martedì 7 agosto 2012

Coni, la Casta alle Olimpiadi. - Gianfrancesco Turano



Gli azzurri sono a caccia di medaglie ma i big del governo sportivo sono già al lavoro per il dopo Petrucci. Fra lobby, sprechi e molti milioni da gestire. Ecco il dietro le quinte di Londra 2012.

Ormai sono universi paralleli. Gli atleti olimpici si battono contro i migliori del mondo sotto gli occhi di miliardi di spettatori. Un solo errore e anni di preparazione massacrante finiscono in nulla. E poi ci sono loro, i mandarini dello sport nazionale presenti ai Giochi di Londra in folta delegazione. Non hanno l'incubo della gara e neppure dell'antidoping. Se la medaglia arriva, si offrono sorridenti alle telecamere. Se non arriva, poco male. Non è da quello che dipende la loro prossima rielezione, ma da una competizione politica dove sono imbattibili tanto da accumulare mandati su mandati, a volte cumulati con seggi in parlamento (Sabatino Aracu del pattinaggio, Paolo Barelli del nuoto).

Tra l'autunno del 2012 e l'inizio del 2013 tutto cambierà, in apparenza. Gli organi di governo dello sport italiano, prima le federazioni e poi il Coni, andranno al voto per essere rinnovati. I nuovi eletti, che saranno per lo più i vecchi rieletti, dovranno gestire i 409 milioni di euro girati allo sport dallo Stato (448 milioni del 2011 con 18 milioni di perdita). Ai soldi pubblici vanno aggiunte alcune decine di milioni di euro di ricavi vari dagli sponsor o dai cittadini che pagano l'ingresso alle piscine, alle piste e alle palestre.

Non male di questi tempi. Soprattutto perché i controlli sono facilmente aggirabili. E' raro che uno dei signori dello sport venga trovato positivo allo sperpero. Ma basta ficcare il naso in una delle 45 federazioni sportive nazionali (Fsn) affiliate per trovare una ricca casistica di sprechi.

Assunzioni a go-goIl vecchio Coni dei due Giulii (Onesti e Andreotti), pur avendo molti aspetti da carrozzone della Prima Repubblica, era un ente statale che svolgeva il doppio ruolo di sostegno allo sport di alto livello e di finanziamento all'attività di base. Poi nel 2002 il ministero dell'Economia Giulio Tremonti (Berlusconi III) decreta la nascita di una spa, Coni Servizi, controllata al cento per cento dal Coni, dunque dallo Stato, finanziata dal Coni (134 milioni nel 2011 e 143 nel 2012), sottoposta alla vigilanza della Corte dei conti, ma dotata della libertà di azione delle società di diritto privato. E' la moda del tempo. Si pensa di sveltire l'azione dei mastodonti pubblici aumentando i ricavi e abbattendo i costi. Soprattutto quelli del personale. 


Coni Servizi viene dotata di 2.615 dipendenti ex Coni o Fsn. Circa metà sono impiegati negli uffici centrali e periferici. L'altra metà rimane presso le federazioni. Tra il 2003 e il 2007 poco più di 1.400 di questi dipendenti viene mandato in pensione oppure trasferito verso altre società della pubblica amministrazione. Già questo è un gioco delle tre carte perché la riduzione di personale non comporta diminuzione di spesa per le casse pubbliche. In compenso, parte il festival delle assunzioni. Secondo i calcoli di Giovanni Paladini, deputato dell'Idv, dal 2003 al 2011 ci sono 1.076 nuove entrate. Solo dal 2008 al 2011, le Fsn prendono 854 persone a chiamata diretta, senza bandi né concorsi. Possono farlo. Le federazioni sportive sono associazioni private, pur ricevendo milioni di euro all'anno di finanziamenti del Coni.

Secondo i deputati Fli Benedetto Della Vedova e Aldo Di Biagio, «si è giunti a un totale di 2.279 unità che erano e restano a carico pubblico a cui vanno sommati i 1.400 dipendenti dismessi con contributi del Coni ente».
Chi ha accettato di trasferirsi dal Coni alle Fsn ha ricevuto inoltre incentivi economici e promozioni, oltre alla garanzia di potere rientrare dopo cinque anni. Un gruppo di 141 di lavoratori Coni servizi ha rifiutato il trasferimento per timore di essere meno tutelato ed è stato messo in mobilità a fine giugno. Il sindacato Ugl, che ha presentato un ricorso in tribunale e un esposto alla Corte dei Conti contro il provvedimento, ha calcolato che il sovraccarico reale annuo delle nuove assunzioni sia pari a 46 milioni di euro. Nel gruppo dei trasferiti spiccano i 130 finiti in Federcalcio; 59 di loro sono stati ulteriormente distaccati alla Lega calcio, che è un'associazione privata composta dai proprietari di club, evidentemente bisognosi di un sostegno in termini di manodopera mentre si dedicano a costose operazioni di mercato.


