venerdì 30 settembre 2011

Napolitano sulla legge elettorale: “Si è rotto il rapporto di fiducia elettore-eletto”




Il capo dello Stato parla all'università Federico II di Napoli in occasione 
dei 150 anni dell'Unità e dice: "Non esiste un popolo padano. Stato 
Lombardo-Veneto? Grottesco".

L’attuale sistema elettorale, il “porcellum”, ha “rotto il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto”. Per questo “serve un nuovo sistema elettorale”. Così il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha commentato il trionfo della raccolta di firme per indire un referendum abrogativo dell’attuale legge elettorale. Lo ha fatto durante la sua visita a Napoli, nel discorso tenuto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II. “Non voglio idealizzare certo il sistema delle preferenze che vigeva prima – ha chiarito il Capo dello Stato – perchè tutti sappiamo quali limiti avesse ma certo che c’è la necessità di un meccanismo elettorale che faciliti un rapporto di fiducia tra elettori ed eletti”. Poi ha spiegato più nel dettaglio quali sono i limiti dell’attuale sistema, introdotto dalla legge che lo stesso relatore Roberto Calderoli definì “una porcata”: “In passato il sistema maggioritario uninominale creava un vincolo forte tra eletto ed elettore, adesso sembra che la cosa più importante sia mantenere buoni rapporti con chi ti nomina deputato”. Tra le varie pecche il difetto più grave individuato dal Capo dello Stato è quello delle liste bloccate perché “chi viene eletto in Parlamento “non ha più la necessità di mostrare competenza, attività, capacità di rappresentare il suo elettorato per non rischiare, la volta successiva, di non farcela con le preferenze. Ai miei tempi per queste cose si rischiava proprio di non essere rieletti. Oggi mi pare che non sia più così, è più importante avere buoni rapporti con il partito”.

Insomma, una nuova legge elettorale, per Napolitano, ci vuole assolutamente. “Non tocca a me fare nuove leggi”, ha precisato il Presidente, che però ha insistito sulla “facoltà dell’elettore di scegliere il candidato”.

Poi il Presidente ha parlato a lungo, davanti alla platea composta da docenti e da studenti, della situazione politica generale del Paese, e soffermandosi sui recenti e ripetuti proclami della Lega non ha esitato a chiarire: ”La sovranità appartiene al popolo e non c’è un popolo padano”. In occasione del 150esimo anniversario dell’Unità, Napolitano ha ripercorso alcune tappe fondamentali della storia del Paese, specie nei suoi passaggi istituzionali fondamentali. Non una lezione di storia, però, ma una riflessione sempre con gli occhi puntati all’oggi. E infatti, se da un lato ha definito “lecita” ogni discussione relativa ad eventuali riforme istituzionali, “purchè se ne discuta a livello parlamentare e con una rappresentanza delle Regioni”, dall’altro ha detto chiaro e tondo che “non c’è una via democratica per la secessione”.

E, quindi, se “dalla propaganda, le chiacchiere, lo sventolio di bandiere” si passa a parlare davvero di secessione, ha continuato il Presidente, cambiano radicalmente le cose. Quelle del Carroccio sono “grida che si levano dai prati con scarsa conoscenza della Costituzione”, ed è “grottesco proporre uno stato lombardo-veneto”. Poi ha ricordato: ” Nel ’43-’44 l’appena rinato Stato italiano, di fronte a un tentativo di organizzazione armata separatista, non esitò a intervenire in modo piuttosto pesante con la detenzione di Finocchiaro Aprile. Non si può cambiare il corso della Storia”.

Il Presidente ha tenuto il discorso all’università dopo essere arrivato nel capoluogo partenopeo in treno. E’ stato accolto, tra gli altri, dal sindaco Luigi De Magistris, dal presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro e da quello del Consiglio regionale, Paolo Romano. In mattinata ha visitato una mostra all’interno del Palazzo reale dedicata al contributo del sud per l’unità del Paese. In piazza del Plebiscito, poco dopo l’ingresso del Capo dello Stato alla mostra, è arrivato un presidio di cittadini che ha mostrato uno striscione con lo slogan: “Traffico rifiuti tossici Nord-Sud. Nessun colpevole, vergogna”. Il riferimento è all’inchiesta Cassiopea – quella che ha ispirato il libro Gomorra – chiusa con molti reati, tra cui l’associazione per delinquere, finiti in prescrizione.


