Previti, Dell’Utri e sicuramente lo stesso Boss che li stipendia.

E perché – di nuovo – voglio vivere in una democrazia dove ci sono due o più schieramenti civili che sanno darsela di santa ragione con le idee, non con i dossier della maggioranza a cui si contrappongono le vuvuzele dell’opposizione.

Ma pare che questo oggi in Italia non sia più possibile.

A questo ci hanno ridotto quindici anni di berlusconismo. E sarà il caso di ricordarcelo e di ricordarlo, quando stasera le tivù – tutte – e domani i giornali – quasi tutti – ci offriranno un tripudio di “condanne”, “sdegni” ed “esecrazioni” per quello che è successo a Torino, senza provare nemmeno un secondo a raccontarci come sono riusciti – loro – ad arrivare a questo.

http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/09/04/sono-riusciti-a-cambiarci-ci-son-riusciti-lo-sai/