La chiamata diretta ha spesso premiato il merito del cognome o dell'amicizia. Marco Befera, figlio di Attilio, lavora ai servizi legali mentre Flavio Pagnozzi, figlio del segretario generale del Coni, è in forze a Equitalia, controllata dall'Agenzia delle entrate guidata da Befera. Stefano Calvigiani, ex di Radio Vaticana e protégé di Gianni Letta, è stato preso alla preparazione olimpica. Danilo Di Tommaso, ex moviolista al Processo di Biscardi detto "la voce di Moggi" per il suo stretto rapporto con Big Luciano, è alla guida dell'ufficio stampa dal 2007. Un gruppo di pensionati con buonuscita è rientrato in servizio a stretto giro. E' il caso del potente Giuseppe Rinalduzzi, che ha mantenuto ufficio e segretaria all'Olimpico di Roma, di Gianfranco Carabelli e Giuliano Grandi (Fidal servizi).

Le controllate incontrollateA gennaio 2012, il Coni ha stabilito che ci sono 79 esuberi complessivi nelle Fsn con alcune federazioni sotto organico e altre nettamente al di sopra. E' il caso degli sport equestri che hanno 73 dipendenti, quanto basket e pallavolo, e sono in esubero di 27. Queste cifre non tengono conto delle società di capitali che le Fsn, a loro volta, hanno creato. La Federtennis (Fit) ha ben tre controllate (Fit servizi, Sportcast e Mario Belardinelli) con 78 dipendenti. La sola Sportcast, il canale tematico del tennis, ha ricevuto 17 milioni di euro pubblici dal 2008 al 2010. La Coninet, creata nel 2004 per fornire servizi Web, ha solo sei dipendenti ma con un costo aziendale di 490 mila euro, incluso un "premio incentivante" da 33 mila euro versato con i ricavi in calo da 2,5 a 2,3 milioni di euro e un utile di 6.792 euro.
In crescita anche i costi del personale di Fidal servizi, nata nel 2008 e guidata dal vicepresidente della Fidal, il cagliaritano Adriano Rossi. I dipendenti sono passati da 35 a 53 e la spesa è cresciuta da 610 mila a 830 mila euro dal 2009 al 2010. Nel biennio sono stati inoltre spesi 200 mila euro per la fondamentale "ideazione e progettazione del marchio Fidal servizi". 


Palazzi d'oroIl 19 aprile scorso, il presidente del Coni Gianni Petrucci ha spedito una circolare ai presidenti delle Fsn per bloccare «l'acquisto in proprietà di sedi federali, a livello centrale e periferico». Il presidentissimo eletto nel 1999 e non rieleggibile prosegue: «Ritengo di dover sottolineare che operazioni di questo tipo, in prossimità della scadenza degli attuali mandati federali, appaiono poco opportune dal momento che impegnano per la loro natura pluriennale anche i futuri organi federali». Senza scriverlo, Petrucci si riferiva tra le altre alla Fip (pallacanestro) dove il presidente Dino Meneghin aveva pubblicato un invito per manifestare interesse a vendere immobili per una nuova sede della Fip in zona Roma nord con 2.200 metri quadri di uffici, mille di magazzino e 60 posti auto. Oltre a una lodevole cautela, si segnala tra i moventi della lettera di Petrucci la sua intenzione di candidarsi a presidente proprio della Fip alle prossime elezioni. 

Pentathlon alla pesareseIl pentathlon moderno, amato dal barone De Coubertin e solo per questo sopravvissuto finora ai tentativi di cancellazione dal programma olimpico, ha un seguito in calo ovunque nel mondo. In Italia ci sono meno di 20 atleti di livello internazionale. In proporzione, i 2,5 milioni di euro di budget della federazione (Fipm) sono una bella cifra a paragone dei 300 mila euro spesi dai tedeschi. I campioni degli anni Ottanta Daniele Masala e Carlo Massullo si allenavano al centro di preparazione olimpica (Cpo) di Montelibretti, a nord di Roma. Il Cpo è in stato di progressivo abbandono nonostante i 300 mila euro di manutenzione ordinaria annuale dichiarati sui bilanci. Nel 2009, si legge, "particolari eventi atmosferici hanno causato la caduta di alberi e lampioni". La spesa per il cataclisma è arrivata a 650 mila euro. Ma niente paura. La Fipm, presieduta dal 1997 dal pesarese Lucio Felicita costruirà un nuovo centro da 8 milioni di euro, a Pesaro. Il finanziamento dell'Istituto per il credito sportivo, nelle intenzioni, sarà ripagato con gli utili della Fipm. Utili inesistenti, a quanto è dato di vedere dai bilanci 2007, 2008 e 2009. Magari nel 2010 e nel 2011 c'è stato un boom di profitti. Si saprà con certezza quando la Fipm deciderà di pubblicare i documenti contabili. Ma l'oscurità dei rendiconti non è un problema che riguarda la sola Fipm.