San Raffaele, scatta l’inchiesta penale per bancarotta e false fatturazioni.

Ospedale San Raffaele © GettyImages


Ieri i pm milanesi Orsi e Pedio avevano presentato l'istanza di fallimento 
per l'istituto ospedaliero fondato da don Luigi Verzè. Tra gli elementi 
raccolti, i documenti rinvenuti nell'ufficio di Mario Cal, il manager che si 
è tolto la vita a luglio.

Dopo la richiesta di fallimento, per il crac del San Raffaele scatta l’inchiesta penale. I pm della Procura di Milano Luigi Orsi e Laura Pedio hanno aperto un’indagine a carico dell’ex management della fondazione per bancarotta, ostacolo agli organi di vigilanza e fatture false per operazioni inesistenti. Tra le fonti di prova valutate dalla Procura ci sono la documentazione rinvenuta nell’ufficio di Mario Cal, suicida lo scorso luglio, dall’attività della società di revisione Deloitte e le dichiarazioni dell’ex direttore finanziario Mario Valsecchi.

Al centro delle indagini ci sarebbe dunque il vecchio consiglio d’amministrazione del gruppo ospedaliero, guidato dal fondatore ed ex presidente don Luigi Verzè, ora presidente onorario con il nuovo consiglio supportato dallo Ior, la banca vaticana. Da quanto si è saputo, i pm Orsi e Pedio – coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Greco e dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati – hanno già iscritto diverse persone nel registro degli indagati. Tra questi figurerrebbe l’ex direttore finanziario Valsecchi, a cui verrebbero contestati proprio i reati di false fatturazioni e ostacolo alla vigilanza.

Ieri gli stessi pm avevano presentato un’istanza di fallimento per l’istituto, gravato da un buco di bilancio di un miliardo e mezzo di euro anche per le ingenti spese deliberate dall’amministrazione guidata da don Verzè in settori che nulla avevano a che fare con la sanità.


Forse l’Italia Fallirà. La Politica, di sicuro, è Già Fallita. - di Comandante Nebbia




Le diciassette pagine nella quali Confindustria descrive le cinque linee d’azione attraverso le quali ritiene sia necessario avviarsi per affrontare la crisi cercando di contenere al massimo i danni, rappresentano l’ufficializzazione formale di una vera e propria dichiarazione di fallimento per la politica italiana. Attenzione, non dell’azione di questo specifico governo, ma di quelli, di qualsiasi colore, che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Per non parlare delle opposizioni che, disertando colpevolmente il loro ruolo, hanno cavalcato demagogia e populismo senza produrre una sola proposta formalizzata.
Si può essere d’accordo o no con Confindustria, oppure condividerne solo in parte le proposte, ma non è questo il problema. Il disagio è è prendere atto del vuoto che consente un’azione di supplenza che un’associazione specificatamente di parte si assume a causa delle carenze della rappresentanzademocraticamente eletta.
Su queste stesse pagine, un nostro collaboratore aveva osservato come anche ai sindacati era stata fornita questa occasione e come sia stata disattesa da uno sciopero fine a se stesso che ha lasciato sul terreno solo cartacce e nessuna proposta fattiva.
E’ evidente che le proposte di Confindustria siano state formate e definite sulle basi di esigenze di parte, ma non se ne può fare una colpa alla Marcegaglia. Nel caos del naufragio, ciascuno cerca di sgottare la sua scialuppa. Ci vorrebbe un comandante che si preoccupi di mettere in salvo prima donne e bambini, ma il comandante è già lontano e osserva la sua nave affondare con criminale e cinica indifferenza.

Crozza- Zichichi

«Vi racconto perché Bossi è prigioniero di Berlusconi». di Marco Sarti



«Umberto Bossi vuole le elezioni? Alla fine dovrà fare quello che gli dice Silvio Berlusconi. Anche perché già da qualche anno il simbolo della Lega Nord appartiene al Cavaliere». La storia non è nuova. Un’indiscrezione che gira da tempo a Palazzo: nel 2005 il premier avrebbe finanziato il Carroccio, a un passo dalla bancarotta. In cambio, avrebbe chiesto e ottenuto la titolarità del logo del partito. Lo «spadone» di Alberto da Giussano. A confermare la vicenda è Rosanna Sapori, già consigliere comunale della Lega, membro del direttivo provinciale di Bergamo e, soprattutto, (ormai ex) celebre giornalista di Radio Padania Libera. «Nessuna invenzione - spiega la diretta interessata - l’ho detto più volte, anche in tv. E finora nessuno si è mai permesso di smentirmi».

«Umberto Bossi vuole le elezioni? Alla fine dovrà fare quello che gli dice Silvio Berlusconi. Anche perché già da qualche anno il simbolo della Lega Nord appartiene al Cavaliere». La storia non è nuova. Un’indiscrezione che gira da tempo a Palazzo: nel 2005 il premier avrebbe finanziato il Carroccio, a un passo dalla bancarotta. In cambio, avrebbe chiesto e ottenuto la titolarità del logo del partito. Lo «spadone» di Alberto da Giussano. A confermare la vicenda è Rosanna Sapori, già consigliere comunale della Lega, membro del direttivo provinciale di Bergamo e, soprattutto, (ormai ex) celebre giornalista di Radio Padania Libera. «Nessuna invenzione - spiega la diretta interessata - l’ho detto più volte, anche in tv. E finora nessuno si è mai permesso di smentirmi». E dire che fino a pochi anni fa Rosanna Sapori e Umberto Bossi erano grandi amici. «Con lui - continua la giornalista - ho sempre avuto un rapporto bellissimo. Una relazione che, a differenza di altre donne all’interno della Lega, non aveva alcuna implicazione sessuale». Il legame tra i due termina nel 2004, quando Rosanna viene cacciata da Radio Padania. Alla base di quella epurazione, racconta lei, ci sarebbe proprio il legame con il Senatur. «La nostra amicizia aveva creato molta invidia a via Bellerio. Non è un caso che mi licenziarono proprio durante la sua malattia». Nonostante tutto, Rosanna Sapori conserva un ottimo ricordo del leader della Lega: «Nella vita di tutti i giorni non era mica quello di Pontida. Lì recitava un ruolo: urlava e le sparava grosse perché la gente lo voleva così. Ma lui era tutt’altro. Una persona furba e capace. Con una enorme lungimiranza. Figurarsi che già sei anni fa odiava Gianfranco Fini. A Berlusconi lo diceva sempre: “Vedrai che questo qui prima o poi ti tradirà”». Un politico di razza, insomma. Ma anche un padre padrone. «Era un profondo conoscitore della psiche umana e del linguaggio del corpo. I suoi erano terrorizzati. Se ne prendeva di mira uno, lo massacrava. Lo insultava, lo umiliava. Godeva nel vederli prostrati davanti a lui». La presunta compravendita del simbolo? A sentire la Sapori, i problemi per la Lega iniziarono con la creazione di Credieuronord. «Per carità - rivela la giornalista, che ha raccontato questa vicenda nel libro “L’unto del Signore” di Ferruccio Pinotti - probabilmente quell’istituto di credito è nato con tante buone intenzioni. Anche se Bossi non ci ha mai creduto più di tanto». In realtà, in quegli anni il maggior sponsor di Credieuronord è proprio il Senatur. È Bossi a scrivere una lettera in cui invita i vertici del partito a sottoscrivere le quote della banca. «Sarà - continua la Sapori - ma lui in quel progetto ci mise solo 20 milioni di lire. Calderoli, per esempio, investì 50 milioni. Ricordo che molti parlamentari, anche per paura di non essere più ricandidati, ci buttarono un sacco di soldi». Il sogno bancario della Lega sfuma in poco tempo. Il bilancio 2003 dell'istituto di credito si chiude