Le federazioni che si sono conformate al diktat del Coni di mettere on line i bilanci sono una minoranza. Tra gli assenti ci sono molti sport popolari e ricchi come pallavolo e rugby. Per la palla ovale, Petrucci ha dovuto sollecitare più volte il presidente Giancarlo Dondi, un altro dei dinosauri dello sport italiano che non si ricandiderà dopo 16 anni. Mancano anche la boxe, i pesi, le arti marziali, l'hockey e molti altri mettono a disposizione consuntivi in poche agili paginette.

Anche in questo, c'è una misura di ipocrisia tipica dell'ambiente. Il Coni riceve i bilanci delle federazioni anno per anno. Se Petrucci teneva tanto alla trasparenza, poteva pubblicarli lui. Ha pur sempre 409 milioni di euro di buoni argomenti per convincere i recalcitranti.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/coni-la-casta-alle-olimpiadi/2188423/1111?google_editors_picks=true

Trattativa, la Procura generale apre indagine disciplinare su Pm di Palermo. - Giuseppe Lo Bianco e Antonella Mascali


Francesco Messineo

La Procura generale della Cassazione valuterà se mettere sotto processo disciplinare il Procuratore capo del capoluogo siciliano, Francesco Messineo e il suo sostituto, Nino Di Matteo. Si vuole verificare se quest'ultimo abbia violato il principio della riservatezza delle indagini e se il primo avesse autorizzato interviste alla stampa.


Il fascicolo è aperto, l’indagine disciplinare è avviata: la Procura generale della Cassazione ha già raccolto un sostanzioso carteggio in base al quale valuterà se mettere sotto processo disciplinare il Procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo e il suo sostituto, Nino Di Matteo, titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Cosa Nostra (con il Procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i pm Lia Sava e Francesco Del Bene). Secondo quanto risulta al Fatto il Procuratore generaleGianfranco Ciani ha ordinato al sostituto Pg Mario Fresa di verificare se Di Matteo abbia violato il principio della riservatezza delle indagini. E se il procuratore Messineo abbia o non abbia autorizzato il suo sostituto (sulla base della legge Mastella) a rilasciare interviste. I magistrati coinvolti non vogliono né confermare la notizia né tantomeno rilasciare dichiarazioni. Il procuratore Messineo risponde che, se la notizia fosse vera, “si tratterebbe di un fatto riservato sul quale non posso dire nulla”. Il pm Di Matteo cade dalle nuvole, ma si dice “tranquillo”. Il caso disciplinare ruota attorno a un’intervista del 22 giugno rilasciata da Di Matteo a Repubblica subito dopo che la vicenda Mancino-Quirinale finisce sui giornali. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari pubblica per primo alcuni spezzoni delle intercettazioni (depositate) tra l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, e Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente Giorgio NapolitanoIl Fattointervista D’Ambrosio, che conferma le conversazioni con Mancino.
Ma è il settimanale Panorama, con un’ anticipazione alle agenzie, a rivelare che in mano alla Procura di Palermo ci sono anche conversazioni telefoniche tra l’ex ministro e Napolitano. E quando l’intervistatrice di Repubblica ne chiede conferma a Di Matteo, il pm risponde prudente: “Negli atti depositati (sono le conclusioni dell’inchiesta trattativa, ndr) non c’è traccia di conversazioni con il capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti”. Alla domanda in merito alla distruzione delle telefonate non depositate (non solo quelle con la voce del Presidente, ma tutte le altre), Di Matteo risponde: “Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”. Ecco, sono questi i passaggi dell’intervista che vengono vagliati con la lente di ingrandimento dalla Procura generale della Cassazione guidata da Ciani. Lo stesso che, su input del Quirinale, chiese invano un intervento del procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, sui magistrati di Palermo , su richiesta e a favore di Mancino. L’intervista di Di Matteo, secondo indiscrezioni, sarebbe uno dei motivi che hanno portato il Presidente della Repubblica a sollevare il conflitto contro la Procura di Palermo davanti alla Corte costituzionale. Sarebbe stata letta quasi come una sfida, una mancanza di rispetto istituzionale. Per le dichiarazioni di giugno a Repubblica, Di Matteo, senza essere citato per nome, aveva ricevuto una sorta di preavviso di azione disciplinare a mezzo stampa sulla prima pagina dello stesso quotidiano nell’editoriale domenicale, di Scalfari del 29 luglio. Che, a proposito della morte per infarto di D’Ambrosio, aveva scritto: “I procuratori di Palermo non possono essere tacciati d’aver fatto campagna contro D’Ambrosio. L’hanno interrogato, ma questo entrava nei loro diritti-doveri di titolari dell’azione penale. I loro uffici tuttavia hanno provvisto di munizioni alcuni dei giornali che si sono distinti in questa campagna. Dico i loro uffici. Può esser stato un addetto alla polizia giudiziaria, un cancelliere, un usciere dedito a frugar nei cassetti e nelle casseforti (in realtà si trattava di atti depositati alle parti, dunque non più segreti, ndr). Oppure uno di quei procuratori che comunque avrebbero avuto il dovere di aprire immediatamente un’inchiesta sulla fuga di notizie secretate. Ricordo che la notizia dell’intercettazione indiretta del presidente della Repubblica è stata data addirittura da uno di quei quattro procuratori (leggi Nino Di Matteo, ndr) in un’intervista al nostro giornale”. Dunque il fondatore di Repubblica accusava Di Matteo di essere venuto meno ai suoi doveri d’ufficio con un’inesistente fuga di notizie su Napolitano: eppure, nell’intervista incriminata, era la giornalista di Repubblica a domandargli delle telefonate del Colle, dopo le rivelazioni del berlusconiano Panorama.
Ora il Pg della Cassazione deve decidere, in base alla documentazione acquisita, se formulare un capo di incolpazione davanti alla Sezione disciplinare del Csm, o archiviare. Un pericolo che Messineo e Di Matteo condividono con il Pg di Caltanissetta, Roberto Scarpinato. Sul tavolo del Pg della Cassazione, così come su quello della Prima commissione del Csm, è finito il discorso di Scarpinato del 19 luglio in via D’Amelio a Palermo, per i 20 anni dalla strage. In quell’occasione il magistrato, leggendo una lettera ideale a Paolo Borsellino, spiegò perché da tempo diserta le cerimonie ufficiali: per non incontrare autorità “la cui condotta di vita sembra essere la negazione dei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere”. Proprio Messineo e Scarpinato hanno fatto domanda per il posto vacante di procuratore generale di Palermo. La Quinta commissione del Csm ha votato 3 a 2 per Messineo. Ma i giochi a settembre, in vista del voto definitivo del Plenum, sono destinati a riaprirsi proprio per i procedimenti sui due magistrati. Colpevoli, entrambi, di indagare su stragi e trattative.

Monti: “Con Berlusconi spread a 1.200”. Poi si scusa, ma il Pdl lo punisce.


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Il professore al Wall Street Journal: "Valori ancora alti perché il nostro debito è oggettivamente molto alto e i mercati hanno iniziato a realizzare drammaticamente che il governo dell'Eurozona è debole. In Francia molte meno riforme di noi".

”Se il precedente governo fosse ancora in carica, ora lo spread italiano sarebbe a 1.200 o qualcosa di simile”. La polemica sull’intervista a Der Spiegel è ancora calda, ma Mario Monti invece che di quello tedesco dovrà occuparsi del fronte interno. Il Wall Street Journal  ha infatti deciso di pubblicare proprio oggi un’altra intervista del premier destinata a sollevare un polverone. Per quanto i pompieri di Palazzo Chigi siano subito corsi ai ripari,  precisando che non c’è alcuna intenzione polemica nei confronti del passato esecutivo e che la stima di uno spread a 1.200 viene da una proiezione degli effetti della speculazione sul nostro Paese se non si fossero dati segni di discontinuità con il passato, il giudizio espresso da Monti sul suo predecessore, per di più alla testata economica del gruppo Murdoch, sembra infatti inequivocabile. Quanto al proprio operato  e al giudizio dei mercati, per Monti “gli spread sono ancora alti perche’ il nostro debito e’ oggettivamente molto alto e i mercati hanno iniziato a realizzare drammaticamente che il governo dell’eurozona e’ debole. La Francia ha fatto molte meno riforme che noi abbiamo fatto e tuttavia i suoi spread sono più bassi. Credo che la ragione è che la gente crede che la Germania non lascerà mai andare la Francia”. Secondo la Germania, ha proseguito il premier, “se il mercato si costringe a pagare dei tassi piu’ alti per definizione questo significa che non si e’ fatto abbastanza per la propria economia”. Una visione, secondo Monti “che riflette i timori di un affossamento dell’euro”. 
Ma non solo di Berlusconi e della Germania ha parlato Monti il mese scorso al quotidiano economico che ne ha tessuto le lodi definendolo ”un’anomalia in Europa: un leader non eletto chiamato a realizzare quei cambiamenti impopolari che i politici si rifiutano di fare”. Ce n’è stato anche per gli italiani, la cui mentalità il premier si augurava di cambiare, “non sostituendola con quella tedesca, ma ci sono degli aspetti – come la solidarietà spinta a livello di collusione – che sono alla base di comportamenti come l’evasione fiscale”. Anche perché ”le riforme fatte finora dal governo non bastano a rimettere l’Italia in forma, occorre che mettano bene radici nei comportamenti degli italiani in modo da sopravvivere anche a governi vecchio stile”. Un pensiero, poi, per i sindacati, ai quali il presidente del consiglio, interpellato dal giornalista sul frequente ricorso dei governi italiani al negoziato con Confindustria e sindacati ricorda di aver “sempre ritenuto che la concertazione sia stata una pratica utilizzata in modo troppo esteso in passato”, anche perché “è come il dentifricio: se non lo chiudi, finisce tutto fuori”.
Premesse in linea con la conclusione. “La mia aspirazione non è essere amato. Ma è che il mio Governo sia rispettato e credibile”, ha chiosato sostenendo che “il mio lavoro ha trasformato la mia popolarità, che all’inizio era al 72% e ora è al 40%, in impopolarità a causa delle necessarie misure. Qualcuno dice che abbiamo fatto di meno sulle liberalizzazioni perché non volevo essere odiato dai farmacisti; questo non è vero. Io ho dovuto calcolare quel minimo consenso di cui avevo bisogno tra i partiti politici italiani per poter far passare le leggi”.  Non solo. “So che noi non siamo riconosciuti come salvatori della Patria. Ma sono convinto che abbiamo salvato la situazione e so che stiamo parlando con MerkelObama e Hollande su come andare avanti invece di essere a Roma a ospitare la troika”. Alle critiche di aver negoziato troppo con la classe politica Monti ha invece fatto l’esempio di Obama “che lo fa tutto il tempo”. “Ci sono persone – ha detto – che pensano che i partiti siano in tale cattiva forma che non ci metterebbe mai sotto in Parlamento. Io però  non ne sono sicuro perché l’esito di un voto parlamentare  può in certe circostanze essere imprevedibile. Se le misure che io decido andassero sotto in Parlamento che cosa succederebbe?  Devo prendermi io questa responsabilità. Sarebbe come mettere avanti il mio interesse – ovvero quello di non parlare con i partiti – all’interesse nazionale”. 
Immediate le reazioni della controparte politica. ”Capiamo che puo’ risultare sgradito il fatto che il saliscendi degli spread sta avvenendo anche durante il suo governo e che ciò può averlo innervosito, ma questo non giustifica una provocazione tanto inutile quanto stupida che rinviamo al mittente”, ha replicato a stretto giro il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. ”Mentre il Parlamento vota fiducie a raffica sarebbe bene che il comportamento di Monti fosse più equilibrato e rispettoso. Ci si potrebbe anche stufare prima o poi”, gli ha fatto eco Maurizio Gasparri. La dimostrazione è arrivata subito dopo con i deputati del Pdl che hanno fatto andare sotto il governo su un ordine del giorno del decreto per la spending review sulle risorse da destinare a giustizia e sicurezza. “Lo abbiamo fatto apposta – ha spiegato il tesoriere del gruppo Pietro Laffranco – per protesta contro le parole di Monti su Berlusconi. Ha detto una sacrosanta sciocchezza e noi abbiamo voluto lanciare un segnale”Poco dopo al Senato il Pdl ha fatto mancare  il numero legale nell’aula del Senato per ben quattro volte. In base al regolamento questo certifica la fine della seduta che è anche l’ultima prima della pausa estiva la presidente di turno Emma Bonino ha riconvocato l’aula per il 6 settembreLa situazione si è fatta quindi talmente incandescente che Monti ha dovuto chiamare Berlusconi per tentare di ricucire dicendosi “dispiaciuto che una banale e astratta estrapolazione di tendenza di valori dello spread contenuta in un colloquio di ampio respiro con il WSJ, sia stata colta come una considerazione di carattere politico, il che non rientrava per nulla nelle sue intenzioni”, come ha riferito una nota di Palazzo Chigi.

lunedì 6 agosto 2012

Brucia la Sicilia, addio riserva dello Zingaro.


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Caldo e fiamme in tutta l'isola. Il sindaco di San Vito Lo Capo: "E' andato tutto in fumo, abbiamo perso l'area naturale più importante". Orlando in visita alla discarica di Bellolampo: "Dietro gli incendi, interessi criminali".

La morsa del caldo e degli incendi stringe la Sicilia. Sono una quindicina al momento i fronti su cui si lavora per domare le fiamme, divampate su tutto il territorio regionale. Per far fronte all'emergenza sono al lavoro sia squadre di terra che i Canadair.

E' allarme sosprattutto tra le province di Palermo e Trapani. Ed è proprio nel trapanese che è bruciata la riserva naturale dello Zingaro dove è stato necessario evacuare gli ospiti del villaggio Calampiso a scopo precauzionale.

I villeggianti hanno dovuto trascorrere la notte fuori dalla struttura alberghiera prima di rientrare in possesso dei propri alloggi. Le fiamme si sono estese tra le località balneari di San Vito Lo Capo, Castelluzzo, Alcamo e Castellammare.

Gli aerei della Protezione civile e della Forestale, inoltre, sono impegnati a Castronovo di Sicilia, in provincia di Palermo. Così come nei comuni dell'hinterland palermitano. Da Monreale a Castelbuono. In provincia di Messina roghi si registrano a Librizzi, dove un forestale è rimasto ferito precipitando in una scarpata, a Santa Lucia del Mela e a Mistretta.
Incendi poi sono registrati a Modica, in provncia di Ragusa; a Linguaglossa, in provincia di Catania; e ad Avola, nel Siracusano. In provincia di Ragusa, un anziano di 81 anni è rimasto ustionato nel rogo scoppiato vicino Modica.