con 8 milioni di perdite. Nello stesso anno, un’ispezione di Bankitalia fa emergere il dissesto. «A quel punto Bossi, che forse aveva perso il controllo della banca - continua la Sapori - chiamò Giancarlo Giorgetti, suo confidente in materia finanziaria. Lo ricordo benissimo. Gli chiese: “Fammi capire cosa sta succedendo”. Giorgetti si recò nella sede della banca, a due passi da via Bellerio, entrò e non ne uscì per una settimana. Quando portò i conti a Bossi, gli disse molto chiaramente che rischiavano di andare tutti in galera». Misteriosamente, la Lega trova una via d’uscita. Nel 2005, la Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani interviene per rilevare Credieuronord. E Silvio Berlusconi cosa c’entra in tutta questa storia? «Fu lui a permettere l’intervento di Fiorani - spiega la Sapori -. In ogni caso i conti dissestati della Lega non derivavano mica solo dalla banca. C’erano già i problemi finanziari dell’Editoriale Nord, l’azienda cui facevano capo la radio, la tv e il giornale di partito. Il primo creditore di Bossi, poi, era proprio il presidente Berlusconi. Le innumerevoli querele per diffamazione che gli aveva fatto dopo il ribaltone del ’94, le aveva vinte quasi tutte. La Lega era piena di debiti. Si era imbarcata in un’interminabile serie di fantasiosi e poco redditizi progetti come il circo padano, l’orchestra padana. Non riuscivano a pagare i fornitori delle manifestazioni. Ricordo che allora erano sotto sequestro le rotative del giornale e i mobili di via Bellerio». Così, secondo il racconto della Sapori, il Cavaliere decide di ripianare i debiti del Carroccio. Facendosi dare, in cambio, la titolarità del simbolo del partito. «Glielo suggerì Aldo Brancher - ricorda la Sapori -. La titolarità del logo di Alberto da Giussano era di Umberto Bossi, della moglie Manuela Marrone e del senatore Giuseppe Leoni. Furono loro a firmare la cessione del simbolo. È tutto ratificato da un notaio». E aggiunge: «Fini questa storia la conosce benissimo - taglia corto la Sapori -. Qualche anno fa lui e il premier si incontrarono a cena a Milano. C’erano anche altri parlamentari del centrodestra. Quando qualcuno si lamentò del comportamento della Lega, il Cavaliere si alzò in piedi e annunciò: “Non preoccupatevi di Bossi, lui non tradirà più. Lo spadone è mio”». Secondo indiscrezioni, il simbolo del Carroccio costò a Berlusconi circa 70 miliardi di lire. Sulla cifra, però, Rosanna Sapori non si espone. «So solo che il Cavaliere tolse le querele, si preoccupò di salvare la banca. Ma non saldò tutto con un unico versamento. Non gli conveniva. Decise di pagare a rate».


La Casta reintroduce la maxi diaria all’estero E la camuffa dentro la ‘legge comunitaria’. - di Thomas Mackinson






A distanza di un anno, ritorna il super rimborso per le missioni dei 


funzionari ministeriali oltreconfine, peraltro mascherato all'interno di 


un provvedimento che decide tutt'altro. Il 31 maggio del 2010, il governo 


l'aveva eliminata in nome del taglio ai costi alla politica.


L'aula di Palazzo Madama
Anche la diaria all’estero tra i tagli ai costi della politica che escono dalla porta e rientrano dalla finestra. A distanza di un anno e sotto mentite spoglie. Succede con la curiosa vicenda della diaria per le missioni dei funzionari ministeriali all’estero, che il governo Berlusconi aveva deciso di abolire lo scorso anno con il decreto legge n.78, il quale prevedeva “misure urgenti” per la stabilizzazione economica. Tra le altre misure, all’articolo 4 veniva cancellato il contributo di circa 200 euro al giorno per parlamentari e funzionari con un risparmio stimato per il triennio di 2 milioni di euro. Il provvedimento viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 31 maggio del 2010 e viene data con enfasi alle agenzie di stampa a riprova che “non è vero che siamo la casta”.