Dramma "Zingaro" - E' un vero e proprio dramma quello che sta vivendo il comune di San Vito Lo Capo che ha perso il suo gioiello, la riserva dello Zingaro. "E' andato tutto in fumo" il grido disperato del sindaco Matteo Rizzo. "L'incendio di una delle più belle aree naturali della Sicilia si è spento solo perché non c'era più niente da bruciare".
Da qui, la denuncia: "Siamo rimasti soli a fronteggiare l'emergenza con i vigili del fuoco, il personale della Protezione civile e della Forestale cui va il mio plauso - dice il sindaco - Non sono intervenuti i mezzi Canadair, nè i mezzi aerei, gli unici che avrebbero potuto fermare le fiamme. Le nostre richieste sono cadute nel vuoto. Mi rendo conto che domenica in Sicilia c'erano numerosi incendi e che la situazione era piuttosto seria, ma è inconcepibile che una delle più belle riserve della Sicilia, oltre che la più antica, vada in fumo senza che si alzi un dito''.
In fiamme discarica di Bellolampo - L'incendio nella discarica di Bellolampo, che brucia ininterrottamente da quasi nove giorni, finalmente "è quasi domato", come spiega questa mattina il comandante dei vigili del fuoco di Palermo, Gaetano Vallefuoco. Anche oggi, i vigili del fuoco, il corpo forestale, la Protezione civile e l'Amia sono sul luogo per continuare a ricoprire di terra il terreno andato a fuoco, mentre non sono più in azione i canadair che in una settimana hanno effettuato centinaia di lanci d'acqua. Questa mattina, alle 9, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, effettuerà un sopralluogo per verificare di persona la sitiazione. Intanto, oggi pomeriggio si riunirà all'assessorato regionale della Salute un tavolo tecnico con la partecipazione di tutte le componenti coinvolte nella gestione dell'emergenza provocata dal rogo nella discarica palermitana di Bellolampo, a cominciare da Arpa Sicilia, Azienda sanitaria provinciale e Comune. Si attendono infatti tra domani e mercoledì i dati delle analisi eseguite per verificare la presenza di diossina nell'aria. E questa sera, a Borgo Nuovo, si terrà, un incontro pubblico con la cittadinanza preoccupata per l'incendio. (da Palermo Today)

La rabbia di Orlando - "Credo che sia necessario sottolineare come attorno al ciclo dei rifiuti in generale, e attorno all'Amia in particolare, possano esserci interessi criminali volti a mettere in difficoltà la cittadinanza e a produrre sprechi tipici di una economia di emergenza". Lo ha detto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che stamani ha effettuato un sopralluogo nella discarica di Bellolampo, interessata da otto giorni da un vasto incendio.

"L'avvio di una nuova amministrazione comunale dichiaratamente di rottura rispetto al malgoverno della città e agli sprechi criminali realizzati dalla dirigenza dell'Amia - ha detto Orlando - così come la imminente campagna elettorale regionale possono essere motivi di manovre strumentali da parte delle organizzazioni criminali e occasione per mettere in atto azioni a favore di interessi inconfessabili volti a determinare il tracollo dell'Amia e il passaggio della stessa nelle mani di immancabili gruppi speculativi che sono gli stessi che hanno messo in ginocchio Palermo e la Sicilia".

Durante il sopralluogo, Orlando ha notato "l'assoluta mancanza di elementari condizioni di sicurezza per i lavoratori e di prevenzione degli incendi nella discarica. E' evidente - ha proseguito il sindaco - che la città e l'Amministrazione comunale non possono sopportare una condizione di degrado aggravata dagli ingenti costi necessari per fronteggiare situazioni di emergenza come quella attuale". "

Paura a Messina - Un operaio forestale è precipitato in un burrone mentre tentava di spegnere un incendio che da due giorni interessa la località Pietrasanta, nel comune di Librizzi (Me). Luigi Truglio è stato recuperato da una squadra di forestali, dai carabinieri e dai volontari comunali di protezione civile guidati dal sindaco di Librizzi Renato Cilona; i soccorsi sono durati tre ore. Il ferito è stato trasferito in elicottero del 118 nell'ospedale di Messina.

Olimpiadi Londra - Campriani, settimo oro per l'Italia con la carabina.

Campriani
Niccolò Campriani conquista l'oro dopo aver vinto l'argento (Getty Images)

http://sport.sky.it/sport/olimpiadi/londra_2012/2012/08/06/londra_2012_italia_oro_campriani_carabina_bronzo_morandi_anelli.html

Caro Emanuele, questa non me la bevo. - Giuseppe Casarrubea


Lo storico Giuseppe Casarrubea
Nella recente controversia tra Ingroia e Macaluso sulla trattativa Stato-mafia, ci sono diversi punti non chiariti. Forse vale la pena tentare di renderli meno confusi. Con una pregiudiziale sulla quale non si può discutere: i magistrati facciano il loro dovere, come stanno facendo.  E quelli che si dilettano con la penna in disquisizioni varie, utilizzino come gli pare il loro tempo. Ma senza prendere persone e cose sottogamba o, peggio ancora, a pedate o a scappellotti come facevano i maestrini, quando usavano la bacchetta. E’ troppo comodo farlo. E anche disdicevole per molti pennivendoli che, oggi più che mai, si dànno a delegittimare il prezioso lavoro dei magistrati, fondamentale alla nostra democrazia. Come aveva previsto e scritto Giovanni Falcone.
A Emanuele Macaluso, che conosco dai miei tempi di militanza nel Pci negli anni Settanta, devo dire che i suoi recenti articoli su Ingroia non mi hanno aiutato nella direzione sperata e per questo vengo a interrogarmi e a interrogarlo.
Perchè tentare di sminuire i caratteri e la consistenza della trattativa tra Stato e mafia è irragionevole. Fa a pugni con la storia che è sempre maestra di vita. Così un vecchio militante del Pci come lui, non può alterare il senso delle cose. Dovrebbe dare ad esse il giusto peso, la direzione che hanno avuto, visto, peraltro, che il nostro ex senatore è stato un dirigente nazionale del Pci e direttore de l’Unità.
Per questo non può venirci a raccontare che “il grande compromesso tra mafia e Dc” risale al 1948. A quella data i giochi erano stati già fatti. Bastò un anno, come egli stesso fa notare. Dalle regionali siciliane del 1947, quando il Blocco del popolo ebbe la maggioranza relativa dei voti, alle politiche del 1948, quando la Dc sfiorò la maggioranza assoluta. In Italia. Ma anche in Sicilia, dove si sarebbe dovuto formare, già dall’anno precedente, un governo di centro-sinistra con il contributo del partito di Sturzo, e invece ci furono prima la strage di Portella della Ginestra e, dopo, il governo di centro-destra. La sequenza fu questa: strage, rinvio all’opposizione della sinistra, che aveva vinto le elezioni regionali,  sbarco dei comunisti dal governo di De Gasperi.
Ma ci fu di peggio al momento del trionfo della democrazia cristiana: la completa decapitazione del movimento sindacale siciliano. Dalla strage di Alia (settembre 1946) alle stragi di Messina (marzo 1947) e di Partinico (22 giugno 1947).
Macaluso sa bene che non furono quattro, dunque, i sindacalisti ammazzati, come incredibilmente scrive su l’Unità del 1° agosto scorso. La mafia, con l’accordo della Dc, provvide a una loro decapitazione sistematica. Il che è cosa ben diversa da quella che egli narra. Tanto più se si pensa che per diversi di loro, come Accursio Miraglia di Sciacca e Calogero Cangelosi  di Camporeale, non si arrivò neppure a una fase processuale. Si faceva così allora, nel silenzio generale: socialisti e comunisti venivano ammazzati e i tribunali non arrivavano neanche a istruire un processo. Tutti contenti. Mi sono sempre interrogato su questo punto e sempre mi sono dato una sola risposta. I morti, i caduti venivano richiamati nei comizi. Ma nulla di più. Non servivano per la verità e la giustizia. La prima veniva deviata, la seconda resa impossibile.
Portella è una cartina di tornasole. Macaluso ci dice poco in merito. Dovrebbe ricordare gli articoli di prima pagina de l’Unità del 1947 usciti nel primo semestre di questo fatidico anno di piombo. Non c’era compagno che non sapesse che dietro figure losche come il bandito di Montelepre si annidavano le fecce più nauseabonde della Rsi e del neofascismo dell’epoca. E Macaluso sa bene che il suo dovere di militante storico della sinistra gli impone di dubitare di molte versioni propalate dal sistema di potere come verità indiscusse, specie quando fondate su falsi rapporti, su depistaggi, su conflitti mai avvenuti, sulla distorsione intenzionale della verità. Cosa che fecero ampiamente uomini dell’Arma che nulla avevano da invidiare a Mori o Subranni, come il colonnello Ugo Luca e il capitano Antonio Perenze, un agente segreto attivo già all’epoca del nazifascismo.