Politici, sottosegretari e portaborse devono dunque accontentarsi del solo rimborso per le spese di viaggio e soggiorno. Arrotondare prolungando la permanenza all’estero non è più possibile. Forse. Perché poco più di un anno dopo la diaria cancellata con un tratto di penna con un tratto di penna ricompare. E’ contenuto tra le righe di una legge che nulla ha a che fare con i costi della politica. E’ il disegno di legge riguardante “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europea-legge comunitaria 2010″, relatrice la senatrice della Lega Nord Rossana Boldi. E’ la cosiddetta “legge comunitaria”, quella cioè che serve a recepire le direttive europee.

Il testo ha avuto un iter a dir poco tormentato e dopo vari passaggi è approdato in terza lettura al Senato dove alcuni onorevoli del Pd si sono accorti della sorpresa. L’articolo 4 cancellato nel 2010 è stato ripristinato nel 2011 con la formula: “il nuovo articolo 4 esclude dalla soppressione delle diarie per missioni all’estero, le missioni indispensabili ad assicurare la partecipazione a riunioni nell’ambito dei processi decisionali dell’Unione europea e degli organismi internazionali di cui l’Italia è parte, nonché alle missioni nei Paesi beneficiari degli aiuti erogati da parte dei medesimi organismi e dell’Unione europea”. Da qui la domanda a governo e maggioranza in commissione Affari Istituzionali: “Onorevoli colleghi di Pdl e Lega, state reintroducendo la diaria per le missioni all’estero che è stata tagliata lo scorso anno?”. “Con questo articolo – ha precisato la senatrice Marilena Adamo – si fanno tali e tante deroghe al taglio della diaria per le missioni all’estero – da vanificare quanto deciso lo scorso anno con il DL 78. A parte il fatto che l’articolo non ha la necessaria copertura di spesa e la materia è del tutto estranea alla legge comunitaria, la sua formulazione incomprensibile sembra più che altro voler nascondere una modesta furbata: è anche per questi mezzucci che perdiamo credibilità all’estero”.

Ma non è solo questo il motivo della polemica. L’Europa aspettava la legge comunitaria 2010 e l’avrà (forse) nel 2011. Il motivo del ritardo è presto detto: da novembre 2010 a luglio 2011 il governo è stato senza ministro per le Politiche comunitarie. Così la legge fa la navetta tra commissioni di Camera e Senato e nel suo peregrinare si riempie di articoli che nulla hanno a che fare con la legge. “Alla fine è una di quelle leggi-treno alle quali si aggiungono vagoni sperando che nessuno se ne accorga”, sostiene la senatrice ricordando che la legge nasceva con 11 articoli quando a novembre dello scorso anno è arrivata in Senato in prima lettura. Dal Senato esce con 18 articoli, sette in più. Torna alla Camera il 6 aprile e viene accantonata dalla maggioranza per lasciar spazio al processo breve.

Mentre la legge staziona in commissione arrivano i nuovi vagoni: il Pdl ne approfitta per inserire nuovi articoli che portano a 41 i punti della legge, molti del tutto estranei al suo scopo. Troppo. Così quando la legge torna all’ordine del giorno, stravolta, riceve emendamenti soppressivi e inaspettatamente passa il primo emendamento sul primo articolo che è quello istitutivo della legge stessa. Risultato: tutto il provvedimento decade. Si ricomincia. La legge viene riformulata e torna a 24 articoli ma tra questi compare qualcosa di nuovo, ma forse neppure troppo: quell’articolo 4 che reintroduce la diaria soppressa solo un anno prima.


Incidente nel tunnel Ginevra-Gran Sasso