E’ strano perciò che egli releghi ancora oggi la vicenda di Portella o gli assalti alle Camere del lavoro all’esclusiva responsabilità di Giuliano. Furono opera di un accordo in cui mafia, Servizi e Stato agirono all’unisono. Come cercò di spiegare Gaspare Pisciotta quando disse al giudice di Viterbo Tiberio Gracco D’Agostino: “Siamo una cosa sola come il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Non capisco, quindi, come egli possa scrivere: “Non ci furono trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti, notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e frequentavano familiarmente i capi della Dc siciliana”.
Questi amici che si incontrano per caso nei salotti dei palazzi nobiliari sono gli stessi che stipulano accordi a Roma, con criminali e banditi, sono l’aristocrazia nera, criminali che si dànno appuntamento nei pressi delle abitazioni del principe Borghese e di Nino Buttazzoni, o del segretario monarchico Covelli, al bar del Traforo (ancora esistente fino a qualche anno fa), a piazza San Silvestro o in via dei Due Macelli e che poi decidono al Viminale o nelle sedi romane della Dc, o in qualche convento, come meglio fare a evitare che l’Italia sia consegnata ai comunisti, alla sinistra.
Come è pensabile che una vecchia volpe come Macaluso non sappia queste cose? E come può egli ritenere che stragi di quelle proporzioni non avessero una copertura internazionale per un Paese strategico della guerra fredda? Eppure il Nostro scrive: “Senza trattative la mafia, che aveva sostenuto i liberali, i separatisti, i monarchici transitò nel partito che ormai deteneva il potere. Con la benedizione del cardinale Ruffini. La rivista di Giuseppe Dossetti ‘Cronache sociali’ documentò il transito guidato dalla mafia di elettori dai collegi di Vittorio Emanuele Orlando, nel palermitano, alla Dc”.
Per questo il vecchio senatore si riferisce al blocco anticomunista del 1948 che vedeva la mafia “parte del sistema, nel ‘quieto vivere’”. E aggiunge che i democristiani di spicco pensavano “di poter ‘governare’ una convivenza con la mafia nella ‘legalità’ consentita dai tempi”. Ma quale metro avevano i comunisti come lui per valutare il superamento del grado di ‘legalità’ consentito dai tempi? Certo è che Macaluso non era Pio La Torre, la cui tolleranza della ‘convivenza con la mafia’ era zero. Pio La Torre che contro i latifondisti e gli agrari aveva combattutto e che per queste lotte aveva fatto la galera, per poi morire ammazzato assieme a Rosario Di Salvo negli anni della guerra contro i missili atomici a Comiso. E il varo della prima legge antimafia, quando l’associazione mafiosa diventa un crimine per lo Stato (1982).
Resta un’altra piccola questione che Macaluso dovrebbe spiegare. Questo ‘quieto vivere’ interessava solo la Dc o faceva parte di una strategia politica generale che investiva anche certi ambienti del Pci? Voglio dire i vertici comunisti. Perché, analogamente a quanto avveniva con i carabinieri, per lo più giovani ragazzi del Nord, mandati al macello in una vera e propria guerra che essi combattevano per un ideale e per un pezzo di pane, allo stesso modo forse si realizzava, a livello territoriale, una carneficina di teste pensanti e oneste del sindacalismo di sinistra, mentre ai piani alti si sognava il processo democratico. La mia non è un’affermazione, né tanto meno una provocazione, ma una domanda che è mio dovere pormi, per saperne un po’ di più di questa nostra storia nazionale in parte retorica e in gran parte a colabrodo. E senza verità.
Come sono certamente i casi di: Moro, Chinnici, Terranova, Mattarella, Boris Giuliano, Costa, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino.
Nel 1993 succede qualcosa di analogo al 1947. La sinistra vince in quasi tutti i grandi Comuni italiani. A Palermo Leoluca Orlando ottiene il 70% dei consensi. Si intravede la vittoria politica delle sinistre sul piano nazionale. Invece arriva  Berlusconi. E’ di nuovo la paura a trionfare, dopo il segnale dell’uccisione di Lima, il pupillo di Andreotti in Sicilia. E così tornano gli anni di piombo che questa volta sono al tritolo. Macaluso stranamente nega la trattativa e dice che manca questa volta la “contropartita”. Ma come si fa a credergli? Non c’è solo il 41 bis. C’è qualcosa di più grave, di pesante. Il potere, la legittimazione al potere che Cosa Nostra aveva sempre avuto. E’ possibile che Macaluso non lo sappia?
Giuseppe Casarrubea

L'Italia brucia, in azione elicotteri e canadair.



Almeno 30 incendi hanno richiesto l'intervento aereo.


Sono 30 gli incendi che oggi hanno richiesto l'intervento, in supporto alle squadre di terra, di elicotteri e Canadair della flotta dello Stato. Il maggior numero di richieste al Dipartimento della Protezione Civile è arrivato dalla Sicilia, con nove richieste di intervento, seguita da Campania e Lazio (6), Puglia (3), Abruzzo (2), Basilicata, Calabria, Sardegna e Umbria (1). Al momento risultano spenti o sotto controllo 13 roghi mentre su altri 17 stanno lavorando undici Canadair, otto fire-boss, tre elicotteri S64, un Ab412 e un CH47.
 Un vasto incendio che si è sviluppato a Castelluzzo, frazione di San Vito Lo Capo (Tp), bruciando alberi e macchia mediterranea, ha anche circondato alcuni tratti della strada che porta alla località turistica impedendo per ora i collegamenti. Alcuni automobilisti impauriti hanno lasciato l'auto e si sono allontanati a piedi per paura di finire avvolti dalle fiamme.
 Un incendio è divampato nella riserva naturale dello Zingaro nel Trapanese. E' in corso l'evacuazione del villaggio turistico Calampiso. Alle operazioni antincendio partecipano forestali, vigili del fuoco, polizia, carabinieri. Sono in azione anche mezzi aerei.